giovedì 31 gennaio 2008

Fine del mondo: a ciascuno la sua

Corriere della sera, giovedi, 14 gennaio 1999
MILLENNIO. Giuseppe Conte rivisita in un saggio tutte le dei miti e delle religioni. Comprese le angosce del '900 che tramonta
Fine del mondo: a ciascuno la sua

Il libro: di Giuseppe Conte, ed. Rizzoli, lire 30.000, pag. 290.
Cesare Medail

Mentre si chiude il millennio, è fatale che si parli di finimondo, cioè della fine dei tempi: guerra, morte ecologica, asteroidi impazziti. L'angoscia della fine, però, è vecchia come il mondo poiché l'idea di precarietà individuale e cosmica ci acc ompagna da sempre, come spiega Giuseppe Conte nel libro Il sonno degli dei, dove lo scrittore-poeta rivisita, come in un romanzo, i miti della fine in relazione alle ansie del presente. Gli uomini hanno sempre creduto nel finimondo, ma in modi dive rsi. Gli Aztechi e i Maya, per esempio, ma anche la Germania nazista e il Giappone imperiale, più che da fratture cosmiche furono ossessionati dalla fine storica della loro stirpe. La fissazione di Aztechi e Maya per i vaticini catastrofici finì per favorire la rovina del loro mondo: e i conquistatori furono contrastati con sacrifici umani agli dei più che con le armi. Saltando al '900, la stessa parabola di Hitler è coerente con la mitologia germanica pervasa di nichilismo. Un vero «crepuscol o degli dei» fu allestito, nel Bunker di Berlino, con tutti i simboli delle apocalissi germaniche: il lupo (il Führer si faceva chiamare Herr Wolf), i «cuori di ghiaccio» e il fuoco distruttore. Un'altra apocalisse storica travolse il Giappone: per i sudditi di Hiro Hito la fine dei tempi non fu tanto segnata da Hiroshima quanto dalla richiesta di Mc Arthur all'imperatore di sconfessare la propria origine divina. Fu come svuotare di senso una cultura millenaria: e fu un'apocalisse di suicidi. Per altre culture, invece, il finimondo coinvolge la terra o l'universo, secondo due diverse concezioni del tempo. La prima è ciclica, legata alle stagioni, al volgere dei pianeti, ai rituali di rinascita che troviamo nell'animismo, nel politeismo gr eco, nel taoismo e tra gli indù: è un succedersi perenne di immani tramonti e cosmiche albe, intercalati dal sonno di un dio come Brahama che sogna universi che si estinguono per rinascere al suo risveglio. La concezione lineare del tempo, invece, sorta nella Persia di Zoroastro, domina la tradizione giudaico-cristiana e islamica. C'è un inizio e una conclusione, una storia al culmine della quale il Bene avrà la meglio sul Male; poi sarà la fine dei tempi, la resurrezione e il giudizio dove sa ranno pesate le azioni buone e quelle malvage, nell'Avesta come nella Bibbia o nel Corano. Tempo ciclico e tempo lineare creano dunque differenti scenari, ma non completamente poiché gli stessi Vangeli parlano di «nuovi cieli e nuova terra» dopo la fine, come fu dopo i diluvi presenti in ogni mito. Quasi tutte le tradizioni, poi, cicliche o lineari, contemplano l'avvento di esseri divini, dagli avatara indù a Zoroastro, da Cristo al XII Imam degli sciiti, per fronteggiare il Male. Ed è curio so notare come, all'estremo cimento, siano spesso convocate figure di varia origine. La tradizione celtica designa il redivivo Artù, Barbarossa, san Luigi di Francia e il XII Imam degli sciiti a sconfiggere Doirche, il Druida Nero o Anticristo; mentr e gli sciiti schierano Gesù e i profeti biblici accanto allo stesso XII Imam per battere l'orda di Satana. Peccato che una siffatta, ecumenica legione, così ricorrente tra i profeti, non dissolva i presenti veleni integralisti. Sulla terra, intanto , annota Conte a conclusione del suo giro per i cieli, si avverte l'alito dei quattro cavalieri dell'Apocalisse: bomba demografica, inquinamento, sindrome del lemming (suicidio di massa), guerra mondiale. Per la prima volta nella storia, la fine dei tempi è nelle nostre mani: ed è forse già in atto uno scontro, un Armageddon sotterraneo tra chi agisce in nome dell'egoismo, del potere, della violenza, e chi crede stia finendo il mondo dominato dal materialismo, dall'utilitarismo, in vista magari di una religiosità rinnovata. Il cardinale Suenens ha detto che la prossima religione sarà una religione cosmica. Intanto, in Arizona, gli indiani Hopi dicono che l'umanità sta vivendo il suo quarto mondo dopo la distruzione dei primi tre, ma che sta volta la fine dipenderà da come tratteremo noi stessi e il pianeta. Negli altipiani dove vivono in pace da 700 anni, pregano per questo: un anticipo di religione cosmica, con ampia facoltà di libero arbitrio.

Grandiosa monotonia di Sarpi

Grandiosa monotonia di Sarpi
Carlo Carena, il sole 24 ore , 08/07/2001
Fra i tomi dell'ignorata, dalle librerie e dal pubblico, … appare, imponente fra gli imponenti, Paolo Sarpi. Gran parte vi è occupata dalla Istoria del Concilio tridentino, la cui migliore definizione letteraria è la stroncatura elogiativa di Arnaldo Momigliano: "Se non si ha una precisa idea dell' interesse tutto intellettuale dell'autore per le vicende del mondo, non la si capisce, e non si regge la lettura. L' Istoria del Sarpi manca assolutamente di ogni attrattiva. É di una monotonia imperterrita, e perciò grandiosa".
Ma dopo le 1.100 e più pagine del famoso capolavoro, … alcuni altri scritti meno noti, brevi o brevissimi interventi occasionali del bellicoso servita nella sua veste, non talare, di consultore giuridico del Senato veneziano; e a quei testi Vivanti dedica molta attenzione, non per giustificarne inutilmente la presenza ma per la consapevolezza del loro valore, nell'insieme anche dell'attualità sia per il tipo di problemi affacciati e trattati, sia per l'atteggiamento assunto. La maggior parte di quelle scritture concerne infatti e vigorosamente tratta (Sarpi, soggiungeva Momigliano, era "un ingegno di ferro") i nodi centrali della libertà di idee, della stampa dei libri e più in generale dei rapporti fra Stato e Chiesa, con la nota dominante della separazione delle due sfere e dell'autonomia del primo rispetto alla seconda in materie temporali.
… E quale atteggiamento più civile della devozione alla scrittura e all'autonomia della politica? "Alla potestà secolare - spiega Sarpi, con una lezione che si dovrebbe veder diretta a entrambi - Dio ha commesso la cura della tranquillità pubblica, al ministero ecclesiastico Dio ha commessa la cura delle anime, la quale non ha che trattare con pene di diretto". Lo Stato agisce nel suo ambito non solo per diritto a lui attribuito ma per dovere a lui imposto da Dio "a beneficio del populo"; rinunciarvi, ridurlo, danneggia il suddito ma più e prima offende la Maestà divina.
Il discorso si svolge entro i parametri teologici in cui allora solo si poteva e doveva svolgere. Ma pure giunge, facilmente tradotto, al suo nocciolo durevole: nel referto poi Del vietar la stampa dei libri perniciosi al buon governo, dell'agosto 1615, riprendendo gli spunti del Sopra l' officio dell'Inquisizione, Sarpi asserisce non senza un po' della sua ironia che, come aveva fatto Filippo II in Spagna, occorre togliere l'editoria (fiorente a Venezia) dalla "soprintendenza degli ecclesiastici, lasciando loro "soltanto la cura delli messali, breviari e carte da insegnar a' putti la grammatica"; quanto ai libri veri, si fissino regole tali da sottrarli all' arbitrio, allo zelo e agli eccessi dei singoli censori. Trapelano aria d'altri tempi, il sospetto personale, ma ancora soprattutto la necessità di garantire allo Stato la sicurezza della sua sopravvivenza.
Recensione a: "Paolo Sarpi", a cura di Corrado Vivanti, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000, pagg. XL-1278, s.i.p.

LE FINANZE DEL VATICANO

Corrado Pallenberg
LE FINANZE DEL VATICANO
Palazzi editore, Milano, 1969

Le finanze del Vaticano e la storia di una delle più grandi potenze finanziarie del mondo, sui cui capitali ed investimenti la Santa Sede cerca di mantenere un ostinato quanto inspiegabile segreto.
Dopo aver tracciato una succinta storia dei beni della Chiesa cattolica e della evoluzione della sua dottrina rispetto alla proprietà privata, all'economia liberale, al capitalismo, al socialismo e ai problemi del Terzo Mondo, il libro di Corrado Pallenberg si sforza di penetrare questo segreto: di giungere ad una valutazione quanto più possibile obiettiva e documentata sia della fonte dei proventi della Santa Sede sia delle enormi spese che essa deve sostenere per svolgere la sua bimillenaria missione.
Vi si trovano i nomi delle principali società e banche italiane ed estere in cui il Vaticano ha investito i suoi capitali o con cui mantiene relazioni di affari, oltre a quelli degli ecclesiastici e dei laici che manovrano le leve finanziarie di questo vasto impero.
Tra i protagonisti di questa storia, in gran parte inedita, appaiono i tre Principi Pacelli, nipoti di Pio XII, l'architetto pontificio Conte Galeazzi, i Marchesi Sacchetti padre e figlio, e molti altri nomi dell'Aristocrazia Nera e della grande finanza italiana. Tra gli stranieri: i Rothschild di Francia ed il Ministro del Tesoro del Presidente Nixon, David Kennedy.
Ricco di aneddoti e di curiosi dettagli (quanto guadagnano al mese un Cardinale e una Guardia Svizzera; in quale banca il Papa tiene il suo conto corrente; le singolari, sorprendenti attività di alcune società in cui il Vaticano ha investito i suoi capitali; o quanto rende la vendita dei francobolli vaticani) questo libro rappresenta il primo documentato rapporto su un argomento così attuale e scottante.
Dal risvolto di Copertina

Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme

l’Unità 31.1.08
Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme
di Renato Pallavicini

MAX ERNST compose tra il 1929 e il 1934, usando la tecnica del collage, «tre romanzi per immagini»: con figure tratte da stampe e illustrazioni popolari, il conturbante e affascinante richiamo del sesso

La materia con cui li costruì era quella dei feuilleton e delle incisioni di Grandville
Pescando nel sogno l’artista creò un’opera che influenzò il cinema di Luis Buñuel

