sabato 31 maggio 2008

LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA

Corriere della Sera 23 mag. ’08

LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA

Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città
di PIERLUIGI PANZA
Il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi
architetti e ucciso l'urbanistica. È la sostanza della tesi che l'antropologo
dell'Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà della situazione
dell'architettura in un saggio ( Contro l'architettura, Bollati Boringhieri,
pp.118, e 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione
di uno studioso «fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti
di Tom Wolf (1982). E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell'architettura,
ha per lo più «ridotto » gli architetti ad artisti creatori di oggetti «alla
moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e
della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come «stilisti») al
«servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace — afferma La Cecla — non
ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono
state le marche di moda a trasformare l'architettura in moda». Quello che gli
artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato
dell'arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi,
afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della
maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E
una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli
architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo
il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare
l'architettura, l'arte e il design dal «giornalismo culturale» al «giornalismo
di moda», direi dell'«intimo », con responsabilità gravi per il nostro
territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune
«archistar » che finiscono con l'occuparsi «di decoro, di cose carine», come
mutande disegnate da calciatori o starlet. Morti Tafuri e Zevi, alla critica e
alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione collegata ai problemi
dell'immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom non
sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del
consenso. Così c'è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter,
qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c'è qualcun altro, come
Frank O. Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato
che sulla sua testa piovano accuse come quelle contenute nel libro di John
Silber della Boston University dal titolo esplicito: Architettura dell'assurdo.
Come il genio ha sfigurato la pratica di un'arte. Ma La Cecla accusa anche la
«continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una volta che
questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che
diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in
generale, a tutta l'architettura di quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine
degli anni 80 hanno promosso l'idea che l'abitare andasse risolto con grandi
costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città», generando
mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel
Foucault. Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa»
ad «alloggio » l'orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha
spianato la strada all'affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al
decostruttivismo internazionale. L'idea tayloristica di stoccare gli individui
come ingranaggi di un sistema all'interno di alloggi razionali ha distrutto
l'orizzonte storico-simbolico dell'architettura, ovvero quello delle relazioni
primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli
architetti dovranno pur portare una responsabilità! Naturalmente, di fronte alle
accuse di La Cecla, la comunità che si autolegittima «addetta ai lavori» già
stringe le fila, cercando di depotenziare l'analisi a «logica di gossip» (Fulvio
Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al
progetto». Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si
lascia andare a una adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma
mette a nudo le responsabilità del mondo dell'architettura. Gli architetti sono
rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo
dall'interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole
stilistiche) e non dal confronto con gli altri nuovi campi del sapere,
strutturando per decenni un pensiero «unico» di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti ». Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile perdita di centralità dell'architettura.
L'essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso. Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società. Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l'architettura di fronte alle difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l'affermarsi o meno di città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l'interrogarsi su cosa voglia dire declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell'architettura organica.

venerdì 30 maggio 2008

Eros & potere: il catalogo delle belle e traviate

Corriere della Sera 30.5.08
Donne fatali. Da Marie Duplessis a Lola Montez, le cortigiane viste da Giuseppe Scaraffia
Eros & potere: il catalogo delle belle e traviate
di Annamaria Andreoli

Marie Duplessis, la «Signora delle camelie», è la più celebre di una folta schiera di prostitute d'alto bordo che il secondo Ottocento farà brillare nel cielo del mito. Parigi, la capitale del secolo borghese, del secolo dell'industria, degli affari e del perbenismo, ha prodotto questo genere di divinità maledetta quale indispensabile valvola di sfogo: è il piacere che trionfa sul dovere, la bellezza sull'utile.
Di quella schiera di traviate, Giuseppe Scaraffia, assiduo frequentatore dell'Ottocento francese, offre alcuni ritratti che guardano però oltre il mito ( Cortigiane. Sedici donne fatali dell'Ottocento, Mondadori). Tutte bellissime, le sue mondane leggendarie usano la testa non meno del corpo per condurre alla rovina i più rispettabili gentiluomini. Al pari degli agenti di borsa esse sanno determinare la propria quotazione puntando sul valore simbolico dell'eros e diventando così, non a caso, protagoniste indiscusse della moda, dello charme e del lusso, contagi quanto mai immateriali a dispetto della merce che vendono. Un bisticcio di parole, coniato da Baudelaire, è il loro monito: «Per adorare bisogna dorare » (ovvero ricoprire letteralmente d'oro), dato che non è desiderabile se non ciò che si paga a caro prezzo.
I medaglioni di Cortigiane contengono un fuoco di fila di battute che sono altrettanti motti di spirito: segno che la femme fatale è qui chiamata in causa direttamente, attraverso memoriali e carteggi, al di fuori dell'ottica di parte maschile a cui si deve l'elaborazione del mito — Alexandre Dumas figlio in testa. Lola Montez o Marguerite Bellanger, Alice Ozy o Léonide Leblanc appaiono, oltre che allegre, accorte e lungimiranti. Donne libere, soprattutto, antesignane dell'emancipazione, le prime a lottare contro i segni dell'invecchiamento, a praticare lo sport e la dieta per conservare la linea. Spesso poi si sposano, e il matrimonio non è per calcolo con qualche decrepito babbeo facoltoso, ma, scelgono riamate un aitante e ricco rampollo di buona famiglia. Anche se fortuita, la morte precoce della tisica Marie Duplessis sembrò invece ai benpensanti il giusto destino sacrificale di ogni prostituta perché il tragico epilogo metteva in salvo la morale borghese. Esclusa la possibilità del riscatto, il mito poteva dunque prosperare, tant'è vero che le mondane si chiameranno «perdute » come i cavalieri erranti dei tempi remoti. Scaraffia le proietta piuttosto nel futuro per ritrarle come «dive» già capaci di servirsi della pubblicità e del feticismo, attrezzi del mestiere che collaudano al riparo della volgarizzazione novecentesca. Se un mito permane è solo quello, condiviso da Proust, della Belle Époque spazzata via dalla prima guerra mondiale.
Marie Duplessis è una delle protagoniste del libro di Giuseppe Scaraffia «Cortigiane», (Mondadori, pp. 288, € 18)

giovedì 29 maggio 2008

Ariosto, il «picaro» moderno che anticipò Cervantes

l'Unità 29.5.08
SAGGI Una nuova interpretazione di Giulio Ferroni che fa del poeta un assertore «gioioso» della finzione come antidoto al «tragico» del mondo
Ariosto, il «picaro» moderno che anticipò Cervantes
di Roberto Gigliucci