«Tra il 1929 e il 1934 il pittore dadaista, e poi surrealista e poi solo Max Ernst compose tre romanzi: La donna 100 teste, Il sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà». Il verbo «compose» che Giuseppe Montesano usa nella sua postfazione a Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini (Adelphi, 2007, pp. 498, euro 38,00) è verbo che si addice più alla partitura musicale o alla composizione architettonica che alla scrittura. Non a caso - ricorda Montesano poche righe più avanti - André Breton aveva proibito ai surrealisti la «fabbricazione» di romanzi.
Ma che cosa sono, dunque, questi «romanzi» che l’artista, nonostante e oltre quel divieto, «fabbrica»? Sono dei collage costruiti con frammenti di figure tratte, perlopiù, da stampe e illustrazioni popolari. «Max Ernst - scrive Montesano - provò a cambiare le regole del raccontare, strappò come un bambino che gioca le pagine dei vecchi libri e le rimise insieme in libri perversamente nuovi, in racconti condensati e fatti per immagini fratturate e ricomposte in narrazioni per immagini che erano in qualche modo ancora o di nuovo romanzi». Quella di Ernst, però, non è la scrittura «plastica» dei collage cubisti di Braque e Picasso che mette insieme le differenti facce (e punti di vista) della realtà, ma è scrittura automatica, anti-composizione e, per tornare alla metafora architettonica, de-costruzione. Il collage non com-pone, non mette insieme ma giustappone, tutt’al più espone, disseziona ed estroflette sul tavolo anatomico (e sulle tavole illustrate) i cadaveri squisiti del linguaggio. Ecco perché le tavole di Ernst sono piene di pezzi anatomici (valga per tutte quella a pag. 443 di questo volume riprodotta in questa pagina: immagine grande), di molli estroflessioni, di pliche carnose come petali, di cento fessure profonde, di scaglie cheratinose o di chiome fluenti che volteggiano come fantasmatici scalpi: tutto «ciò che era connesso… si è scucito e sconnesso in Ernst sotto l’urto di una potenza onirica e scatenata».
I Tre romanzi per immagini, in maggioranza «mute» e talvolta accompagnate da spiazzanti didascalie, sono pieni di sogni e incubi in cui si affacciano esplicitamente, ma non banalmente (non con quella «meschinità» - annota Montesano - a cui il contemporaneo ha ridotto gli abissi di eros) le pulsioni del sesso. Che nella storia del Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo ci sia qualcosa della vicenda personale di un trentottenne Max Ernst e della sua relazione-scandalo con la minorenne Marie-Berthe Aurenche, è innegabile; ma, come ben chiarisce Giuseppe Montesano - scrittore e acuto studioso della cultura francese di quegli anni (suo è il recente saggio su Charles Baudelaire, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori 2007) - c’è molto di più.
Ci trovate, per esempio, le ascendenze a Jarry e Lautréamont: «Nei romanzi-collage di Ernst si stava attuando senza freni e senza residui la bellezza che I Canti di Maldoror avevano annunciato: il mondo che sbucava sotto la frusta del grottesco in Max Ernst era bello, ma “come l’incontro sopra un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello”».
Attorno a questo tavolo anatomico Ernst chiama a consulto dottori dadaisti, surrealisti e freudiani, ma si avvale anche di assistenti meno «titolati». Così, cucite nei suoi collage, si rintracciano parti e membra sparse, raccolte dalla letteratura e dalla illustrazione popolare: dalle incisioni di Grandville ai feuilleton di Rocambole e Fantomas, dai protofumetti di Wilhelm Busch e dello svizzero Rodolphe Töpffer alle oniriche acqueforti di Max Klinger,in particolare quelle della serie Il guanto, raccolta casuale ma organizzata che segna, appunto, «l’ingresso organizzato del Caso nell’opera». Quei collage, che pescavano nel sogno o nascevano da una contemplazione estatica e distaccata che dava vita a un mondo in cui gli oggetti, scissi dalla comune percezione, fluttuavano liberamente e si riposizionavano in dimensioni altre seguendo la non-legge della triade freudiana «trasformazione, condensazione, spostamento», non ebbero però, sottolinea Montesano, «nessun erede diretto, e il loro influsso si manifestò soprattutto nella tecnica del montaggio cinematografico». E allora ecco Buñuel-Dalí con l’Âge d’or, film in cui Ernst si ritagliò una parte da mendicante.
«Nel mondo di rovine del Moderno che Max Ernst “storceva” e “riaggiustava” per far apparire tra le macerie i fantasmi del nouveau c’era al lavoro la legge analogica che rompeva le parvenze in cui le cose si univano per luoghi comuni e ritrovava per le cose accostamenti imprevedibili, quelli che nessuno ha ancora visto e il cui significato è sempre ambiguo: in Una settimana di bontà come nella Donna 100 teste c’era al lavoro il desiderio di un’apocalisse del significato». In volo su questo cumulo di macerie non c’era nessun benjaminiano angelo della storia ma l’inconnu, nelle vesti discinte della creatura femminile, del desiderio, del canto ammaliante delle sirene che, ricorda Montesano nel suo illuminante scritto, cantano quando la ragione (finalmente, aggiungiamo noi) dorme.

mercoledì 30 gennaio 2008

Il potere della Mummia

La Stampa
01/05/2001

Marco Belpoliti

Il potere della Mummia
Dal corpo di Mazzini ai manifesti elettorali: uno studioso spiega come.

Lunedì 11 marzo 1872 Giuseppe Mazzini muore a Pisa in casa della famiglia Rosselli. Chiamato da un telegramma arriva Agostino Bertani, medico curante e politico mazziniano di spicco. In una rapida riunione dei discepoli intorno al letto di morte del maestro, Bertani propone di mummificare il corpo del cospiratore e teorico repubblicano, padre nobile del Risorgimento, e di traslarne la salma a Genova in una bara con uno sportello di cristallo per rendere visibile il suo prezioso profilo. Nelle intenzioni di Bertani la salma imbalsamata di Mazzini è come uno strumento di guerra contro Casa Savoia, la Chiesa Cattolica, e insieme un mezzo per serrare le fila del partito repubblicano diviso in tante anime. La battaglia che il partito laico combatte contro la monarchia ereditaria è davvero difficile. Nell'antico regime i re hanno un doppio corpo: quello fisico, destinato a perire, e quello politico e invisibile, che non muore ed è consegnato al successore. Anche il funerale del Re e dell'Imperatore è doppio: uno riservato alla tumulazione del corpo mortale, l'altro destinato alla glorificazione della sua immagine. E' una battaglia ardua da vincere. Come fare per trasformare «Mazzini morto» in un «Mazzini vivo»? Come iscriverlo nella storia non solo come persona o come nome, ma in quanto istituzione? Sergio Luzzatto, in un singolare libro dedicato al corpo mummificato del capo repubblicano, “La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato 1872-1946” (Rizzoli, pp. 222, lire 32.000), ricostruisce la storia di questa vicenda altamente simbolica che ha ancora molto da dirci riguardo ai meccanismi nascosti che governano la politica, oltre che sulle vicende della nostra storia patria. Da tempo sappiamo che la politica senza rituali o cerimoniali, senza icone e simboli, è solo una scatola vuota, incapace di muovere le passioni e i desideri degli uomini. Tutti i regimi politici privi di trasmissione ereditaria, per perpetuare se stessi, hanno cercato di percorrere la strada della conservazione della salma del Fondatore: la mummia di Lenin e di Mao ne sono l'esempio manifesto. Bertani, dice Luzzatto, ha il medesimo scopo: «investire sul potere carismatico del profeta garantendo al suo corpo una visibilità perenne». I simboli più forti sono quelli visivi: anche nel mondo moderno sono più le persone che guardano di quelle che leggono. Inoltre, in un paese come l'Italia, in cui l'impersonalità dello Stato è debole, scrive l'autore, viene spontaneo affidarsi al corpo del politico d'eccezione. E' il ritorno di quella sacralità che il pensiero laico e razionalista ha sempre rifiutato. La figura del santo, taumaturgo e operatore di miracoli, per quanto profano, è più forte di ogni altra immagine, anche in politica. Nel raccontare il viaggio della salma mineralizzata di Mazzini attraverso l'Italia - il feretro segue un percorso che da Pisa attraversa la pianura padana e poi giunge a Genova - che provoca l'accorrere di folle nelle stazioni di sosta, Luzzatto evoca un tema molto importante: quello che contrappone le forme dinamiche di dominio del tempo e dello spazio allestite dal mondo moderno - il treno, ad esempio - e invece la loro antitesi: la fissità della morte. In questa occasione il poeta-vate del Risorgimento, Giosuè Carducci, affida una sua poesia a un «foglio volante», distribuito nelle stazioni di sosta e appeso ai muri, esempio di quella propaganda politica che di lì a poco, con la mobilitazione delle masse nella Prima guerra mondiale e la partecipazione di D'Annunzio, diventerà uno dei tratti caratteristici delle società di massa. La posta in gioco, dice Luzzatto, è quella di «fondare intorno ai rituali funerari una religione civile; e non si dà religione senza liturgia, né mistero della fede senza ostensione del sacrificio». In questo la monarchia sabauda è in difficoltà: a causa della sue tradizionali diffidenze verso l'interclassismo e del carattere schivo e riservato dei Savoia, nessun re, neppure Vittorio Emanuele II, è stato in grado di fondare un culto intorno alla propria figura. A mummificare Mazzini provvede uno strano personaggio, lo scienziato lodigiano Paolo Gorini, un po' medico e un po'alchimista, anche lui mazziniano e anticlericale. Un anno dopo la traslazione, il 10 marzo 1873, al cimitero di Staglieno, luogo deputato per la sepoltura - Mazzini come Mao aveva chiesto di essere cremato - viene esposta al pubblico la salma pietrificata del leader repubblicano. Arrivano trentamila persone. Molti vedono per la prima volta l'uomo così tante volte evocato, la cui immagine era affidata solo alle stampe. L'iconografia dei grandi della storia patria, da Garibaldi a Mazzini, da Vittorio Emanuele II a Pio IX, fino ad arrivare a Mussolini, che con il suo corpo in immagine ha riempito la vita di almeno due generazioni di italiani, è uno dei capitoli della storia del Novecento su cui sarebbe opportuno riflettere, soprattutto oggi che la politica torna a personalizzarsi, a far tutt'uno con l'immagine fisica dei leader trasmessa dai mass media, dopo l'epoca democristiana, dominata, salvo i primi anni della Repubblica, da figure fisiche quasi trasparenti, ben attente a non lasciare una traccia fisica di se stesse. La figura ieratica di Mazzini, nero vestita - il lutto per l'oppressione dell'Italia - era già diventata proverbiale. E se Mazzini era la fronte (la polizia pontificia la definisce «bellissima»), l'intelligenza, la sottigliezza del disegno politico, ma anche la cospirazione delle menti, Garibaldi, scrive Luzzatto, era la mano: «Possa la mano mia (?) servire la causa della libertà», aveva scritto sotto un suo ritratto. La fronte e la mano: il pensiero e l'azione, tutto il Risorgimento cospirativo, ribellistico, eroico è raccolto nel binomio. La scommessa di Bertani è tuttavia fallita. Nonostante l'abnegazione di Gorini, l'imbalsamazione non è riuscita, e dopo aver eretto la tomba a Staglieno, il pellegrinaggio mazziniano è andato spegnendosi nei decenni seguenti; nonostante che il Fascismo si sia appropriato della sua figura di Padre fondatore, sul culto mazziniano non si è costruita una mitologia che sfida il tempo. Nella parte conclusiva del suo breve ma stimolante saggio, Sergio Luzzatto avanza alcune ipotesi sulla storia dell'Italia moderna. Staglieno, con la tomba di Mazzini e con quella degli altri mazziniani che la circondano, compreso Ferruccio Parri, sarebbe una sorta di Piazzale Loreto alla rovescia: alla Milano partigiana che sente il bisogno di esporre il corpo «come un cacciatore esibisce la sua preda», risponde Genova repubblicana che all'indomani del referendum che decreta la fine della monarchia, riesuma il corpo della sua reliquia. Il 23 giugno 1946, sotto la pioggia, sfila una coda ininterrotta di persone che rende omaggio alla salma imbalsamata di Mazzini. Luzzatto che al corpo di Mussolini postmortem ha dedicato un libro notevole, “Il corpo del duce” (Einaudi, 1998), sostiene che tra queste due salme, quella tumefatta, maciullata e degradata di Benito Mussolini, esposta a testa in giù, e quella reliquiaria ma altrettanto mal conservata di Mazzini, passa l'intera problematica della mistica del corpo del Capo nell'Italia moderna e contemporanea. La sua storia sarebbe una storia di sangue, cadaveri e lutti. Dopo la pietrificazione di Mazzini, e quelle mancate di Garibaldi e Vittorio Emmanuele II, c'è lo shock corporale dell'omicidio di Umberto I a Monza, nel 1900, poi il delitto Matteotti - alter ego corporale del Duce e suo vaticinio di morte -, poi la fucilazione di Mussolini e l'esibizione a piazzale Loreto, e infine il delitto Moro, nel 1978, con il corpo adagiato nel bagagliaio della R4 rossa, oltre che nella fotografia ostensiva scattata dai brigatisti. E a legare questi delitti politici non è solo il corpo stesso dei Capi, ma, dice l'autore, il susseguirsi di fallimenti politici e di rivalse mal amministrate: il fallimento del Risorgimento repubblicano arma la mano di Bresci contro il «Re buono»; la debolezza della monarchia sabauda consente la violenza fascista che culmina nel delitto di Stato contro Matteotti, che a sua volta produce la nemesi di Piazzale Loreto, così come il mito della liberazione nazionale, della «Resistenza tradita» si manifesta nell'assassinio di Moro. Stanno davvero così le cose? E se Luzzatto avesse ragione - ma la tesi su Moro è tutta da verificare - cosa ci riserverebbe il futuro, ora che la politica di identificazione del Capo sembra così prepotentemente tornata di attualità con l'immagine dei «Signor-tutti-noi» che ci sorridono dai cartelloni pubblicitari? Forse oggi il Corpo del capo non è più ieratico e distante; il Potere si è molto avvicinato all'uomo comune e la pubblicità, anche elettorale, ci dà l'illusione di parteciparvi, almeno in immagine.

la donazione di Costantino

Corriere della Sera
20/07/1992

Dario Del Corno

la donazione di Costantino

cosi' Lorenzo Valla smaschero' i papi la confutazione del celebre umanista contro il potere temporale della Chiesa rivisitata da Gabriele Pepe in " la falsa donazione di Costantino, editore Ponte alle Grazie

Fra le nefandezze della lotta per il potere, odiose anche quando sono incruente, la falsificazione dei documenti rappresenta per cosi' dire una costante storica: ne' mette conto di menzionare recentissimi, indecorosi esempi. Testi contraffatti valgono a screditare avversari, a simulare benemerenze posticce, a inventare situazioni d' emergenza che richiedano interventi altrettanto fuori dalla norma, e soprattutto ad imporre inesistenti diritti. Sono espedienti di una violenza non meno perniciosa per il fatto di infierire con le parole e non con gli atti. A smascherare l' inganno occorre un onesto e sovente intrepido amore del vero; ma talvolta questo non basta, e si rende necessario il concorso della scienza cui appartiene la verifica dell' attendibilita' testuale: la filologia. Anche il piu' abile dei falsari opera su materiali fittizi: ed e' fatale che tra questi si insinui la crepa, la sfasatura dove inserire il cuneo del dubbio che smontera' la macchinazione. Qui intervengono i collaudati strumenti dell' indagine filologica a dimostrare le improprieta' del linguaggio, l' inverosimiglianza dei raffronti, le incongruenze dei dati. Modello illustre di tale confutazione e' la Declamatio di Lorenzo Valla intitolata nell' originale De falso credita et ementita Constantini donatione, con la quale il grande umanista si impegno' a distruggere definitivamente l' autenticita' del documento su cui il papato fondava la pretesa di legittimare il proprio potere temporale. Un caso, si vorrebbe dire, da manuale: nel senso letterale dell' espressione, in quanto l' opera del Valla appare menzionata sistematicamente nei prontuari storiografici e storico.culturali, peraltro senza che da molti decenni si sentisse l' esigenza di ripresentarla nella sua integrita' . Tanto piu' opportuna risulta dunque l' iniziativa di pubblicarla nella traduzione di Gabriele Pepe (ma perche' non accompagnare il testo latino a fronte?), preceduta da un' acuta ed appassionata introduzione dello stesso autore. (La falsa donazione di Costantino, editore Ponte alle Grazie, pagine 104, lire 15.000). Il documento contestato simulava un atto di donazione da parte di Costantino al papa Slvestro, con cui l' imperatore avrebbe ceduto alla Chiesa ogni diritto temporale su Roma, sull' Italia e su tutte le province occidentali dell' impero. Grazie a un tale precedente, lungo molti secoli si venne costruendo l' ideologia che trasferiva il primato religioso del vescovo di Roma all' ambito politico, rivendicando al pontefice il diritto di conferire la propria investitura all' imperatore d' Occidente. "La storia della donazione di Costantino . scrive Pepe ., e' storia dei rapporti di forza tra papato e impero". Ma l' atto era un falso. Coniato probabilmente nell' ottavo secolo come premessa o conseguenza all' incoronazione di Carlo Magno, esso svolse la funzione di istituire un mito, su cui la Chiesa fondo' spregiudicatamente un sistema di potere e di privilegi. In fiera polemica contro la struttura medievale di un cristianesimo che aveva dimenticato la sostanza etica del suo insegnamento, il Valla ne smaschera il triviale utilitarismo senza ricorrere a sua volta agli schemi di un' opposta ideologia, ma con il sostegno irrefutabile della coerenza filologica. La situazione storica che la Donazione pretende di ricostruire e' inattendibile; ma soprattutto, la lingua del documento presenta i caratteri specifici del latino medievale, e i riecheggiamenti biblici di cui trabocca sono incompatibili con gli usi della cancelleria imperiale, che prima della costantiniana legittimazione del cristianesimo non poteva che ignorare gli scritti testamentari. La lettura dell' opuscolo e' di un' emozione folgorante. Si ha il sentimento che si apra davvero un' era nuova; in cui parametro del vero tornera' ad essere la ragione umana, come era stato nell' antichita' classica. Lo stile non e' un inutile orpello, bensi' la verita' della parola e della realta' che in essa si esprime. E' la forza del sapere a infrangere i vincoli della superstizione, su cui si appoggia "la scelerata tirannide de' preti", secondo la formula del Guicciardini. La confutazione dei falsi diritti del potere portava in se' la minaccia di una ribellione; ma l' arroganza di chi lo deteneva ignoro' la sfida, e di li' a poco venne la Riforma.

La rivincita di Marco Polo, cronista

Corriere della Sera 30.1.08
Il lavoro di Ménard è accompagnato da un ricco apparato iconografico. Il confronto con Colombo
La rivincita di Marco Polo, cronista
Due saggi, in Francia e Gran Bretagna, riscoprono la figura del veneziano
di Cesare Segre

Tra le glorie italiane si cita spesso Cristoforo Colombo; molto meno Marco Polo. Ma avere scoperto l'America non è tanto più importante che aver descritto per primo la Cina e i Paesi circostanti, specialmente oggi che la Cina ci è vicina (come diceva il titolo d'un film) ed entra di prepotenza nell'economia mondiale. In più, Marco ci ha descritto in modo sistematico e avvincente il suo viaggio, a differenza di Colombo.
Il Milione di Marco Polo (scritto in verità da un romanziere, Rustichello da Pisa, per incarico e sotto il controllo di Marco, in un francese ricco di italianismi) ha avuto una circolazione enorme, è stato tradotto nelle principali lingue del tempo, a partire dal latino, e da queste traduzioni ha tratto forze per un'ulteriore diffusione, ad uso sia dei commercianti, che si trovavano nelle mani un Baedecker dell'Estremo Oriente, sia degli ordini religiosi, che ne deducevano mappe per il loro apostolato. Nonostante questo, a nostro parere, Marco è poco popolare, persino nella sua Venezia, dove pure si mostra ancora l'abitazione di famiglia. Anche nella recente occasione del settecentocinquantesimo anniversario della nascita, sebbene ci siano stati importanti convegni, non pare che il nome di Marco sia risuonato molto fra i non specialisti.
Proprio alla persona di Marco, e ai suoi viaggi in Cina col padre e lo zio, poi da solo, è dedicato un volume di Philippe Ménard, illustre professore della Sorbona («Marco Polo à la découverte du monde», Glénat, Grenoble). Ménard lavora da anni sull'argomento, e sta portando a termine, con valenti collaboratori, l'edizione di quella redazione dell'opera di Marco che circolava nella Francia medievale. Ma nel volume di Glénat è proprio Marco a farsi protagonista, e viviamo attraverso il suo sguardo il lungo viaggio di due anni e mezzo fino al centro dell'impero tartaro, le visite ai Paesi limitrofi, il ritorno a Venezia, in parte su navi cinesi, accompagnando la principessa Cocacin che andava sposa in Persia (tre anni). Il volume ha un corredo illustrativo che non va considerato soltanto, edonisticamente, per la straordinaria bellezza delle figure, ma anche per l'integrazione dei punti di vista: miniature francesi e disegni persiani (specialmente cavalieri mongoli a cavallo) del Tre e Quattrocento, immagini antiche e magnifiche fotografie contemporanee dei luoghi.
Ménard ricostruisce attentamente tutti i percorsi di Marco, anche quelli da lui battuti nelle vesti di funzionario del Gran Khan Qubilai (1215-1294), successore di Gengis Khan, ed è pure attento ai particolari logistici, come la scelta delle navi e l'organizzazione delle carovane: unico espediente per rendere sicuro il viaggio in luoghi spesso abitati solo dai briganti. Attenta valutazione è data alla testimonianza documentaria del Milione: perché a volte la descrizione di Marco conferma o integra quanto è ancora riscontrabile, altre volte è solo la situazione attuale a rendere comprensibile il racconto di Marco. L'impegno comparativo di Ménard è reso necessario dai pochi ma fastidiosi tentativi recenti di sminuire la testimonianza del veneziano, o persino di contestarla in blocco. In verità Marco descrive con esattezza costumi, tecniche (come l'impiego da noi allora sconosciuto della carta moneta o l'organizzazione delle poste), credenze religiose, talora molto strane, quasi mai criticate con senso di superiorità. Anche alla poligamia dei tartari Marco Polo fa riferimento senza alcuno stupore, semmai con ammirazione per gli appetiti sessuali del Khan (quattro mogli, innumerevoli concubine, quarantasette figli). Naturalmente è aperto, come i suoi contemporanei, anche a invenzioni in gran parte leggendarie, come la sapiente solennità del Prete Gianni o le abitudini del Vecchio della Montagna, e degli assassini al suo servizio, pronti a uccidere pur di restare nel palazzo di delizie che il Vecchio ha creato per loro. Fatto sta che Marco, da uomo dei suoi tempi, traguardava la realtà attraverso i racconti già dedicati a un Estremo Oriente allora quasi sconosciuto, così come Colombo cercherà nel Nuovo Mondo le tracce dell'Oriente descritto da Marco Polo.

martedì 29 gennaio 2008

Gandhi, il non violento che leggeva Marx

l’Unità 29.1.08
Gandhi, il non violento che leggeva Marx
di Michele Prospero

DOMANI CON «L’UNITÀ», a sessant’anni dalla sua uccisione, tutte le idee del «Mahtma» in un libro di Giuliano Pontara. Il ritratto del leader che liberò l’India dal colonialismo con un nuovo pensiero politico di massa: la «non violenza».