Quando Astolfo giunge sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, incontra Giovanni l’evangelista il quale gli dice cose davvero sconcertanti. Fra cui la più inquietante riguarda i poeti e la poesia. Di poeti autentici ce n’è pochi, e più o meno tutti mentono per necessità e per natura. La storia della poesia è storia di menzogne pazzesche: Enea in realtà non fu affatto pietoso, Achille era un debole, Ettore un pusillanime, Augusto non era benigno, di Nerone non sapremo mai se sia stato effettivamente ingiusto - lecito il dubitarlo - e poi, clamoroso davvero, a Troia non vinsero i Greci di Agamennone bensì i Troiani, Penelope era una meretrice mentre al contrario Didone, tanto biasimata, era la più pudica di tutte. Tuttavia, conclude San Giovanni, non è che io ce l’abbia con gli scrittori, perché fui scrittore anch’io e scrissi le lodi di Cristo.
Possiamo allora addirittura pensare che l’evangelista arrivi ad affacciare «una sorta di dubbio ironico sulla stessa verità della Sacra Scrittura, anche se poi il suo discorso si conclude con una rivendicazione del valore dei veri scrittori e della forza civilizzatrice della poesia». Sono parole di Giulio Ferroni, dal suo volume Ariosto, appena uscito per la Salerno editrice. Parole pesanti quelle di Ariosto in bocca a Giovanni, parole pesanti quelle di Ferroni. Certo, per noi abituati alla letteratura come menzogna intesa in senso manganelliano, o semplicemente derivante dalla mistificazione del realismo in senso barthesiano, tutto questo non è grande scandalo. Ma per chi crede all’Ariosto come tranquillo poeta oraziano dedito all’armonia e alla bellezza, sentirsi dire che il Furioso è un monumento all’umanesimo della menzogna, o per meglio dire all’umanesimo paradossale della crisi di tutte le verità, può essere uno choc.
Intendiamoci, la visione anti-crociana dell’Ariosto che mostra la luce per indicare ambiguamente l’ombra, ovvero dell’Ariosto pessimista e amaro (l’Ariosto ad esempio dei Cinque canti e della bitter harmony, come suona un saggio del critico americano Ascoli, titolo che fa pensare alla bitter Arcadia di cui Jan Kott a proposito di Shakespeare) è una visione ormai proposta già più volte, da molti, anzi quasi sul punto ormai di logorarsi. Ed infatti non è propriamente questa la prospettiva che offre Ferroni, il quale invece recupera la complessità della crociana «armonia» traducendola però in una poetica ariostea della contraddizione. Cito ancora: «Ariosto sembra voler estrarre dall’intero patrimonio culturale una possibilità di bellezza, una configurazione felice della parola e della vita, che pur comprende entro sé l’eco, in parte attutita ma pur sempre lacerante, del fondo cupo e negativo del mondo, del nesso di violenza e di estraneità che lo regge». Insomma, la bellezza che l’Ariosto mette in gioco attraverso l’ironia è bellezza che include il suo contrario disarmonico ma «come per bruciarlo in un esito assoluto». La smaterializzazione di tutte le illusioni e i dogmi, simili alle vane apparenze del castello di Atlante, non arriva a smaterializzare del tutto l’aspirazione alla felicità. Ferroni, innamorato di Stendhal e di Mozart, pone elegantemente un poeta come Ariosto all’origine di una famiglia di artisti come quelli, e svela la propria sensibilità di classicista critico, pensoso, inquieto, di adorniano e insieme di settatore dell’equilibrio che sia sempre affacciato sul disequilibrio. In tal senso l’evocazione della dapontiana-mozartiana Così fan tutte come «opera esplicitamente ariostesca» coglie nel segno: qui infatti i protagonisti danzano sull’orlo dell’abisso fornendo balenamenti di un classicismo demistificato e pure nitidamente impareggiabile («sei tu Palla o Citerea?»…).
Ma la menzogna strutturale che San Giovanni squaderna ad Astolfo? Non ci riporta a una idea di letteratura immorale, tutta finzione e scarto dal reale, beffarda al limite del nichilismo? Posto che comunque "il meraviglioso ariostesco si afferma in un ironico confronto con i limiti del reale», e quindi non lo dimentica affatto, anzi, resta il dato che questo meraviglioso «è la configurazione in cui il desiderio si affaccia davanti alla mente dell’uomo: e nel suo libero dilatarsi è implicito sempre un elemento di artificio e di simulazione, tra magia e costruzione teatrale». Insomma, Ferroni insiste sulla natura «aperta» del Furioso e, potremmo insinuare, sulla sua dialettica negativa, senza sintesi.
Ariosto è moderno? Per rispondere a questa domanda l’operazione preliminare imprescindibile è il confronto, arduo ma lecito, con il Chisciotte, e Ferroni non si sottrae alla sincrisi, anzi le dedica alcune fra le pagine più belle del libro. Per dirci che sì, Ariosto passa il testimone a Cervantes, ma precisando che la pazzia di don Chisciotte «proprio perché follia del lettore di romanzi, trascina la contraddizione nella banalità e nella volgarità del mondo quotidiano, mette a confronto l’improbabilità dell’eroico e tutto l’immaginario di cui il lettore è nutrito con la violenza, la brutalità, la casualità, la mediocrità e la finitudine della vita “normale”, scopre sotto di essa una più radicale e inestirpabile follia». In tal senso, aggiungeremmo, il momento del primo barocco, cioè della scoperta del realismo (dal picaresco a Vélasquez, da Caravaggio a Bacone), si pone come il vero incunabolo del moderno. Dissoluzione e riformulazione della bellezza, sguardo impietoso ed entusiasta sull’imperfezione, per scoprire magari qualche perfezione altra, o qualche metafisica più o meno stabile. Ariosto è così superato, e la sua denuncia della menzogna bruciata e assunta in nuova consapevolezza.
E Ariosto oggi? Ferroni, critico aspro della contemporaneità e dei postmodernismi, vede nel poema ariostesco una possibile forza per «snidare una bellezza che la nostra costipata cultura non è più capace di concepire». Un Ariosto non leggero, ludico, virtuale, decostruzionista, ma perfettamente tranquillo e insieme turbato. Il paradigma stesso di ciò che è classico.

martedì 27 maggio 2008

Se i «Contributi» sono un salto nel vuoto

il Riformista 27.5.08
Heidegger perché manca la cura editoriale di volpi?
Se i «Contributi» sono un salto nel vuoto
di Ludovico De Roberto

Dopo anni di attesa, anche se un po' in sordina, sono usciti finalmente i Contributi alla filosofia. (Dall'evento) di Martin Heidegger. Scritto fra il 1936 e il 1938, ultimato e rivisto dall'autore in forma di dattiloscritto, questo libro che Adelphi si è finalmente decisa a pubblicare in traduzione italiana (di Franco Volpi e Alessandra Iadicicco) era espressamente pensato per i posteri. Si narra fra l'altro che Heidegger volesse riservare lo stesso destino a tutti i suoi inediti, ovvero che restassero tali per almeno un secolo dopo la sua morte, e che fu convinto a cambiare idea dal figlio Hermann (proprio colui che di recente ha dichiarato di essere altrui figlio naturale) allorché gli paventò la minaccia distruttiva di una guerra atomica. Ecco dunque che in Germania esso è uscito postumo per celebrarne il centenario della nascita nel 1989. Il libro era annunciato come la seconda grande opera di Heidegger, utile per comprendere, Essere e tempo , notoriamente rimasta incompiuta. La fuga centrale è intitolata «Il salto» ed è forse la più adatta ad indicare la posta in gioco nei Contributi . Heidegger sapeva bene che il modo di scrivere posto qui in opera non disponeva di lettori «adeguati». Si premura di indicare che, all'interno dell'opera completa, i Contributi escano dopo la pubblicazione dei corsi universitari, in cui si vede come le sue principali acquisizioni non galleggiano nell'aria, ma vengono espugnate una a una nel confronto serrato con la tradizione filosofica nel suo insieme, nell'ambito della quale assumeranno sempre più peso i pensatori «iniziali» (i Presocratici), il dire poetico soprattutto di Hölderlin, e la presenza ultimativa di Nietzsche. Senza un terreno adeguatamente dissodato, questo testo rischia di costituire null'altro che un salto nel vuoto, o, detto più impietosamente, la brutta figura di un filosofo che prova a cimentarsi in sgangherate sentenze oracolari peraltro stilisticamente infelici.
Esistono antidoti per quanto meno attenuare simili brutte figure, e sono quelli che prendono il nome di cura dell'edizione di un'opera. Che lo si faccia per passione, per denaro, per vanità, per ottenere titoli accademici, curare l'edizione di un'opera del pensiero significa mettersi al servizio del suo potenziale, adoperarsi a che questo si ritrovi sotto l'angolo di massima luce. Per lo stesso Heidegger, almeno in Essere e tempo ma ancora nel libro in questione, la cura è una dimensione fondamentale dell'umano, termine chiave per indicare il rapporto fra l'esistenza e le cose del mondo, che oscilla fra l'apprensione/preoccupazione e un'idea operativa dell'amore, e che, nella sua declinazione più appropriata, può aprire alla dimensione più piena dell'esistenza stessa. Perché dunque Volpi non ha curato i Contributi , così come tanti altri volumi heidegerriani Adelphi, limitandosi alla sola co-traduzione?
Nell'«Avvertenza» all'edizione italiana si offre da un lato una presentazione chiara e sintetica - comunque utile - del testo e del linguaggio che l'improvvido lettore si accinge ad affrontare, ma dall'altro risultano evidenti due curiose anomalie. La prima è che l'editore tedesco non ha concesso la pubblicazione di apparati assieme al testo: «Dovendo rimandare ad altra sede, per disposizione degli eredi, ogni spiegazione in merito a genesi, stile e contenuto…». Altro punto non marginale: non si concorda sul modo in cui l'editore tedesco ha disposto i materiali, segnatamente la scelta di porre alla fine la sezione «L'essere», e non prima delle sei fughe come avveniva nel dattiloscritto. In un libro articolato in fughe si potrà immaginare quanto conti la dispositio degli argomenti. Al punto che le fughe si suddividono a loro volta in innumerevoli paragrafi contrassegnati da un titolo, non numerati, e sono molti, all'interno della stessa fuga, i paragrafi con lo stesso titolo, dove l'unica differenza è data appunto dalla posizione.
La cosa più grave, dunque, è la mancanza di un apparato di contestualizzazione, di una rampa che ricongiunga al contesto la materia di questo «salto». Si desume che tale mancanza sia dovuta all'atteggiamento degli editori tedeschi, o meglio del già citato Hermann Heidegger, e del capo dei curatori dell'edizione tedesca dell'opera completa Friedrich-Wilhelm von Herrmann: pare che essi pretendano di ingerire sul modo in cui il verbo heideggeriano andrebbe diffuso in Italia. Ciò si vede anche dalla difficoltà che incontra in Italia qualsiasi editore provi a chiedere di pubblicare o ripubblicare uno dei tanti corsi heideggeriani ancora inediti in italiano o da lungo tempo esauriti. Del resto, dall'altro lato, hanno concesso di effettuare traduzioni o ritraduzioni (pensiamo al caso famoso dell'Origine dell'opera d'arte ) in cui hanno luogo sperimentalismi individuali che fanno piombare il testo nell'oscurità e in cui si vede bene come, alla grossa, le traduzioni di Pietro Chiodi offrissero una ben più agevole base di leggibilità. Si tratta, per concludere, degli ennesimi danni creati da una legge sul copyright che lo mantiene per settanta anni dopo la morte dell'autore. La bella conseguenza è che praticamente un'intera generazione non ha potuto leggere quest'opera in italiano. E che, in generale, per via di politiche editoriali sconsiderate che hanno ostacolato la libera diffusione del pensiero di Heidegger, ora che esce, è divenuta praticamente illeggibile.

lunedì 26 maggio 2008

Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche

Corriere della Sera 26.5.08
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo

Supera l'alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo

Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l'affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un'«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10).
Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l'autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l'interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po' spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell'etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l'unico fine possibile per l'esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l'«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l'«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone». In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un'opera d'arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l'identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un'azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall'altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d'eccezione. A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l'esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all'inizio del Novecento, non poteva certo farsi un'idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un'aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l'affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l'idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell'Ottocento rimane un'eredità preziosa ancora oggi, quando l'utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.

domenica 25 maggio 2008

Lo scrittore ebreo Usa. Israele respinge Finkelstein

Corriere della Sera 25.5.08
Lo scrittore ebreo Usa. Israele respinge Finkelstein

TEL AVIV — Norman Finkelstein (foto), il controverso docente universitario ebreo americano noto per le sue posizioni critiche verso Israele, è stato fermato venerdì al suo arrivo all'aeroporto di Tel Aviv. Interrogato, trattenuto in una cella dello scalo per 24 ore, è poi stato rispedito indietro con un bando decennale. Lo ha riferito l'attivista per i diritti civili Mussa Abu Hashash, che aveva previsto di incontrare Finkelstein e di guidarlo in visita nei Territori. Figlio di un'ebrea polacca sopravvissuta ai campi di sterminio, ha criticato la guerra in Libano condotta da Israele nel 2006. Finkelstein è noto soprattutto per il libro «L'industria dell'Olocausto», in cui denuncia lo sfruttamento politico della Shoah.

venerdì 23 maggio 2008

E se l’Europa non avesse debiti con l’islam?