La figura del «Mahtma» Gandhi è certamente una tra quelle più significative ed eclettiche del Novecento. Nel secolo della paura e della violenza di massa, intesa da tutti come grammatica minimale del politico, egli esalta la «non-violenza» declinandola come una condotta politica pacifica e nondimeno efficace per la liberazione dei popoli dalle potenze coloniali, ma anche come un argine protettivo utile persino contro i regimi più totalitari.
Alla ormai sconfitta potenza inglese, che però intende imporre la netta separazione etnico-religiosa del territorio indiano tra musulmani e indù, Gandhi oppone le ragioni laiche della convivenza politico-territoriale comune. Proprio a questo apostolo della nonviolenza, ridotto a pesare 45 chili dai suoi lunghi digiuni, toccò però una morte violenta che lo raggiunse nel corso di una pubblica preghiera, il 30 gennaio del 1948. Domani a 60 anni dall’uccisione di Gandhi per mano di un indù ortodosso, l’Unità propone per «Le Chiavi del Tempo» un ampio volume di Giuliano Pontara (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, pp. 351, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano), uno dei maggiori studiosi della nonviolenza. Sul politico indiano, che postula una nonviolenza capace di operare in profondità determinando mutamenti di mentalità tra i carnefici, non si è mai spento l’interesse, rimasto vivo nel tempo anche al di là dell’effettiva robustezza, sistematicità e coerenza concettuale dell’impianto delle sue riflessioni. Ricorda Pontara che «assieme a Lenin, Gandhi è la figura politica del XX secolo sulla quale è stato scritto più copiosamente». E i loro stili politici non potrebbero essere più diversi. Lenin è un campione del realismo politico che scruta nelle condizioni oggettive la possibilità di un grande evento risolutivo. La conquista del potere fa parte della posta in gioco dell’azione politica, ne è anzi la prospettiva più accattivante. Anche la sua «guerra alla guerra» adotta il lessico della violenza, che è pur sempre uno degli strumenti della politica da soppesare e da impiegare sulla base di una valutazione delle opportunità e della effettiva natura dei rapporti di forza. Gandhi, che pure esalta la «levatura spirituale di Lenin» e «il sacrificio più puro» in nome dell’ideale, è l’esemplare invece di un «politico morale» che esclude la guerra dal novero degli strumenti pensabili dell’agire collettivo. L’opposizione alla ribellione armata è in lui totale e non è collegata alla sua utilità, al suo vantaggio, al suo apporto strumentale al fine. La violenza è dichiarata estranea in quanto tale al corredo della politica, rigettata indipendentemente dalla sua storica efficacia.
Un simile atteggiamento, basato sul principio vincolante dell’unità del genere umano, è molto ostile alle pratiche di sterminio del Novecento e Pontara trova alquanto singolare che «il secolo che ha generato Hitler e il nazismo abbia però generato anche il suo opposto Gandhi e la nonviolenza del forte». Anche rispetto a un regime totale di annientamento, la strada della disobbedienza civile, del rifiuto nonviolento è quella più adatta per indurre gli oppressori a mitigare la repressione e a pervenire a generalizzate forme di non esecuzione di ordini cruenti entro le stesse fila degli eserciti occupanti. Gandhi (lo stesso farà in seguito anche la Arendt) enfatizza il caso danese di disobbedienza civile all’aggressore nazista come pratica in parte riuscita di umanizzazione del nemico. È evidente che su questo piano, quello cioè che misura anche l’efficacia reale del metodo della nonviolenza, Gandhi è costretto a scendere sul versante della pragmatica e, a rigore, ad accettare di valutare la stessa non violenza (con i suoi tipici ritrovati della non-collaborazione) alla stregua di ogni altro strumento d’azione collettiva. L’assolutezza di un metodo che non ha alternative viene di fatto limata se in questo «Machiavelli della nonviolenza», così lo definisce anche Pontara, la stessa nonviolenza entra nel conteggio dei suoi vantaggi operativi riscontrabili in una situazione data. L’alternativa è molto semplice: se la nonviolenza è una assoluta etica della interiorità e della verità, essa va adottata a prescindere dal suo impatto storico, se invece conta anche l’esito effettuale della pratica nonviolenta, allora anch’essa diventa uno degli strumenti dell’agire che vale non già in assoluto ma in quanto sottoposto a un calcolo politico di opportunità, di vantaggio, di efficacia. In questo caso, il principio di responsabilità dell’azione, che valuta cioè la reale ricaduta della mossa adottata, si impone anche al «politico morale» che non può esimersi dal dare conto dell’efficacia oggettiva della sua azione e delle sue empiriche conseguenze. Anche sotto i regimi democratici la nonviolenza conserva la sua piena rilevanza. Gandhi ritiene anzitutto che proprio la democrazia sia la forma politica più coerente con le ispirazioni della nonviolenza nei rapporti intersoggettivi. Aggiunge inoltre che il principio di maggioranza e la competizione elettorale rendono pacifica la contesa tra le parti, anche se l’adozione del metodo non violento di per sé non cancella del tutto la differenza, l’eccentricità, rispetto alle richieste di obbedienza. Tutti i regimi, anche quelli più tirannici, non si reggono senza una base di consenso. E tutti i governi, anche quelli più democratici, suppongono una più o meno modica quantità di violenza. È evidente che entro società democratiche ben strutturate ogni forma di conflitto non potrà che svolgersi con il corredo delle tecniche nonviolente (voto, disobbedienza civile, scioperi, boicottaggio, evasione delle tasse destinate alle armi, mentre perplesso Gandhi si mostra sui picchettaggi, sui sabotaggi). Entro un regime democratico si rintraccia di sicuro un titolo superiore di legittimità rispetto ad ogni altro meccanismo di potere. Per questo, secondo Gandhi , in una democrazia l’ordinamento non può venire contestato nel suo complesso. È ipotizzabile solo una disobbedienza civile difensiva che si agita dinanzi a singole decisioni adottate peraltro nel rispetto del principio di maggioranza. La separazione dei poteri non cancella per Gandhi il diritto della minoranza ad agire diversamente per motivi di coscienza laica o religiosa (pagando però le conseguenze legali e le sanzioni previste per la disobbedienza e la rottura dell’obbligo politico). Anche rispetto all’autorità legittima è sempre lecita la disobbedienza (parziale, non di sistema, rivolta alla singola legge ritenuta ingiusta non all’ordinamento costituzionale).
Diverso è invece il caso di regimi oppressivi nei quali Gandhi contempla la «disobbedienza civile offensiva», una pratica intransigente mirante cioè a demolire un ordinamento illegittimo nelle sue stesse fondamenta. Di sicuro nelle pagine politiche di Gandhi scorre una venatura anarchico-libertaria molto evidente (propugna ad esempio un azzeramento degli istituti repressivi). Sul piano economico invece egli rigetta ogni forma di individualismo accostandosi a forme di socialismo che non prevedono però il conflitto tra capitale e lavoro. Gandhi contesta il principio di Adam Smith per cui il mercato è sovrano con i suoi anonimi automatismi e il fattore umano si presenta sempre come un inaccettabile momento di disturbo. Secondo Gandhi il vero fattore di disturbo da eliminare è proprio il calcolo egocentrico, perché dai congegni del libero mercato in cui operano individui perfettamente razionali si originano sempre oscuri meccanismi di dipendenza. La violenza strutturale insita nell’economia può essere così estirpata solo da elementi di socialismo conditi in una salsa molto indiana e pragmatica. Pontara rammenta a questo proposito che Gandhi ha letto Il Capitale trovando in Marx «vari riscontri a idee che era andato sviluppato, anche in base alla sua diretta esperienza di colonizzato, circa la natura del modo di produzione capitalistico. Egli stesso disse che il suo socialismo era naturale, non era stato imparato su nessun libro». Un anelito di eguaglianza, un bisogno di giustizia sociale più che una critica della proprietà privata dei mezzi di produzione accompagnano la riflessione di Gandhi, che ammette una forma di «proprietà fiduciaria». Nelle sue pagine è presente una critica demolitrice della civiltà delle macchine, della metropoli, del consumo, della proliferazione delle armi di sterminio in nome di rapporti più semplici, di legami più immediati, di valori tradizionali infranti, del disarmo. Cosa resta nel XXI secolo di questo abile maneggiatore dei mezzi di comunicazione e nondimeno ascetico e «sedizioso avvocatuccio», come lo bollò Churchill? Pontara non ha dubbi: una capacità di scovare e contrastare alla radice quella «tendenza nazista», come la chiama, che opera in profondità e coincide in ogni tempo con l’esaltazione della violenza, del capo, della disuguaglianza, del fondamentalismo del mercato, della guerra giusta e dello scontro di civiltà. Pontara vede in circolazione anche nel postmoderno molte immagini del nemico e velleità di costruire un sistema di apartheid globale. In un mondo che riscopre le guerre di civiltà ed esalta la religione come identità differenziante, il messaggio del religiosissimo Gandhi risuona come un pressante invito laico a conservare la religione nella sua dimora solo privata, non pubblica. I modi con i quali salvare l’anima per lui non riguardano lo Stato. Le credenze non possono avere ricadute pubbliche e la religione, ammonisce Gandhi, è solo «una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione della moneta, ma non della vostra o della mia religione. Questa è affare personale di ciascuno». Per questo Gandhi, che rivendica un’etica del rispetto verso il vivente non umano, si proclama favorevole all’eutanasia per far cessare le forme di inaudita di sofferenza. La sua curiosità non è poi così distante dai temi eticamente sensibili che oggi sono ovunque al centro dell’agenda pubblica.

domenica 27 gennaio 2008

La religione dei Romani

Jacqueline Champeaux, La religione dei Romani.
Il Mulino, 2002 Pg 208

Note di copertina

Il volume traccia una descrizione sintetica dell'evoluzione della religione romana dalle origini alla Chiesa cristiana. Dopo aver definito i caratteri essenziali della religiosità romana, l'autrice ricapitola dèi, istituzioni, riti della religione del periodo arcaico, poi tratta dell'apporto dato dalla religione etrusca e da quella greca, ed espone l'organizzazione della vita religiosa romana, soffermandosi in particolare sui culti familiari. Due capitoli sono dedicati alla crisi che nel primo secolo a.C. colpisce anche la religione, e alla successiva rinascita avviata sotto l'impero di Augusto.

Il Presepe: alle radici pagane della Sacra Rappresentazione.

Claudio Canzanella

Razzullo e la Sibilla.
Il Presepe: alle radici pagane della Sacra Rappresentazione.

Napoli, Stamperie del valentino
Ottobre 2006

Una passeggiata nell'aspetto immaginario e simbolico che ha generato l'idea del Presepe napoletano. In questo lavoro vengono rivelate le matrici pagane della Sacra Rappresentazione, ed analizzati i significati di ciascuna scena e di ciascun elemento che sono presenti, o che lo sono stato all'origine, per cedere poi il passo a nuovi componenti.

La Sibilla, o le anime purganti, ad esempio, erano parti imprescindibili delle antiche composizioni presepiali, prima ancora che sulla scena apparissero i Magi. Ma anche i personaggi anacronistici come il prete o la monaca, o quelli legati alla cronaca ed all'attualità - che vediamo ogni anno mutare sulle bancarelle di Via San Gregorio Armeno (Napoli) - rispondono ad antiche ed imperiture logiche compositive.

Tutto questo verrà svelato al lettore, perché si sappia che la composizione del presepe non è affidata all'estro di chi lo assembla, ma deve rispondere a precisi schemi simbolici. In tal senso - e per la unicità e completezza dei contenuti - questo libro appare senza precedenti nel panorama editoriale, e non solo in quello attuale.

Oltre la Bibbia. Storia Antica di Israele

Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia Antica di Israele.
Roma-Bari, Laterza, 2003, 526 pp.

Le storie dell’antico Israele si assomigliano tutte perché tutte assomigliano alla storia contenuta nel testo biblico, ne assumono la linea narrativa, ne fanno propria la trama. Quest’opera riporta la vicenda della nascita d’Israele alla sua realtà storica, prende atto dei risultati della critica testuale e letteraria, dell’apporto dell’archeologia e dell’epigrafia ed è concepita secondo i criteri della moderna metodologia storiografica. Partendo dalla constatazione che il racconto biblico è frutto di una elaborazione molto tardiva, Liverani riporta i materiali testuali all’epoca della loro redazione, ricostruisce l’evoluzione delle ideologie politiche e religiose in progressione di tempo, inserisce saldamente la storia d’Israele nel suo contesto antico-orientale. Emergono così la ‘storia normale’ dei due piccoli regni di Giuda e d’Israele, analoga a quella di tanti altri piccoli regni locali, e la ‘storia inventata’, che gli esuli giudei costruirono durante e dopo l’esilio in Babilonia, proiettando indietro sulla loro storia i problemi e le speranze del loro tempo.

DIES NATALIS, I calendari romani e gli anniversari dei culti

DIES NATALIS, I calendari romani e gli anniversari dei culti

Natascia Donati, Patrizia Stefanetti
206 pp., 95, anno 2006, ISBN 88-7140-295-2, € 32,00
http://www.edizioniquasar.it/libri/dies_natalis.htm

Theodor Mommsen, pubblicando nel primo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum (1862) i calendari epigrafici romani (Fasti anni Numani et Iuliani) redasse dei preziosi commentaria diurna, una vera e propria summa delle informazioni antiquarie disponibili sui singoli giorni dell’anno, e in particolare sugli anniversari della fondazione di culti e templi, ricavate in primo luogo da testi letterari, ma anche da ogni altra fonte disponibile.

A più di un secolo di distanza, Attilio Degrassi, nel portare a termine l’impegnativo compito di ripubblicare gli stessi documenti (Fasti anni Numani et Iuliani, Inscriptiones Italiae XIII 2, Roma 1963), mise mano a un nuovo apparato di commentaria diurna, il cui rifacimento era reso indispensabile dalla scoperta di nuovi calendari epigrafici - in particolare il primo esemplare pregiuliano, i fasti dipinti di Anzio - e dalle numerose novità emerse in più di cento anni di studi, soprattutto nell’ambito della topografia romana.

La ricchezza dei dati raccolti in quest’ultima summa ne ha fatto uno strumento di lavoro indispensabile per chiunque si trovi ad affrontare i problemi dei culti e della fondazione e localizzazione dei templi di Roma: storici delle religioni, topografi, studiosi in genere di antichità e di storia romana. Ma mentre le note relative alla struttura dei calendari, ai miti eziologici, alle cerimonie e alle feste restano ancora pienamente valide, la rapida ed estesa accelerazione degli studi topografici che ha caratterizzato gli ultimi decenni (ora sintetizzati nei volumi del Lexicon Topographicum Urbis Romae) ha determinato un sensibile, inevitabile invecchiamento dei commenti dedicati da Degrassi a questo aspetto particolare. Tale lacuna, a circa quaranta anni di distanza dalla pubblicazione dell’opera, appariva ormai evidente, e andava colmata con un aggiornamento sistematico.

Il compito di realizzare tale aggiornamento è stato da me affidato a due laureande dell’Università di Perugia, Natascia Donati e Patrizia Stefanetti. (dalla presentazione di Filippo Coarelli)


Sommario: Prefazione. Introduzione. Cap. I. Analisi del mese di Gennaio; Cap. II. Analisi del mese di Febbraio; Cap. III. Analisi del mese di Marzo; Cap. IV. Analisi del mese di Aprile; Cap. V. Analisi del mese di Maggio; Cap. VI. Analisi del mese di Giugno; Cap. VII. Analisi del mese di Luglio; Cap. VIII. Analisi del mese di Agosto; Cap. IX. Analisi del mese di Settembre; Cap. X. Analisi del mese di Ottobre; Cap. XI. Analisi del mese di Novembre; Cap. XII. Analisi del mese di Dicembre. Conclusioni. Fasti: schema generale dei mesi. Abbreviazioni bibliografiche.

Il Divino nell'Ellade

Nuccio D'Anna
Il Divino nell'Ellade
ECIG, Genova, 2004, Pp 206

Note di copertina

Oltre a fare conoscere le varie divinità del pantheon, vengono evidenziati tutti gli elementi essenziali della loro spiritualità e delle modalità con le quali i Greci si avvicinavano al divino.
Gli stessi culti misterici bengono analizzati nella prospettiva di una spiritualità viva, feconda, che fa dell'uomo ellenico un essere intimamente pervaso del significato del mondo e del ruolo creativo che ognuno deve assumere.
Si sono ricercate le costanti di una religiosità che non trae la propria origine da un qualsiasi fondatore storico, ma da una particolare condizione spirituale vissuta naturalmente, senza l'appoggio di un testo rivelato che ne giustifica il significato.
Da ciò il culto che ogni Greco ha per la personalità, per la libertà, per la vita politica vissuta come "bene comune", la consapevolezza del valore educativo dei gesti, delle parole, dell'arte.

Il misticismo greco

Dario Sabbatucci
Il misticismo greco
Bollati Boringhieri, 2006, 292 PP.

Nota di copertina
L’antica religione greca – quella della polis con il suo pantheon di divinita omeriche, il suo patrimonio di miti e riti, il suo ricco calendario festivo – ha una funzione anzitutto sociale. La polis e una comunita cultuale, che pretende
persino il monopolio religioso (i culti privati diventano pubblici, l’introduzione di nuovi dei e vietata), e l’esperienza religiosa viene fortemente integrata nella dimensione collettiva, anzi viene "politicizzata" tanto nelle sue pratiche cultuali
quanto nei suoi spazi (templi e santuari). Al culto pubblico si contrappongono, come culti segreti, i Misteri (i principali sono gli eleusini, i dionisiaci, gli orfici e quelli di Samotracia), cui si puo accedere solo attraverso un’iniziazione
personale. A questa dimensione "esoterica" della religione greca e dedicato lo studio di Sabbatucci, che mostra come, attraverso l’esperienza di incontro, anche estatico, con divinita immediatamente "vicine", i Misteri soddisfino istanze di partecipazione al sacro e desideri di salvezza ultraterrena cui i culti ufficiali non sono in grado di rispondere. Essi peraltro non sviluppano ne regole di vita
ne una teologia, ne fondano alcuna comunita. Solo in ambito orfico-pitagorico (qui ampiamente indagato) si forma qualcosa di assimilabile a una setta, caratterizzata da un proprio, specifico ideale di vita (purezza etica, vegetarianesimo) e dalla fede nella trasmigrazione delle anime.

L'autore
Dario Sabbatucci (1923-2004) ha insegnato Storia delle religioni all’Universita "La Sapienza" di Roma, occupandosi soprattutto di interpretazione dei miti e riti del mondo antico, con particolare attenzione alle pratiche religiose nella Repubblica
romana. Tra le sue numerosissime opere: Lo stato come conquista culturale (Bulzoni, 1975); Il mito, il rito e la storia (ivi, 1978); Sui protagonisti dei miti (ivi, 1981); La religione di Roma antica (Il Saggiatore, 1988); Divinazione e cosmologia
(ivi, 1989); La prospettiva storico-religiosa (ivi, 1990); Politeismo (Bulzoni, 1998); Scrivere e leggere il mondo. Divinazione e cosmologia (ivi, 2000); Monoteismo (ivi, 2001); Giuoco d’azzardo rituale e altri scritti (ivi, 2003).

Apollodoro, I miti greci

Apollodoro
I miti greci
(la "Bibliotheca"). Valla-Mondadori, 1996
Pagine XXXIV-846 , testo greco a fronte

Note: A cura di Paolo Scarpi - Traduzione di Maria Grazia Ciani


Note di Copertina

Quando debbono consultare un'opera d'insieme, gli appassionati dilettanti di mitologia greca sono abituati a leggere "Gli dei e gli eroi" della Grecia di Karl Kerényi o "I miti greci" di Robert Graves. Sarebbe meglio che risalissero molto più indietro nel tempo: a un manuale di autore ignoto, la "Biblioteca" dello pseudo-Apollodoro, redatto tra il II e il III secolo dopo Cristo, che la Fondazione Lorenzo Valla pubblica nella traduzione di Maria Grazia Ciani e con l'introduzione e il commento di Paolo Scarpi. L'ignoto autore credeva ancora negli dei. Come un nuovo Esiodo, si sforzava di raccogliere tutte le tradizioni religiose greche e di sistemarle in un'architettura coerente, portando fino a noi l'ultimo messaggio della classicità declinante. Il lettore moderno vi ritrova, come in un'enciclopedia, tutti i miti greci; Urano e Zeus, Persefone e i Giganti, Meleagro e gli Argonauti, Glauco ed Eracle, Teseo e Odissee. Vi ritrova, soprattutto, una ricchezza straordinaria diversioni parallele o secondarie o locali, che hanno talvolta un interesse più appassionato delle tradizioni maggiori, contribuendo a disegnare quell'intreccio molteplice e risonante di voci, che è per noi la mitologia greca. Il testo dello pseudo-Apollodoro è completato dal ricchissimo commento di Paolo Scarpi: commento che è un secondo manuale, e getta sul testo antico la luce interpretativa degli studiosi moderni di mitologia classica.


Indice - Sommario

Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche

TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome

COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome

Appendice I
Appendice II
Indice mitologico


Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Dalla lettura continua del testo conosciuto come la "Biblioteca" di Apollodoro emerge un grande e complesso paesaggio mitografico: non è stato facile, per quanto necessario, vincere la tentazione di offrire a titolo introduttivo un lungo discorso che indagasse ed esplorasse gli anfratti della mitologia greca se non, addirittura, della mitologia in generale. Le piccole dimensioni di questo "libriccino", come lo chiama Fozio, non sono commisurabili ai problemi di natura storico-religiosa e antropologica che il tessuto narrativo lascia trasparire in filigrana. Ma le dimensioni assunte dalla bibliografia relativa alle problematiche della mitologia greca, moltiplicatasi a dismisura negli ultimi decenni, avrebbero reso in ogni caso ardua l'impresa e sarebbe stato impossibile offrire un panorama completo. Cosi la bibliografia è stata ridotta all'essenziale, confidando sul fatto che ogni ulteriore informazione è ricostruibile sia attraverso le indicazioni fornite nel commento sia ricorrendo alla rassegna dell'"Année Philologique " (Paris).
Considerato per lo più un repertorio mitografico a cui attingere, la "Biblioteca" è stata per così dire condannata da Frazer a diventare un fossile, sia pure insostituibile; un museo in cui sono state conservate "senza un tocco di immaginazione o una scintilla di entusiasmo le lunghe serie di favole e di leggende che ispirarono le immortali produzioni della poesia e le splendide creazioni dell'arte greca".
Nonostante questo inappellabile giudizio, una lettura non frammentaria del testo lascia invece intravedere come la "Biblioteca" non sia banalmente un'opera di erudizione. E forse un'opera di volgarizzazione del patrimonio culturale greco, certamente è una intenzionale sistemazione e ricostruzione del tradizionale paesaggio mitico, che cerca di definire l'universo umano. E queste dovevano essere le intenzioni dell'autore, se è autentico l'epigramma con cui si apriva il testo letto da Fozio, sebbene non riportato dai manoscritti.
Non si tratta dunque di una condensazione erudita del materiale mitologico prodotto dalla civiltà greca, variamente raccolto da fonti diverse, di cui irregolarmente l'autore rende conto, e ordinato secondo un superficiale schema genealogico. Di fronte a una tradizione che ignorava ogni ortodossia, sprovvista di un clero specializzato che avesse proceduto a definirla, e che aveva affidato ai poeti il ruolo di "teologi", la "Biblioteca" si presenta, dopo la "Teogonia" di Esiodo, quale prima opera sistematica. Il registro genealogico su cui è costruito il racconto riprende lo stesso principio di legittimazione che costituiva il fondamento della cultura greca e che conduceva a definire lo statuto umano. E quella cultura, la paideia di cui si fa portatore l'autore nell'epigramma trasmesso da Fozio, che appare alla fine intenzionalmente sopravvalutata, forse per compensare la perdita dell'identità determinatasi con il predominio di Roma. L'autore, senza dubbio arcaizzante, non nomina mai Roma, ne quando parla di Enea o di Antenore, e nemmeno quando descrive l'itinerario occidentale di Eracle. Lo sforzo di recuperare la tradizione mitica è tanto più evidente quanto più appaiono fuori luogo espressioni che possono essere riconducibili a una penetrazione del vocabolario cristiano, come in II 5,12. [124] e 7,7 [157], ma che possono egualmente essere un riflesso della lingua dell'epoca. Quindi sembra del pari frutto di una caduta d'attenzione il solo caso in cui compare la "provvidenza" (II 7,4 [147]), e lo stesso forse si può dire per "mago" (II 8,3[174]). La "Biblioteca" si rivela in ultima istanza portatrice dell'ultimo messaggio della classicità declinante, soffocata dall'imperialismo romano e dalle spinte disgregatrici dei numerosi movimenti esoterici e filosofico-religiosi. Questi movimenti erano protesi alla ricerca di una identità extraumana e al superamento della stessa condizione umana per guadagnare un caeleste habitaculum; erano fortemente sessuofobi e antisomatici, in aperta opposizione con il principio della generazione, da cui era caratterizzata l'antica religiosità olimpica.
Così la "Biblioteca" raccoglie e ordina il sapere mitico, rivivendo nostalgicamente quell'antica liturgia della parola per diffonderla, non diversamente da quanto stava compiendo il mondo giudeo-cristiano. Attraverso l'intreccio e la combinazione di tre registri narrativi, descrittivo, mirice-fondante e favolistico, che intersecano l'ossatura genealogica, essa si propone di "giustificare le strutture e il funzionamento dell'universo nella sua genesi e nella sua dimensione spazio-temporale", divenendo il libro mitologico per eccellenza ma anche per certi aspetti, come riconosceva Frazer, una sorta di "Genesi" pagana.

Il santo Reich. Le concezioni naziste del cristianesimo.

Richard Steigmann-Gall
Il santo Reich. Le concezioni naziste del cristianesimo.
Boroli, 2005

Recensione di Bol.it

Negli ultimi anni pressoché tutti gli aspetti del nazismo sono stati passati al vaglio dell'analisi storica. Ci si è chiesti se il nazismo fosse moderno o antimoderno, progressista o reazionario, capitalista o socialista, espressione della classe media o interclassista; è stata messa in discussione persino la centralità dell'antisemitismo nel movimento. Un aspetto di fondo è rimasto invece incontestato: la convinzione che il nazismo fosse un movimento profondamente anticristiano e che blandì il cristianesimo in modo cinico e opportunista, dapprima per ottenere vantaggi nella lotta elettorale, in seguito per mantenere l'ordine sociale. Passando in rassegna le concezioni religiose dei gerarchi nazisti, anche attraverso gli scritti privati e le dichiarazioni rese a porte chiuse, Steigmann-Gall rimette in esame questo assunto. Egli indaga sul ruolo del cristianesimo nel movimento e scopre che sotto diversi aspetti il nazismo pretese di essere erede della cultura cristiana, soprattutto del protestantesimo tedesco, e che molti leader si consideravano buoni cristiani. Dimostra altresì che il richiamo al cristianesimo rappresentò per i nazisti una risorsa: le battaglie contro i nemici della Germania furono presentate come una guerra in nome del cristianesimo, in difesa del bene e contro il male, per Dio e contro il demonio, per il popolo e contro il giudaismo. Nel nazismo si contrapposero due correnti di pensiero religioso. I cosiddetti "cristiani positivi" ritenevano che il nazismo fosse compatibile con il cristianesimo, o addirittura che affondasse in esso le sue radici, e concepivano il movimento come la risposta cristiana, al di sopra delle confessioni, ai profondi sconvolgimenti che la guerra aveva portato nella società tedesca. I "paganisti" respingevano invece il cristianesimo e si proponevano di creare una religione ispirata ai miti nordici. Steigmann-Gall dimostra però che la loro negazione del cristianesimo era solo parziale, e che nella nuova religione essi integravano aspetti del pensiero cristiano, soprattutto nella versione protestante tedesca. Molti capi nazisti poi, sia paganisti sia cristiani, riverivano in Gesù il primo "ariano" e antisemita, strumentalizzando la sua lotta al giudaismo corrotto. Lutero, poi, era visto da molti come un grande eroe nazionale: non solo il primo protestante ma anche il primo con una piena identità tedesca e quindi il primo nazista 'ante litteram'. Di qui il particolare interesse per le Chiese protestanti e il tentativo di creare una Chiesa unificata protestante del Reich sul modello della Chiesa anglicana. Anche se dopo il fallimento di questi tentativi il movimento accentuò i caratteri antireligiosi, molti nazisti restarono convinti che il cristianesimo avesse un grande rilievo nella loro ideologia.

La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana.

Augusto Fraschetti
La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana.
Laterza, 2004

Descrizione
Che cosa accade in una grande città, in una capitale dell'Impero, per la precisione, quando il suo capo supremo passa da una religione a un'altra? Quali sono i contraccolpi sull'urbanistica, sui riti cittadini, sulle cerimonie ufficiali, sullo stesso calendario e, attraverso questo e le sue ricorrenze, sulla vita di tutti i cittadini, fino agli strati più umili? Una ricostruzione di eccezionale ampiezza e organicità della conversione di Roma che mostra come, a partire da Costantino, la capitale dell'Impero romano divenne una delle più importanti sedi della cristianità.

I Riti del Solstizio.