AVERROÈ E I SUOI FRATELLI

E se l’Europa non avesse debiti con l’islam?

Sorprendente rettifica dei pregiudizi del momento, questo lavoro di Sylvain Gouguenheim sta sollevando dibattiti e polemiche. Il suo tema: la filiazione culturale tra mondo occidentale e mondo musulmano. Su questo argomento, gravano pesantemente le sfide ideologiche e politiche. Ora, questo professore universitario tra i più seri, docente di storia medievale alla Scuola normale superiore di Lione, mette in discussione una serie di convinzioni diventate dominanti. In questi ultimi decenni, seguendo soprattutto Alain de Libera o Mohammed Arkoun, Edward Saïd o il Consiglio d’Europa, si sarebbe imboccata una strada sbagliata sul ruolo ricoperto dall’islam nella storia della cultura europea.

Di che cosa saremmo convinti? Più o meno, di questo: il sapere greco antico –filosofia, medicina, matematica, astronomia– del tutto scomparso dall’Europa, ha trovato rifugio nel mondo musulmano, che l’ha tradotto in arabo, lo ha accolto e sviluppato, prima di trasmetterlo finalmente all’Occidente, permettendo così la sua rinascita, poi l’improvvisa espansione della cultura europea.

Secondo Sylvain Gouguenheim, questa vulgata non è che una trama di errori, di verità deformate, di dati parziali o di parte. Egli intende correggere, punto per punto, gli aspetti inesatti o esagerati.

Secoli bui

C’è stata veramente una frattura integrale tra l’eredità greca antica e l?Europa cristiana dell’alto Medioevo? Dopo il crollo definitivo dell’Impero romano, i rari manoscritti di Aristotele o di Galeno custoditi nei monasteri è proprio vero che non avevano più nessun lettore in grado di decifrarli? No, risponde Sylvain Gouguenheim.

Anche se erano diventati fragili e rari, i legami con Bisanzio non furono mai interrotti: circolavano manoscritti greci con uomini in grado di leggerli. Durante i presunti «secoli bui», questi conoscitori del greco non sono mai mancati, distribuiti in diversi centri che non possono essere ignorati, soprattutto in Sicilia e a Roma. Non si fa notare che dal 685 al 752 regna una successione di papi d’origine greca e siriaca! Si ignora, o si dimentica che, tra il 758 e il 763, Pipino il Breve si fece spedire da papa Paolo I testi greci, soprattutto la Retorica di Aristotele.

Questo interesse medievale per le fonti greche aveva le sue origini nella stessa cultura cristiana. I vangeli furono redatti in greco, così come le epistole di Paolo. Molti Padri della Chiesa, educati alla filosofia, citano Platone e parecchi altri autori pagani, di cui hanno salvato interi brani. L’Europa è dunque sempre rimasta cosciente della sua derivazione dalla Grecia antica, e si mostrò continuamente desiderosa di ritrovarne i testi. Il che spiega, dall’epoca carolingia fino al XIII secolo, la successione delle «rinascite» legate a scoperte parziali.

La cultura greca antica fu pienamente accolta dall’islam? Sylvain Gouguenheim sottolinea i forti limiti che la realtà storica impone a questa convinzione corrente. Poiché non furono i musulmani a svolgere l’essenziale del lavoro di traduzione dei testi greci in arabo.

Lo si dimentica superbamente: anche quei grandi ammiratyori dei Greci che furono Al-Fârâbî, Avicenna e Averroè non leggevano una parola dei testi originali, ma solamente le traduzioni in arabo fatte dagli Aramaici, cristiani.

Tra questi cristiani detti striaci, che padroneggiavano il greco e l’arabo, Hunayn ibn Ishaq (809-873), soprannominato «principe dei traduttori», coniò l’essenziale del vocabolario medico e scientifico arabo trasponendo più di duecento opere –soprattutto Galeno, Ippocrate, Platone. Parlava arabo, ma non era per nulla musulmano, come d’altra parte, praticamente tutti i primi traduttori dal greco all’arabo. Poiché noi confondiamo troppo spesso «arabo» e «musulmano», una visione deformata della storia ci fa cancellare il ruolo decisivo degli Arabi cristiani nel passaggio delle opere dall’Antichità greca dapprima in siriaco, poi nella lingua del Corano.

Una volta effettuata questa trasposizione –difficile, perché greco e arabo sono lingue dalle radici molto differenti–, sarebbe sbagliato credere che l’accoglienza riservata ai Greci sia stata unanime, entusiasta, capace di sconvolgere cultura e società islamiche. Sylvain Gouguenheim mostra quanto l’accettazione del pensiero greco sia stata al contrario selettiva, limitata, senza un grande impatto, alla fin fine, sulle realtà religiose, politiche e giuridiche, che sono rimaste indissolubilmente islamiche. Anche disponendo delle opere filosofiche dei Greci, anche creando il termine di «falsafa» per indicare una forma di spirito filosofico apparentato, l’islam non si è mai veramente ellenizzato. La ragione non fu mai esplicitamente messa al di sopra della rivelazione, né la politica dissociata dalla rivelazione, né la ricerca scientifica radicalmente indipendente.

Converrebbe anche, seguendo questo libro, rivedere ancora più a fondo i nostri giudizi. Invece di credere che il nostro sapere filosofico europeo nella sua interezza dipenda da intermediari arabi, bisognerebbe ricordarsi del ruolo fondamentale svolto dai traduttori di Mont-Saint-Michel. Sono stati loro a far passare quasi tutto Arostotele direttamente dal greco al latino, parecchi decenni prima che a Toledo venissero tradotte le stesse opere partendo dalla loro versione araba.