Richard Heinberg, I Riti del Solstizio.
Ed. Mediterranee, Roma, 2005

Nota dell'editore

Per molti secoli i nostri antenati hanno celebrato le stagioni dell'anno con feste rituali. Tali feste le più importanti e universalmente osservate erano i due Solstizi (d'estate e d'inverno) avevano molteplici funzioni: creavano maggiore coesione all'interno della comunità, erano uno sfogo collettivo, ma soprattutto accrescevano il senso di comunione con la Natura.
Oggi non c'è più traccia di questi riti, se non nella loro irriconoscibile versione commerciale rappresentata dal Natale e dal Capodanno, e si è perso il senso d'interazione ciclica tra la Terra e il Cielo.
Un rapporto sano con questi poteri più grandi di noi è senza dubbio la strada da percorrere per ripristinare l'originario equilibrio Terra-Sole che l'uomo ha sempre più compromesso e per ristabilire anche l'equilibrio nella comunità umana.
Il libro di Richard Heinberg racconta il modo in cui tradizionalmente le diverse culture del mondo dal Medio Oriente alle Americhe, dall'India all'Europa celebravano questi riti, e come al giorno d'oggi si possano ripristinare le feste del ciclico rinnovarsi della Terra, accogliendo il Nuovo con canti, danze e giochi.
Non occorrerà intraprendere costosi viaggi verso famosi antichi luoghi sacri come Stonehenge, Uluru o Avenbury, ma sarà sufficiente, con spirito d'osservazione e cuore aperto, scoprire i siti geocosmicamente speciali nella nostra zona, in campagna come in città; potremo essere da soli o coinvolgere un gran numero di persone in attività collettive d'ogni tipo, all'insegna della gioia, del piacere di stare insieme e del rispetto per la Natura.

In equilibrio sul filo dell’acrobata l’amore fa capriole con la morte

In equilibrio sul filo dell’acrobata l’amore fa capriole con la morte
UNO STUDIO DELL’ANTICHISTA DEONNA CHE RICHIAMA «IL FUNAMBOLO» DI GENET, IL CIRCO E LA TAUROMACHIA, LA MEDITAZIONE YOGA E LE POSIZIONI DEL KAMASUTRA

20/8/2005

Marco Belpoliti

VERSO fine del 1956 Jean Genet conobbe un giovane artista del circo, Abdallah Bentaga, figlio di un acrobata algerino e di una tedesca. Lo scrittore francese si legò a lui in un rapporto che lo indusse a peregrinare per l'Europa. Nel corso dei loro spostamenti Genet cercò di convincere Abdallah, che lavorava come giocoliere e acrobata al suolo, a salire sul filo da funambolo. Lo plagiò sino a indurlo a sottoporsi a un estenuante allenamento. Su un foglio di carta disegnò anche un numero segnandone i passi. Il giovane algerino cadde dal filo una prima volta nel 1959, ma vi risalì. Si unì alla compagnia del Circo Orfei per una tournée in Kuwait. Ma ricadde una seconda volta e fu la fine della sua carriera. Genet era convinto di aver realizzato con Abdallah, suo doppio narcisistico, una sorta di capolavoro che l'imperizia e la debolezza del ragazzo mandò in malora, come scrisse a un amico. Nel febbraio del 1964 Abdallah inghiottì un barbiturico e si tagliò le vene. Sette anni prima Genet aveva scritto per lui e su di lui un piccolo poema in prosa, Il funambolo apparso in rivista e poi raccolto in volume (tradotto da Adelphi). E' uno dei testi più belli dello scrittore, uno dei suoi più sfavillanti, dove mette allo scoperto la sua estetica ma anche la sua erotica. Si tratta di un grande inno alla Morte, compagna ma anche madre del funambolo: «La Morte - la Morte di cui ti parlo - non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo. E' prima di scalarlo che muori. Colui che danzerà sarà morto - deciso a tutte le bellezze, capace di tutte». Quattro anni prima della pubblicazione del Funambolo uno studioso di lingua francese, lo svizzero Waldemar Deonna, aveva editato un piccolo studio sull'acrobazia antica che Genet probabilmente non ha mai letto ma che è perfettamente convergente con il suo poema: Il simbolismo dell'acrobazia antica. Deonna, che è uno dei più straordinari e misconosciuti studiosi dell'antichità classica, aveva registrato nei testi visivi scritti dell'Antico Egitto, del mondo greco e romano, sino ad arrivare al Medioevo cristiano, la presenza della figura dell'acrobata intento a compiere le sue prodezze mantenendosi dritto sulle mani o sulla testa. Scrutando vasi, affreschi, disegni, segni calligrafici e geroglifici, Deonna, autore di un bellissimo studio sul simbolismo dell'occhio, annunciato da anni in traduzione presso Einaudi, aveva descritto il legame che esiste tra questi esercizi e i temi funebri. Dietro ai numeri eseguiti da uomini, ma anche donne, in banchetti, cortei, cerimonie religiose, funerali, c'è infatti una precisa simbologia della morte e rinascita che si definisce nelle figure dell'inarcamento, del cerchio, dell'inversione, del contatto tra piedi e capo, e che riprende temi e posture attribuite a Ra e a Osiride, a Nut e a Geb. Sui sarcofagi egizi sono dipinte le figure acrobatiche degli dei: figure ricurve, giochi con sfere, scarabei sacri, figure falliche. Deonna, docente a Ginevra, scomparso nel 1959, allarga la sua indagine al mondo dell'acrobazia coi tori, alla tauromachia greca, e ritrova le figure dei kybisteteri, gli acrobati, nell'Asia minore. Il libro, composto di brevi testi corredati da lunghe note bibliografiche e citazioni di oggetti, è tempestato di piccole suggestive immagini di corpi eretti o ripiegati, di esercizi con le spade, di equilibristi e contorsionisti per lo più nudi o coperti da un piccolo perizoma. La sua indagine scruta i testi di Artemidoro e di Nonno di Panopoli, le sue Dionisiache, dove l'acrobazia si unisce alla danza, si sposa alle pratiche di satiri che a loro volta alludono alle contorsioni della morte e dell'ebbrezza, del piacere e del dolore, del rischio supremo e della gioia piena. Sono tutti acrobati della morte: «Tra la danza acrobatica e la morte vi è una stretta unione, la prima imitando l'altra». Non si può non ammirare le immagini delle acrobate donna che in alcuni vasi custoditi al British Museum camminano sulle mani, a seno nudo e con le gambe protese in avanti, figura ibrida incerta tra l'umano e l'animale. Deonna, che scandaglia a fondo tutte le immagini della morte presenti nell'acrobazia, non si addentra nella zona incerta in cui la morte si lega all'eros, cosa che è invece evidente nel testo di Genet. Nelle pagine dello studio sono invece i Sileni a tenersi in equilibrio sui loro sessi prominenti. Queste figure sessuate arrivano sino alle chiese romaniche e gotiche, ai capitelli e ai portali di Avallon e di Modena. La Chiesa disapprovava nel Medioevo le acrobazie e in generale i giochi circensi. Ne percepiva l'impudicizia di fondo, la medesima che secondo Genet fonda il connubio tra morte e sesso nel suo funambolo. Il Circo, scrive, è insieme alla poesia, alla guerra e alla corrida uno dei pochi giochi crudeli che siano rimasti. E mentre il mondo antico persegue la crudeltà come componente essenziale della vita, il cristianesimo la nasconde o rimuove. Il Circo è il luogo della metamorfosi dove la polvere si trasforma in pulviscolo dorato, e in cui la morte dell'acrobata allude, come ricorda Deonna, un'immancabile rinascita. Anatole France descrive in un suo racconto le imprese del giullare di Notre Dame che faceva la ruota all'indietro e nel contempo manipola dodici coltelli. La Salomè biblica che danza davanti a Erode è un'acrobata ma anche una portatrice di morte. Di questo legame con la morte, sancita dalle acrobazie per i funerali, abbiamo mantenuto ben poca traccia. Nella loro lunga evoluzione i riti e i motivi religiosi, scrive Deonna, si svuotano del loro contenuto spirituale per diventare giochi o ornamenti. L'acrobazia tuttavia conserva ancora un misticismo di fondo, qualcosa che fa convivere negli esercizi di destrezza qualcosa di regale e insieme di reietto, di sacro e di impudico, come testimonia anche un piccolo libro di Philippe Petit, Trattato del funambolismo (Ponte alle Grazie), scritto da un acrobata che ha teso in passato il suo sottile filo d'acciaio tra le torri di Notre Dame e quelle del World Trade Center. In Egitto il geroglifico che indica il verbo danzare ha la forma del corpo umano rovesciato all'indietro. L'acrobata è imparentato con il ciclo della rinascita del mondo vegetale, ma anche con l'acqua, mentre le sue mosse all'incontrario mobilitano i gesti superstiziosi tesi ad allontanare la morte, l'invidia degli dei e la gelosia del mondo infero. Ma l'acrobata è anche l'antesignano dell'isterica disegnata nei testi clinici di Charcot: l'inarcamento è la loro figura. La prima immagine con cui si apre Il simbolismo dell'acrobazia antica, una serie di piccoli disegni neri, riassume la destrezza della capriola sulle mani in avanti, e quella all'indietro o la sospensione sugli avambracci. Ricorda da vicino le posizioni dello Yoga, dal Titibhasana al Dvipadasirsasana, di cui Deonna tuttavia non parla. Mentre il mondo egizio e greco hanno sviluppato un'arte sacra dell'acrobazia indirizzata alla evocazione del ciclo di morte e rinascita, l'Oriente indiano ha invece descritto le posizioni del corpo umano teso alla meditazione, ma anche all'acrobazia, l'Asanas, accostandole a quelle della respirazione del Pranayama. Nelle acrobazie dello Yoga le due strade della meditazione e dell'erotismo sono prossime. Non identiche, ma ugualmente dirette a governare l'energia come nello yoga tantrico cui sembrano alludere tanti disegni del testo di Deonna: la ritenzione del seme e il governo del piacere. Il Kamasutra è senza dubbio un trattato di acrobazia amorosa che l'Occidente legge invece come un manuale di performance erotiche.


(recendione di: Waldemar Deonna, Il simbolismo dell'acrobazia antica intr. di Pier Angelo Carozzi, Medusa, pp. 154, € 18, da : ttL tuttoLibritempolibero, supplemento a La Stampa 20/8/05 p. 7 )

Vergine o prostituta, per chi canta la sirena

Un saggio ricostruisce le metamorfosi della donna fatale dell’antichità, espressione della sessualità trasgressiva
Vergine o prostituta, per chi canta la sirena

La parola sirena, tra le molte che sono arrivate nella nostra lingua dall’antichità greca, è a tutt’oggi di uso quotidiano, ma non tanto, non più, nel significato di donna ammaliatrice e fatale, quanto come quel segnale acustico allarmante che costituisce uno degli eventi sonori di fondo della vita cittadina. Oppure compare talvolta nel linguaggio politico: sirene come messaggi incantatori e subdoli richiami, che confondono e sviano. Ma chi erano veramente le sirene originarie, e cosa unisce le figure del mito antico al segnale di pericolo - furti, incendi, corse all’ospedale, trappole politiche - con cui le evochiamo oggi? Era la loro bellezza, celebrata in tante storie della cultura occidentale, ad avere un ruolo fatale? Nel mondo greco, come un’attrice particolarmente eclettica e versatile, la sirena compare in scene diverse che a prima vista non sembrano avere niente in comune. E non è affatto una seduttrice fortunata. La sua più celebre performance, l’incantamento di Ulisse, è un fallimento tale da indurre al suicidio: in una pittura vascolare del V secolo a.C., mentre due compagne cantano ancora, la terza è in atto di buttarsi in mare. Non un tuffo ristoratore, ma una morte cercata, perché la sirena dell’antichità era un uccello, una creatura alata figlia della Terra, e non marina - il mare anzi l’avrebbe privata dei suoi più caratteristici attributi, il canto e il volo. Quanto alla bellezza, nelle prime rappresentazioni ne è assolutamente priva - la sua natura per metà ferina l’apparenta al mostruoso, non all’attraente. Eppure la sirena continua a possedere un potere ipnotico, di metamorfosi in metamorfosi, di storia in storia, fino al termine che la designa ai nostri giorni. Perché il suo viaggio attraverso il tempo e il conseguente trasformismo non è senza coerenza, e soprattutto indica qualcosa che abita in modo stabile la mente umana, come racconta l’ampia inchiesta sul mondo delle antiche sirene condotta dall’antropologa Loredana Mancini in un recente saggio, Il rovinoso incanto (il Mulino, pp. 320, 22).
Nelle raffigurazioni pittoriche le sirene cantano e suonano, ma il loro canto non ha niente a che vedere con quello, ordinato e sapiente, delle Muse e di Apollo: è un canto stridulo, incontrollato, più vicino all’urlo che alla melodia. Per giunta suonano l’aulos, il flauto a due canne contrario, secondo Platone e Aristotele, per il suo suono scomposto alle leggi della polis . Dovunque le si trovi, c’è in loro qualcosa di perturbante. Nella tragedia antica sono le cantatrici dei funerali, quelle che sanno dare, come dice la Elena di Euripide, dolore al canto - e in Attica o in Asia Minore appaiono spesso nei cimiteri, figure alate e musicanti che accompagnano il defunto nell’aldilà. Anche nella commedia degli autori che vengono dopo Aristofane la sirena turba, perché non è altro che una vecchia cortigiana, anzi una vecchia cortigiana altro non è che una «sirena spennacchiata». Poi invece da prostituta diventa vergine: così in alcuni riti accompagna le giovinette al matrimonio, raffigurata anche negli oggetti - specchi, bacili lustrali - che porteranno con sé. Ma non disdegna amori strani e licenziosi: in una coppa attica del VI secolo a.C. è in compagnia di due personaggi dalle fattezze satiresche intenti a una energica attività sessuale solitaria; molti secoli dopo, in un rilievo in marmo del II secolo d.C., cavalca in un amplesso - un sogno o incubo erotico - un vecchio sileno dormiente. Quanto alla loro abitazione, il giardino incantato di fiori che sono invece ossa di scheletri, esso è molto lontano, ai margini del mondo, là dove comincia la barbarie - cioè ai margini del mondo greco, che si tratti dei lontani rami del Mediterraneo di Ulisse o dell’estremo confine orientale, l’Indo.
Margini, morte, anomalia: sono questi, secondo la ricerca di Mancini, i termini del «grado zero» della sirena, ciò che comunque e sempre la caratterizza nei suoi vari travestimenti. Così la vergine e la prostituta sono entrambe due anti-donne rispetto alla donna normale, cioè alla sposa e alla madre, e la sessualità selvaggia, cui è talvolta associata, è simile alla potenza selvaggia della voce che dispiega nel suo canto. Se anche Socrate può essere definito sirena con i suoi discorsi imprevedibili (nel Simposio ), se sirene in altri testi antichi sono i tiranni e i demagoghi, la sua voce che turba e stordisce è sempre una sonorità primitiva, caotica e panica, opposta alle leggi del logos e al normale svolgimento della vita, il segnale di un’infrazione all’ordine che indica un’emergenza. In altri termini, una figura dell’immaginario così necessaria e inevitabile malgrado i cambiamenti culturali e i progressivi slittamenti tra il fantastico e il reale, che ci accade ancora oggi, per uno di quei miracoli della potenza dei miti antichi, di usarla nel suo senso più proprio ed esatto anche senza conoscerne affatto la storia.