Invece di sognare che il mondo islamico del Medioevo, aperto e generoso, abbia offerto all’Europa stremata e buia i mezzi del suo sviluppo, bisognerebbe ricordarsi che l’Occidente non ha ricevuto questi saperi in regalo. È andato a cercarli, perché completavano i testi di cui era già in possesso. E solo l’Occidente ne ha fatto l’uso scientifico e politico che sappiamo.

Tutto sommato, contrariamente a quanto viene ripetuto in crescendo dagli anni Sessanta, la cultura europea non dovrebbe granché all’islam per quel che riguarda la sua storia e il suo sviluppo. In ogni caso, niente di fondamentale. Preciso, argomentato, questo libro che rivede la storia è anche parecchio audace.

Aristote au Mont Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne di Sylvain Gouguenheim. Seuil, «L'Univers historique», 282 p. 21 euro.

Roger-Pol Droit
Le Monde des livres, inserto de Le Monde, del 3 aprile 2008

mercoledì 21 maggio 2008

Lady Chatterley, scandalo fiorentino

Corriere della Sera 21.5.08
Un convegno celebra il romanzo di D.H. Lawrence a ottant'anni dalla pubblicazione
Lady Chatterley, scandalo fiorentino
Nel capoluogo toscano lo scrittore trovò ispirazione e passione
di Ranieri Polese

Ottanta anni fa, nel 1928, a Firenze veniva stampata la prima edizione di Lady Chatterley's Lover («L'amante di Lady Chatterley»), il romanzo di David Herbert Lawrence destinato a subire una serie di censure e proibizioni lunga oltre trent'anni. Vietato in Inghilterra (ma anche negli Stati Uniti, Australia, India) perché osceno (scandalizzò moltissimo il frequente e ripetuto uso del verbo «fuck»), il libro verrà assolto in un processo celebrato a Londra nell'autunno del 1960, intentato contro Penguin che aveva pubblicato il libro nonostante il divieto. Famose le parole del pubblico ministero che chiese ai giurati se pensavano che un libro simile potesse «essere letto dalle vostre mogli o dai vostri domestici». Prima del 1960, comunque, avrebbe circolato in molte edizioni pirata, tratte appunto da quelle prime 1.000 copie (cui se ne aggiunsero 200, visto le richieste internazionali), piene di refusi e di errori.
Lawrence, che viveva a Firenze dal 1926 con la moglie Frieda von Richtofen (avevano preso in affitto la villa Mirenda, sulle colline a sudovest di Firenze, sopra Scandicci), si era rivolto all'amico libraio Pino Orioli, il quale a sua volta lo presentò a Leo Samuel Olschki, proprietario della piccola Tipografia Giuntina. Il libro, stampato a spese dell'autore in carta color avorio, aveva una copertina di colore rosso, con su impressa una fenice disegnata dallo stesso Lawrence.
Per celebrare questo anniversario Firenze ha organizzato un convegno (29-31 maggio) a cui partecipano studiosi italiani, inglesi, americani; tra i promotori, la Regione Toscana, il British Institute, il Gabinetto Vieusseux, la University of New York (villa la Pietra). Ci saranno anche proiezioni di film da o su Lawrence: «Donne in amore», 1969, di Ken Russell; la biografia dello scrittore, «The Priest of Love», 1981, di Christopher Miles, e la recente versione per lo schermo del romanzo, 2006, firmata dalla francese Pascale Ferran. Venerdì 30 maggio, visita guidata (con lettura di brani del libro) a villa Mirenda, dove si può ancora vedere l'affresco «Borea e Crizia », che presumibilmente ritrae D.H. Lawrence e Frieda.
Tra le questioni affrontate dai relatori, un'attenzione speciale viene dedicata al rapporto di Lawrence con l'Italia e in particolare con Firenze, la città dove appunto lavorò, tra il 1926 e il 1928, al suo romanzo più famoso (di cui restano due versioni, poi rifiutate, precedenti l'edizione definitiva). Viaggiatore instancabile, sempre in cerca di climi più salubri necessari alla pessima condizione dei suoi polmoni, lo scrittore scende in Italia la prima volta nel 1912-13, in compagnia di Frieda von Richtofen, l'aristocratica tedesca (lontana parente di Manfred von Richtofen, il futuro Barone rosso dell'aviazione del Kaiser) che per lui aveva lasciato il marito Ernest Weekley (un inglese professore di letteratura a Nottingham) e tre figli. La coppia, dopo un soggiorno sul Garda, si stabilisce a Fiascherino, dove rimane fino allo scoppio della guerra, che li costringerà a tornare in Inghilterra. Bloccati in Cornovaglia, David e Frieda — si erano sposati nel 1914 — riprenderanno a viaggiare già dal 1919: prima tappa, l'Italia: l'Abruzzo, Capri, Taormina, la Sardegna. Del primo soggiorno a Firenze, avvenuto in quegli anni, Lawrence ha scritto nel romanzo La verga di Aronne (1922): ospite in una pensione economica vicino a piazza Mentana (di cui descrive l'awful monument,
il «terribile monumento», ai caduti garibaldini) racconta la scoperta di piazza della Signoria, delle sue statue, della sua imponenza esclamando «qui un tempo vissero dei giganti! ».
Nel '22 lasciano l'Europa per Ceylon, l'Australia e finalmente il New Mexico dove la miliardaria Mabel Dodge regala loro una villa a Taos in cambio del manoscritto di Figli e amanti. Nel '25 le condizioni di salute peggiorano e Lawrence decide di tornare in Italia. Prima a Spotorno, poi (1926) a Firenze, nella villa Mirenda sopra Scandicci. Negli oltre due anni passati in Toscana, oltre a dedicarsi al lavoro di scrittura del romanzo, Lawrence perlustra i luoghi etruschi, da Cerveteri a Volterra: da queste visite nascono le pagine di Luoghi etruschi, in cui si legge l'ammirazione per la vitalità «fallica» degli etruschi e il fastidio per l'Italia fascista. Morirà a Vence, nel 1930. Le sue ceneri verranno portate, anni dopo, a Taos da Frieda e dal suo nuovo marito, l'italiano Angelo Ravagli.
Sul libro odiato e amato con pari intensità sono fiorite interpretazioni e indiscrezioni a non finire. Per esempio sulla vera identità dei protagonisti. Per alcuni, il guardiacaccia Oliver Mellors e Lady Constance sarebbero Lawrence, di umili origini, e l'aristocratica Frieda. All'epoca, però, la relazione tra i due era praticamente esaurita e Lawrence, ormai minato dalla malattia, confessava apertamente l'infelicità di quel rapporto. Altri invece dicono che lo scrittore si era ispirato all'avventura dell'amica Lady Ottoline Morrell con un giovane tagliapietre (soprannominato Tiger) che lavorava nel parco della sua villa. Resta comunque il fatto che quel romanzo, dopo il verdetto del 1960, avrebbe accompagnato il decennio della rivoluzione sessuale, della liberazione dai tabù. Come ricorda il poeta Philip Larkin in Annus mirabilis: «Cominciai ad avere rapporti sessuali nel 1963 (abbastanza tardi): tra la fine del divieto di Lady Chatterley e il primo lp dei Beatles».