(Corriere della Sera 4/6/05)

Il rovinoso incanto, Storie di Sirene antiche

MANCINI LOREDANA
Il rovinoso incanto, Storie di Sirene antiche
Collana "Antropologia del mondo antico"
pp. 320,2005, con illustrazioni

Erede della donna-uccello dei Greci, la “femme fatale” dalla coda di pesce che chiamiamo Sirena porta un nome antico, ma abbastanza duttile da evocare due aspetti della modernità molto distanti tra loro: la sessualità trasgressiva al femminile e il suono lacerante che percorre quotidianamente le strade delle nostre città. Uno sdoppiamento, almeno all'apparenza, già operante nelle vicende culturali della Sirena antica: come si sposa, infatti, la soave cantatrice che insidia la navigazione di Odisseo con il ben poco avvenente uccello dal volto di donna che popola i monumenti figurati greci? La Sirena che, nella scultura funeraria, ha la funzione di esprimere il lutto è la stessa che, nelle cerimonie connesse alla pubertà, accompagna metaforicamente le fanciulle? E cosa ci fa una Sirena, comunemente associata al mare, nelle più impervie regioni interne della Grecia o lungo il corso del lontano Indo? Attingendo a una nutrita serie di testimonianze letterarie e figurative l'autrice si interroga sulla funzione che la Sirena rivestiva nella cultura antica, dal mito al folclore, dal rituale alla riflessione filosofica. E nel seguirne le trasformazioni di significato ne identifica una connotazione di base: il fascino e il pericolo che gli antichi associavano ad un canto che fluisce senza controllo e ad un esercizio senza freni della femminilità.

Loredana Mancini è dottore di ricerca in Antropologia del Mondo Antico presso l'Università di Siena. Si occupa di iconografia dell'arte antica e di storia dell'archeologia

Prodigi

Giulio Ossequente

Prodigi

Mondadori,Collana: Oscar, Pagine LVII-292, 2005
Argomenti: Classici greci e latini
Prezzo di vendita: € 8.40

Note: Introduzione e testo di Paolo Mastandrea - Traduzione e note di Massimo Gusso
Note di Copertina

Il Liber prodigiorum di Giulio Ossequente è una delle opere più curiose giunteci dalla tarda latinità. Composto forse nel V secolo, raccoglie una serie di fatti prodigiosi o comunque inspiegabili accaduti tra gli anni 249 e 11 a.C., anche se a noi è arrivato senza la parte di racconto degli eventi anteriori al 190. La fonte, quasi unica, sono le Historiae di Livio, tanto che il Liber può considerarsi una sorta di riassunto tematico degli scritti dello storico padovano. Al di là dell'intento enciclopedico e antiquario, con queste pagine l'autore desiderava rappresentare una Roma all'altezza del glorioso passato, favorendo atteggiamenti di rispetto verso i culti tradizionali che avevano tutelato la città durante la fase della sua ascesa.

Giuliano. Ultimo degli imperatori pagani

Polymnia Athanassiadi
Giuliano. Ultimo degli imperatori pagani
Ecig, 1994

Note di Copertina

Dalla "strage dei Flavi" (Gibbon), cui scampò per la giovane età, passando per esili e detenzioni, pericoli e dissimulazioni, Giuliano arrivò al potere con la rabbia dei suoi veterani Celti, traditi dalla malafede dell'imperatore Costanzo - e fu subito Ellenismo. L'"Apostata", come fu chiamato con cieco spregio dagli autori cristiani, restaurò l'antico e tollerante culto politeista: ultimo degli imperatori "pagani", fu anche l'ultimo a proclamare e difendere dalla tribuna augusta l'autonomia e la coerenza dei valori della civiltà greco-romana. Polymnia Athanassiadi, in questa "biografia intellettuale", ripercorre con sagacia e passione i turbamenti morali e la ricerca filosofica di una delle figure più controverse della storia romana e - perché no? - della nostra civiltà. La formazione intellettuale, le crudeltà cui fu esposto, il tentativo, vano e estremo, di riportare in auge e rinverdire una tradizione che era ancora quella dei più, fanno di Giuliano un personaggio emblematico, posto al crepuscolo di una civiltà che vedeva la sua cultura sempre più risucchiata e mistificata da una religione esogena, ormai pervenuta al cuore del potere: questo libro, importante e dibattuto, ci fa rivivere nel travaglio di un uomo di spicco l'agonia di un mondo assai meno "languido, dissoluto e decadente" di quanto così spesso si voglia farlo apparire.

Il presente Julian, scritto durante un soggiorno accademico a Oxford e ormai giunto alla seconda edizione inglese, è un momento fondamentale della ricerca che l'autrice svolge nel campo della storia delle mentalità ellenica ed ellenistica.

Indice - Sommario

Prefazione
Abbreviazioni
Introduzione: Ellenismo: unità o diversità
I giardini di Alcinoo
Miles Mithrae
lulianus Augustus
Paideía
Re, sacerdote e filosofo
Verso la campagna di Persia
Epilogo
Note
Bibliografia
Indice analitico



Prefazione / Introduzione

Questo libro tenta di ripercorrere le tappe principali dell'evoluzione emotiva, intellettuale e spirituale di Giuliano, a partire dalla nascita, nel 331 d.C. a Costantinopoli, fino alla morte, avvenuta trentadue anni più tardi nelle paludi della Mesopotamia. Inserito in un'ecumene complessa, variegata e in costante mutamento, Giuliano emerge come un personaggio inquieto, perennemente assillato dai più diversi problemi filosofici e politici. Nell'accostarmi a lui ho tentato di cogliere le tensioni e i conflitti prodotti nel suo animo dalla vita esteriore e dalla crescita inferiore. Così ho finito per occuparmi più delle sue intime motivazioni che delle sue gesta, per cui talune sue imprese, in particolare in campo militare, che in una biografia convenzionale avrebbero giocato un ruolo di primo piano, vengono toccate solo marginalmente. In questo viaggio avventuroso nei meandri dell'evoluzione spirituale di Giuliano, mi sono talvolta sentita guidare da una sorta di filo d'Arianna, quasi dipanato da lui stesso; in più d'una occasione ho dovuto tornare sui miei passi, ogni qualvolta l'eccessiva intimità con le sue idee rischiava di impedirmi di comprenderne l'effettivo significato. Per evitare tale pericolo, mi sono servita in modo sistematico delle testimonianze dei suoi contemporanei. Nell'accostarmi alle opere di Ammiano Marcellino, Mamertino, Libanio, Imerio e Gregorio di Nazianzos, come anche di Eunapio, Zosimo, Socrate e Sozomeno, ho tenuto presente la mentalità, l'impronta professionale, le idiosincrasie e le idee di ciascuno. Ancora prima che la sua giovane vita avesse termine, Giuliano era divenuto una figura leggendaria e tutti gli autori citati contribuirono alla creazione del suo mito. Scrivendo questo libro, ho capito quanto sia difficile per lo storico non prestare ascolto al suggestivo richiamo della leggenda. Non potendo eludere il problema, ho cercato quanto meno di evidenziare i tratti del Giuliano "reale" maggiormente responsabili della nascita del suo mito nella cultura di Bisanzio.
(Polymnia Athanassiadi)

La porta dei sogni, Interpreti e sognatori nell'Egitto antico

Edda Bresciani
La porta dei sogni, Interpreti e sognatori nell'Egitto antico

Prima edizione: 2005, EINAUDI, pp. XIV-190

«In realtà l'interpretazione dei sogni è del tutto analoga alla decifrazione di un'antica scrittura pittografica come i geroglifici egizi».

Sigmund Freud

Nell'Egitto antico si sognava di notte e di giorno. I sogni nascevano dormendo nella propria casa o dentro i templi. C'erano molti templi dove sognare, erano aperti a tutti, a sognatori di ogni livello sociale. Durante l'incubazione il dio appariva e parlava direttamente per dare consigli, pronostici e prescrizioni mediche (in particolare cure contro la sterilità). A sognare erano uomini e donne, privati e sacerdoti, i seguaci di Seth e quelli di Horo, sognatori "politici" e faraoni. Si sognavano animali sacri e belve feroci, frutti e piante, strani accoppiamenti, parti bizzarri e ancor piú singolari allattamenti. I sogni facevano insomma parte del mondo egiziano, e cosí la loro interpretazione.
In verità, nella civiltà egiziana piú antica, durante il sonno che rende gli uomini cosí vulnerabili, il sogno era stato l'habitat pericoloso, il luogo di incontri paurosi con spiriti, fantasmi e morti scontenti da placare con preghiere e offerte, e da respingere con formule magiche e talismani. Piú tardi, il sogno ha invece assunto la funzione di una porta aperta sul futuro, un presagio di ciò che accadrà. Ed è nel Nuovo Regno che si incontrano le prime liste e i racconti di sogni. L'interesse per i sogni e per il loro significato continua e si arricchisce poi nell'Egitto piú tardo, ellenistico e romano.
Edda Bresciani legge e commenta per noi i testi magici di protezione del sonno e i Libri dei Sogni egiziani (qui in una nuova traduzione), veri manuali e repertori, dove i sogni sono elencati col loro significato di auspicio buono o cattivo per tutte le occasioni della vita. Il lettore scopre allora che timori, speranze, visioni e ossessioni degli antichi abitanti della terra del Nilo non erano dissimili da quelli dell'uomo di oggi, e che lo schema di interpretazione antico si avvicina molto a quello delle Chiavi dei sogni moderne.

«Era dopo la cena ed era venuta la notte; mi presi un'ora di tranquillità, sdraiato sul mio letto. Ero stanco e la mia mente cominciò a seguire il sonno».

«Salute, o tu buon sogno, che è visto di notte e di giorno. Porta via tutti i mali e le cose cattive che ha creato Seth, figlio di Nut».

Hinc italae gentes. Geopolitica ed etnografia dell’Italia nel commento di Servio all’Eneide

Hinc italae gentes. Geopolitica ed etnografia dell’Italia nel commento di Servio all’Eneide

A cura di Carlo Santini, Fabio Stok.
Collana: Testi e studi di cultura classica (31)
ISBN: 88-467-0979-9 Anno: 2004 Pagine n° 316
Edizioni ETS, € 18.

Per secoli, dalla tarda antichità al Rinascimento, il commento di Servio (IV-V sec. d.C.) è stato lo strumento principale con cui sono state lette e interpretate le opere di Virgilio. La cultura moderna lo ha utilizzato a lungo come repertorio di notizie antiquarie e mitografiche. Solo negli ultimi anni la critica ha riscoperto in Servio l’espressione di una cultura che aveva eletto Virgilio quale maestro di saggezza e classicità ed ha pensato alla possibilità di leggere il suo commento anche come un sistema letterario.
I saggi contenuti in questo volume esplorano il modo in cui Servio commenta la guerra narrata da Virgilio nella seconda metà dell’Eneide, nella quale si affrontano i Troiani di Enea, i Latini, gli Etruschi e le altre popolazioni dell’Italia preromana.