giovedì 15 maggio 2008

Naomi Klein, se il mercato incoraggia il disastro

Liberazione, 12/09/2007
Naomi Klein, se il mercato incoraggia il disastro
"Shock economy", da oggi l'ultimo libro dell'autrice di "No Logo" che mette sotto accusa il nuovo capitalismo globale.
L'Iraq, Katrina, Pinochet e lo Tsunami. Quando la crisi di un Paese diventa un'occasione per il fondamentalismo neoliberista

Ivan Bonfanti
Qualche anno fa, prima che il progetto per il "grande Medio Oriente" naufragasse miseramente tra i morti e le bombe in Iraq, alcuni coloni della destra fondamentalista israeliana avevano messo a punto una teoria sul conflitto con gli arabi che chiamavano apertamente "terapia shock". In sostanza - spiegavano agli interlocutori che domandavano come loro, apologeti del progetto per un Grande Israele dal Mediterraneo al Giordano, intendessero convincere i palestinesi senza dargli una terra - spiegavano che il problema era tutto culturale. «Finché i palestinesi avranno questa mentalità sarà impossibile», ammettevano. «La terapia shock consiste esattamente nello sfruttare un evento o una serie di accadimenti per cambiare la mentalità di un popolo. E i palestinesi subiranno una sconfitta militare di tale portata e uno shock così profondo da cambiare radicalmente la loro mentalità: come è successo ai giapponesi dopo la bomba atomica».
In un contesto meno biblico, ma sempre intorno al concetto di terapia shock, si muove l'ultimo saggio di Naomi Klein, Shock Economy, l'ascesa del capitalismo dei disastri (Rizzoli, pp. 621, euro 20,50), un viaggio attraverso il fondamentalismo neoliberista analizzato dal filtro di alcune delle crisi più profonde attraversate dal mondo negli ultimi trent'anni. Trattandosi di ideologia del mercato, l'autrice di No Logo non può che partire da uno dei grandi teorici della dottrina neocon in economia, il capostipite: Milton Friedman. Più che un precursore il profeta.
«Lascia che bruci», lascia che infine il disastro si compia. Solo allora ci saranno le condizioni per interventi radicali. Il lucido percorso di Klein attraversa scenari recenti come New Orleans, il Cile di Pinochet, l'Argentina della crisi economica, lo Tsunami nel Sud Est asiatico. E naturalmente l'Iraq. «Sto scrivendo un libro sullo shock - spiega ad un certo punto l'autrice - un libro sui Paesi che vengono scioccati dalle guerre, dai disastri naturali, da attacchi terroristici, colpi di Stato o altri disastri. Sto scrivendo un libro su come questi Paesi vengono scioccati un'altra volta, dalle grandi aziende e dai politici che sfruttano la paura e il disorientamento del primo shock per imporre la loro strategia economica».
E' su questo binario che Shock Economy muove il suo itinerario. Prendiamo Katrina, l'uragano che sconvolse New Orleans. Perché le macerie non forniscono solo un'occasione per ricostruire. La devastazione di una città permette di cambiarla, di mutarne il volto a favore di alcuni e discapito di altri. E la situazione di shock abbassa le difese immunitarie di una società, apre le maglie. Per questo «grazie a questa tabula rasa abbiamo grandi opportunità», come commenta Joseph Canizaro, uno dei più grandi costruttori di New Orleans, osservando beato il centro di New Orleans raso al suolo.
«Una pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori parlavano apertamente della tabula rasa come di una meravigliosa occasione». Non per ricostruire quello che c'era prima, però. Spiega Klein: «la ricostruzione inizò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica».
E' l'uragano, il disastro, la guerra, a creare le condizioni per l'affondo. Lo stesso Milton Friedman, ormai 93enne, vide nel passaggio del ciclone una splendida opportunità. Lo scrisse anche sul Wall Street Journal : «la maggior parte delle scuole di New Orleans è in rovina (...) ma oggi abbiamo una grande opportunità. L'opportunità di riformare radicalmente il sistema educativo». Dove andasse poi a parare era chiaro: «una riforma permanente delle scuole americane incentivando i privati». Ovvero, privatizzare e tagliare un'altra fettina del già pallido welfare Usa.
Friedman e i suoi seguaci avevano perfezionato questa strategia per oltre trent'anni. «Attendere il verificarsi di un evento shock, quindi sfruttare le risorse dello Stato per ottenere un guadagno personale mentre gli abitanti sono ancora disorientati, poi agire rapidamente per rendere "permanenti" le riforme». Secondo Klein questa è la dottrina dello shock, che Friedman «ha messo a punto ai tempi in cui faceva il consigliere di Pinochet». Fu proprio con il popolo cileno ancora sconvolto dal colpo di Stato che i Chicago boys di Friedman operarono tagli fiscali, cancellarono servizi pubblici, tagliarono la spesa sociale e incentivarono la deregulation.
Nei primi giorni dell'occupazione all'Iraq, Klein ritrova il medesimo fenomeno. «La stessa formnula è riemersa, con molta più violenza, in Iraq». In Shock Economy l'autrice riprende la teoria già emersa nel saggio di Ullman e Wade, Shock and Awe (Shock e Sgmomento): «La guerra ha anche lo scopo di controllare la volontà dell'avversario, le sue percezioni e il suo intelletto, di renderlo letteralmente incapace di agire o reagire». «E dopo le bombe - insiste Klein riferendosi all'Iraq - è venuta la terapia shock dell'economia, imposta in un Paese ancora in fiamme. Privatizzazione selvaggia, completa libertà di scambio, un'aliquota d'imposta unica al 15 per cento e un governo di proporzioni ridotte per scongiurare resistenze». Qui Klein ricorda i timori di Etienne Balibar quando questi parla del «rischio che la democrazia venga sopraffatta e scivoli in una apartheid strisciante». Balibar si riferisce all'Europa, alla Cina e alla necessità di controbilanciare la super potenza militare e coloniale degli Stati Uniti, ma il contesto della deriva è lo stesso, con Balibar che identifica il potenziale devastante di uno shock e pensa ai rimedi.
La memoria dei giorni iracheni di Mike Battles, un ex agente della Cia, è ancora più sintetica: «Per noi la paura e il disordine offrivano promesse concrete». Altro che. La Custer Battles, una piccola compagnia di sicurezza privata fondata proprio dall'ex spione, ottenne circa cento milioni di dollari in contratti governativi. Dopo i mesi da corrispondente a Baghdad, dove Klein assiste «al tentativo, fallito, di fare seguire alla dottrina Shock and Awe la terapia shock dell'economia», la giornalista canadese va nel Sud Est asiatico, al seguito di un altro evento catastrofico. E' il cataclisma Tsunami, nel dicembre 2004, ed ecco che gli investitori stranieri e i prestatori internazionali «si uniscono allo scopo di sfruttare l'atmosfera di panico per consegnare l'intero litorale a imprenditori perché vi costruiscano villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare».
Si pensi poi alla Russia di Boris Eltsin. Nel 1993, dopo un fallito e oscuro tentativo di golpe, le cannonate sul Parlamento e la carcerazione dei leader dell'opposizione, lo shock tra la gente e nel Paese era immenso. Un modello quasi didascalico di tabula rasa. E infatti nessuno fu in grado di reagire o afferrare la reale portata delle privatizzazioni che a prezzi di saldo svendettero il patrimonio di uno Stato dando vita all'economia mafiosa e ai noti oligarchi.
L'esempio dell'Argentina di diverso ha soltanto gli esiti, visto che dopo lo shock la tendenza si è invertita. Eppure alla fine degli anni '90, trascinata dalla crisi di solvenza che due anni prima aveva freddato l'economia asiatica, in una situazione di stagnazione e grande disoccupazione, il ministro dell'Economia Cavallo impone un monetarismo monastico accompagnato da un'ampio progetto di "riforme". Mentre nel vicino Brasile, a partire dallo Stato del Minas Gerais, l'economia riparte proprio ammettendo di non poter pagare i debiti, dando quindi vita a una contrattazione su cui si abbattono le ire del Fondo Monetario, Cavallo si comporta come se fosse a Francoforte anziché a Buenos Aires, col risultato di dopare un'economia allo stremo, che di lì a pochi mesi trascinò un Paese intero in bancarotta. «Ma come Friedman aveva ben compreso - precisa Naomi Klein - l'atmosfera di crisi forniva il necessario pretesto per consegnare il Pese a economisti "tecnocrati"».
Naturalmente non mancano gli esempi in cui le politiche neoliberiste vengono adottate democraticamente, vedi gli anni '80 di Ronald Reagan oppure la più recente elezione di Nicholas Sarkozy in Francia. «In questi casi però - nota ancora l'autrice - i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione dell'opinione pubblica e sono stati obbligati a temprerare e modificare i loro piani. Perché è la stessa congiutura democratica ad essere un ostacolo all'applicazione del fondamentalismo capitalista. «Il modello economico di Friedman può essere solo parzialmente imposto in una democrazia: per attuarlo in tutta la sua portata ideale ha bisogno di uno schock e di una tabula rasa».