I Misteri di Dioniso

Reinhold Merkelbach
I Misteri di Dioniso
Ecig, Genova, 1991

Nietzsche parla di Dioniso come del dio delle passioni violente e sfrenate: le sue Menadi danzavano sui monti solitari, dilaniavano gli animali sacrificali divorandoli crudi. Ma questo "dio della tragedia" per i Greci o i Romani dell'età imperiale aveva tratti molto più inoffensivi. Era il dio degli alberi da frutto, del vino, dell'eterna palingenesi del ciclo delle stagioni. I suoi seguaci celebravano feste pastorali nei campi: Dioniso era il dio della pace e dell'Età dell'Oro. La più grande festa in suo onore coincideva con la vendemmia e la pigiatura dell'uva, la sua religione predicava il benessere, l'armonia, era culto della Bellezza. Si trattava comunque di un grande culto misterico, tanto segreto che di esso non è restato alcun testo sacro. Era una religione non scritta che per natura si prestava ad essere tramandata per immagini più che per parole. La novità di questo libro sta nel ricostruire il culto misterico di Dioniso attraverso le iconografie dionisiache pervenuteci e nel metterlo a confronto con la famosa storia d'amore di Dafni e Cloe, il romanzo pastorale di Longo che tanto influenzò la poesia arcadica, scoprendo che esso non è altro che una versione letteraria dei misteri di Dioniso.

Mitra. Il Signore delle grotte

Reinhold Merkelbach
Mitra. Il Signore delle grotte
Ecig, Genova, 1998
€ 20,66

L'opera fondamentale di Reinhold Merkelbach, corredata da un'ampia sezione iconografica, riporta e interpreta con straordinaria accuratezza, commentandole in maniera avvincente, le numerose testimonianze del culto mitraico, dai regni ellenistici a Roma e alle più remote province dell'Impero. Assistiamo così alla nascita, all'espansione e al malinconico tramonto di una religione che, tra l'altro, diventò - in una Roma mortificata dal proprio declassamento - un punto di coagulo per la resistenza della cultura pagana. Ma, a parte i riti superstiti di ristrette cerchie orientali, il dio Mitra, nato durante il solstizio d'inverno e venerato negli antri, percorre anche le vie della tradizione orale - vie sotterranee, appunto -per riemergere, eroe di racconti popolari, il giorno dell'Ascensione in Armenia, a oltre millecinquecento anni dal trionfo del cristianesimo.

I misteri di Mithra. Cosmologia e salvezza nel mondo antico

David Ulansey
I misteri di Mithra. Cosmologia e salvezza nel mondo antico
Mediterranee, Roma, 2001
€ 12,91

NOTA EDITORIALE

Dei molti enigmi lasciati dall’antichità uno dei più misteriosi e affascinanti è quello relativo al culto misterico tributato in epoca romana, dal I al IV secolo d.C., al dio Mithra. I segreti, rivelati unicamente agli iniziati di questi misteri, non vennero – per quanto ne sappiamo – mai messi per iscritto, e quindi gli studiosi non si possono avvalere di specifiche testimonianze letterarie, ma soltanto della copiosa iconografia mitriaca, peraltro estremamente difficile da decifrare. L’interpretazione più accreditata delle fonti archeologiche, sostenuta in questo lavoro di David Ulansey – lo sviluppo della propria tesi di specializzazione presso l’Università di Princeton – è quella che la strana rappresentazione simbolica di questo antico culto sia in realtà un codice astronomico, e ciò dimostrerebbe l’elevato grado di conoscenza posseduto dai suoi adepti. Il libro, frutto di molti anni di ricerca, è entusiasmante e procede, passo dopo passo, tassello dopo tassello, fino allo svelamento della complessa struttura cosmologica nascosta dietro al simbolismo della tauroctonia, la scena dell’uccisione del toro da parte del dio Mithra, che compare in maniera identica in ogni tempio dedicato a questa religione. Ma, oltre all’interesse intrinseco di tali raffigurazioni, lo studio del mitraismo è di grande importanza per comprendere la matrice culturale da cui prese le mosse il cristianesimo. Le due religioni furono infatti sorelle, nacquero nella stessa epoca e si diffusero grosso modo nella medesima area geografica, cercando di dare risposte differenti al comune desiderio di trascendente.

Se ai Greci togli gli dei, spariscono pure gli uomini

Se ai Greci togli gli dei, spariscono pure gli uomini

Nel mondo, il divino sospende il potere del caos e afferma quello della bellezza: il classico di Walter Otto, storico delle religioni «ispirato» da Nietzsche, un libro per Baricco...

Federico Vercellone

GLI dei sono qui - affermò il grande antagonista di Friedrich Nietzsche, colui che ne condannò la visione mistica della grecità, il rigoroso e scientificamente laicissimo Ulrich von Wilamowitz Moellendorf rammentando così il requisito fondamentale della religione greca, quello per cui il dio consiste della propria apparizione, manifestandosi qui e ora. Il divino - ce lo ricorda il volume Gli dei della Grecia di un grande storico delle religioni eterodosso e d'ispirazione nietzschiana, quale Walter Otto - custodisce, per il greco, una determinata sfera dell'essere e le dà forma. Ogni figura dell'Olimpo restituisce intuitivamente, attraverso i suoi lineamenti, un ambito dell'attività umana o della natura nelle sue sfumature e modulazioni, e ne contempla caratteristiche e peculiarità.
Questa suprema vivente connessione si chiama dio. Proprio per ciò nessun greco si sarebbe mai chiesto se gli dei esistessero: semplicemente li aveva dinanzi come evidenze grazie alle quali una determinata sfera del mondo assume le proprie fattezze. In breve un greco non poteva essere ateo proprio perché non credeva ai suoi dei ma semplicemente ne presupponeva l'esistenza. Stando così le cose non ha alcun senso voler secolarizzare il mondo omerico, poiché se gli si sottrae il divino non gli resta neppure l'umano. E' così che operazioni recenti come quella di Alessandro Baricco, intese a laicizzare un poema come l'Iliade eliminando gli dei dalla narrazione, finiscono per lasciare notevolmente perplessi. L'esito ultimo di un adattamento di questo genere del testo antico è quello di produrre un falso vero e proprio: nessun eroe omerico si sarebbe mai sognato di vivere e agire in un mondo disertato dagli dei. Il disincanto è infatti un prodotto moderno di cui rende ragione un genere tipicamente moderno come il romanzo che con l'epos ha soltanto una vaghissima parentela. Prescindendo ora da divagazioni estemporanee, è il caso di addentrarsi ulteriormente negli Dei della Grecia di Walter Otto, di cui Adelphi presenta una nuova edizione italiana a cura di Giampiero Moretti e di Alessandro Stavru. Alla sua prima edizione, nel 1929, questo testo suscitò interesse e perplessità: esso si proponeva di riproporre lo sguardo nietzschiano sulla religione greca, di mostrare l'abisso originario sul quale il mondo olimpico era venuto a ergersi. Naturalmente la cosa non poteva non suscitare sospetti e contrastanti prese di partito. Nietzsche era infatti stato messo al bando dalla scienza dell'antico proprio da quel
Wilamowitz che avrebbe alla fine adottato il medesimo criterio fatto proprio dal suo antagonista nella Nascita della tragedia, quello secondo cui non si accede al divino che attraverso il divino stesso. Non si può cioè intenderlo se non riconoscendo che esso è ciò che tiene insieme, nella sfera dell'apparizione e non in quella del discorso, diverse sfere dell'essere.
Ciò presuppone una fase più originaria nella quale il divino non è ancora riuscito a prendere dimora nell'ambito che gli compete, quella dell'apparenza, una fase in cui esso lotta per giungere alla chiarezza rappresentativa che gli è propria nell'universo olimpico. Essa è connessa alla sfera della stirpe, del diritto fondato sul sangue; e tutto ciò ci conduce in prossimità dell'Ade, del mondo dei morti. Nello stadio superiore non si è persa del tutto la memoria di questo strato precedente. Lo dimostrano narrazioni come quella di Esiodo a proposito della nascita di Afrodite, secondo la quale questa dea nacque da una curiosa intromissione di Crono nell'amplesso dei genitori, Urano e Terra. Crono evirò il padre e dal seme del sesso divino caduto nel mare e trasformatosi in spuma si venne formando Afrodite. La chiarezza della forma deriva dunque in questo caso da un conflitto oscuro, da un'originaria indistinzione di cielo e terra che, separandosi violentemente, danno luogo alla genesi miracolosa della forma. Nella sua suprema evidenza, essa viene detta bellezza.
La narrazione mitologica non costituisce in nessun modo, da questo punto di vista, un'invenzione fantastica, l'antica testimonianza di un mondo radioso e ingenuo come avrebbe voluto un classicismo caricaturale, ma la testimonianza di una visione profondissima dell'essere e del mondo. Si tratta di un atteggiamento che non testimonia affatto, agli occhi di Otto, una religiosità superficiale alla quale andrebbe accostato per contrasto il cristianesimo. Quando parliamo dei Greci non abbiamo dunque da immaginarci, secondo Otto, un mondo levigato che vive smemorato in una sorta di presente eterno. Al contrario le divinità greche, la loro configurazione, testimoniano - come c'insegna l'esempio di Afrodite - dell'inconcepibile fatica e dolore che costituisce il travaglio della forma, e costituisce il preludio del suo luminoso articolarsi. Attraverso il divino si delinea il mondo nelle sue partizioni, si sospende il potere del caos e s'impone quello più lieve della forma e della bellezza.

Walter Otto, Gli dei della Grecia
a cura di Giampiero Moretti e Alessandro Stavru Adelphi, pp.343, €42

da ttL tuttoLibritempolibero 5/2/2005 p. 6, supplemento de "La Stampa"

È esistita una «madre di tutte le novelle»?

È esistita una «madre di tutte le novelle»? Il Sette e ...

È esistita una «madre di tutte le novelle»? Il Sette e l’Ottocento ne erano convinti. Forti della scoperta della lingua dell’antica India (il sanscrito), avevano trovato nella corrispondente, ricchissima letteratura un certo numero di raccolte di novelle, come il Panciatantra , di quasi due millenni fa. Ed ecco i comparatisti a riscontrare la conquista, da parte di queste novelle, di immensi spazi asiatici ed europei: le raccolte indiane, compatte o frammentate in singole novelle, s’installano nelle letterature spagnola, francese, italiana. E appare straordinaria la vitalità di racconti che, a distanza di migliaia di chilometri e attraverso i confini di lingue, di costumi e di religioni, continuano a essere narrati con pochi cambiamenti. Venne poi la reazione (1893) dell’autorevole Joseph Bédier, che negò questa monogenesi. Insisteva tra l’altro sul fatto che la prevalente diffusione orale delle novelle impedisce di azzardare qualunque ipotesi sulla loro data e provenienza.
Resta che un importante e antichissimo nucleo di narrazioni si è diffuso partendo dall’India ed è giunto in Occidente attraverso traduzioni in lingue mediorientali (siriaco, iranico, ebraico, arabo) e infine in latino, passando poi alle lingue occidentali. Una trafila, questa sì, verificabile, perché attuata in testi scritti. Un itinerario non sempre percorso dalle raccolte di novelle passa per Bisanzio. Qui Michele Andreopulo tradusse in greco dal siriaco il cosiddetto Syntipas , scritto originariamente in iranico ( Novelle bizantine , a cura di Fabrizio Conca, Bur, pagine 184, 8,50).
Questa raccolta circolò poi in Occidente, anche col titolo di Libro dei sette savi oppure di Libro della furberia e della malizia delle donne . Diremo solo che la cornice, elemento quasi fisso in raccolte del genere, rassomiglia a quella delle Mille e una notte . Una matrigna (siamo in regime di poligamia) accusa ingiustamente l’unico figlio del re di averla insidiata e il ragazzo non può difendersi perché Syntipas, suo maestro, ha letto nelle stelle che morirà se non tacerà per una settimana. Per sette giorni, i sette savi da una parte, la matrigna dall’altra si scontrano in una specie di duello impugnando le novelle come armi: i primi infatti sparano racconti che dimostrano le astuzie delle donne, la seconda altrettanti racconti che evidenziano il pericolo dei cattivi consiglieri. Scaduta la settimana, il principe può scagionarsi da sé e la matrigna viene condannata al ludibrio popolare.
La bella introduzione di Conca s’impegna anche a difendere le donne delle novelle, le cui astuzie sono spesso una necessaria autodifesa; ma lo spirito della raccolta è indubbiamente misogino e, dati i tempi e i luoghi, non c’è motivo di stupirsene.

Cesare Segre

Cultura
Corriere della Sera 18 01 2005