12/09/2007

Jean-Pierre Vernant

Liberazione, 11/01/2007
Aveva 93 anni. Filosofo e storico, è stato tra i più grandi, ma discreti, studiosi della cultura greca del nostro tempo.
Nei suoi numerosi libri ha mostrato la relazione tra politica, pensiero, religione e mitologia. E' stato allievo di Louis Gernet
E' morto Jean-Pierre Vernant. Ha portato l'antica Grecia nel '900

Paolo Scarpi
Ho conosciuto Jean-Pierre Vernant di persona in tempi non lontani, nel corso di un convegno organizzato dall'Università di Rennes, nel novembre 2001, dedicato a un tema che aveva in lui una sorta di principio evocatore: Nommer les dieux , dare un nome agli dèi, dove gli dèi sono(erano), evidentemente, creature della rappresentazione umana.
La sua presenza era aleggiata discreta, come discreta, nel senso della signorile discrezione, era stata la sua produzione culturale: nonostante io fossi uno degli ospiti, solo l'ultimo giorno - forse per colpa della mia distrazione - scoprii che l'anziano signore dai modi gentili, con il quale avevo amabilmente conversato più volte e che dall'inizio alla fine aveva ascoltato tutte le relazioni, nel momento in cui si accingeva per la prima volta a parlare per trarre le conclusioni del colloquio, scoprii che quel gentile signore era Jean Pierre Vernant, sui cui scritti mi ero formato quando ancora ero uno studente universitario.
Nato a Provins, nei pressi di Parigi, il 4 gennaio 1914, Jean Pierre Vernant aveva studiato nei licei parigini di Carnot e Louis-le-Grand, per poi completare gli studi universitari alla Sorbonne, dove conseguì la laurea nel 1937. Gli anni della sua formazione sono significativi e ricchi di stimoli perché sono il frutto della grande stagione che all'inizio del secolo scorso aveva visto attive in Francia figure di spicco come Marcel Mauss, Marcel Granet, Henri Lévy-Bruhl, che aveva visto nascere le "Annales" di Marc Bloch, Lucien Febvre e poi di Fernand Braudel; e, soprattutto per Vernant e per le indagine sull'antica Grecia, aveva visto affermarsi Louis Gernet del quale era uscito nel 1932, in collaborazione con André Boulanger, Le génie grec dans la religion .
Di Louis Gernet, Vernant è in questo senso l'erede e il continuatore, anche nell'impegno civile, perché con lui condivise non solo l'amore disincantato per l'antica Grecia e la riflessione sulla formazione del pensiero greco, ma pure l'impegno per una società diversa, l'antinazismo - durante la Resistenza Vernant ebbe un ruolo di rilievo nel movimento di liberazione - e la forte opposizione alla guerra d'Algeria, a cui si deve aggiungere la dichiarata opposizione di Vernant anche alla guerra d'Indocina. Nel dopoguerra aderì al partito comunista francese (Pcf), per uscirne in seguito alla "primavera di Praga". Ricercatore presso il CNRS (il
Consiglio nazionale della ricerca scientifica in Francia), nel 1957 diventa direttore di studi all'École Pratique des Hautes Études, dove rimane sino al 1975, quando passa al Collége de France, dove ricopre sino al 1984 la cattedra di Studi comparati sulle religioni antiche e a cui
affianca la fondazione, nel 1964, e la direzione, sino al 1985, del Centro di ricerche comparate sulle società antiche.
Prendono forma in questo periodo i suoi studi più significativi sul pensiero mitico greco, dove è possibile riconoscere il continuo dialogo intellettuale che anima i pensatori francesi tra gli anni '60 e '70 del secolo scorso e dove il dibattito sul discorso mitico è indubbiamente dominato dalla figura imponente di Cl. Levi-Strauss. E' senza dubbio Mito e pensiero presso i Greci: saggi di psicologia storica (1965, trad. it. Einaudi) il contributo che più ha mutato l'approccio nei confronti del pensiero mitico antico, ma che è stato preceduto da un piccolo libro del 1962 (trad. it. Editori Riuniti), Le origini del pensiero greco .
La decostruzione del discorso mitico, per individuarne i meccanismi e le funzioni, continua con due opere condotte in collaborazione con Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell'antica Grecia, 1 e 2 (trad. it. Einaudi), dove il trasferimento del mito sulla scena è esaminato attraverso le funzioni che esso esercitava nei confronti dei cittadini della città greca. L'indagine sul mito continua con Marcel Detienne in Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia (trad. it. Laterza), in cui la storia viene ricostruita attraverso la decostruzione e destrutturazione del mito stesso. Sempre insieme con Pierre Vidal-Naquet pubblicherà nel 1974 Mito e società nella Grecia antica , dove spicca, e in quegli anni godette di rilevante successo, un breve saggio intitolato, La lotta delle classi . Mito e religione greca (1990; trad. it. Raffaello Cortina), rappresentano la sintesi finale del pensiero di Vernant, di una grecità che appare attraverso i suoi scritti, nuda e senza miracolo, anche se dinamica e intellettualmente fertile, decisamente creatrice. Con Jean Pierre Vernant, spentosi a 93 anni nella sua casa di Sèvres (Hauts-de-Seine), si chiude indubbiamente la grande stagione della rivisitazione disincantata dell'antica Grecia.


11/01/2007

E se Gesù Cristo s'innamora di Satana?

Liberazione - Queer, 16/12/2007
E se Gesù Cristo s'innamora di Satana?

E ' un personaggio controverso, Anton Szandor LaVey. Per alcuni non fu altro che un cialtrone, una specie di esibizionista capace di un paio di trovate a effetto che, una volta assorbite dal grande circo pop, hanno mostrato tutta la loro pochezza, tanto contenutistica quanto ideologica. Per altri resta uno dei grandi visionari della controcultura moderna, il fondatore di un movimento che, lo si voglia o meno, ha segnato profondamente l'immaginario contemporaneo. Per altri ancora è l'icona stessa del male, un figuro losco e pericoloso a cui si deve la peggiore forma di devianza conosciuta nel campo delle nuove religioni, con tanto di derive criminali sia in termini di presa psicologica, sia di cronaca nera tout-court. Il nome di questa devianza è, manco a dirlo, Satanismo. E almeno su una cosa saranno tutti d'accordo: con Anton Szandor LaVey (Papa Nero e fondatore della Church of Satan, autore di quella Bibbia di Satana che Arcana ha da poco ristampato in italiano) il Satanismo conosce la sua versione attuale, al punto che forse, prima di lui, di Satanismo non è neppure lecito parlare.
La biografia di LaVey è tutta una leggenda, chiaramente fomentata da lui in persona: classe 1930, sarebbe nato con una coda, avrebbe lavorato come domatore di leoni e come organista della città di San Francisco, e avrebbe persino intrattenuto una relazione amorosa con Marilyn Monroe. Notizie false, che sono servite alla costruzione di un personaggio dai caratteri, più che luciferini, tipicamente avventurosi. Ma anche questi pur pittoreschi trascorsi scompaiono dinanzi agli eventi che lo renderanno celebre dalla seconda metà dei 60 in poi. Già frequentatore dei circoli crowleyani, attraverso i quali viene a contatto con certo occultismo "sinistro" che in molti ancora si ostinano a definire protosatanista (e a nulla valgono gli strali di Crowley in persona contro i satanisti di fine Ottocento/inizi Novecento), conosce tra gli altri il regista underground Kenneth Anger, assieme al quale fonda un primo, mitologico Magic Circle. La Chiesa di Satana vera e propria nasce nel 1966, ed è un tipico prodotto della California sixties: una specie di incrocio tra Nietzsche e i figli dei fiori, il tutto in chiave blandamente esoterica. Il Satanismo di LaVey è un Satanismo - si dirà in seguito - "razionalista": gli adepti della sua Chiesa non credono alla reale esistenza del demonio, e ne utilizzano semmai la figura in chiave allegorica, come simbolo dell'uomo padrone del suo destino, ma soprattutto come evidente icona anticristiana. Il movimento di LaVey sta a cavallo tra una forma di superomismo individualista di per sé estraneo ai dogmi e alle restrizioni della cultura dominante, e un libertarismo riottoso condito da aspirazioni - se così si può dire - "spirituali". L'invenzione provoca un impatto notevole e non poche simpatie, del tutto comprensibili visto il luogo da cui prende le mosse (San Francisco) e la temperie culturale dell'epoca: è la prima organizzazione religiosa ad autoproclamarsi "satanista", le cerimonie sono sfavillanti processioni gotiche con tanto di espliciti risvolti erotici, l'iconografia (il celebre pentacolo all'interno del quale si inscrive la testa di un bafometto) è destinata al successo imperituro. Il momento d'oro data fine 60/inizi 70: la Bibbia di Satana è un best seller, alla Chiesa si avvicinano le prime star hollywoodiane, lo stesso LaVey è chiamato come consulente per il Rosmary's Baby di Roman Polanski. Il clima comincia a cambiare dopo il caso Manson (la cui onda lunga produrrà la prima ondata antisatanica, con tanto di caccia alle streghe risoltasi poi nella consueta montatura), e quando, nel 1975, il "secondo" di LaVey, Michael Aquino, lascia la Chiesa per fondare il Tempio di Set, formazione concorrente che abbraccia in maniera più esplicita la causa occulta, abbandonando l'impronta razionalista degli esordi. E' il primo di una serie di scismi che si protrarranno con regolarità fino alla morte dello stesso LaVey nel 1997, e anche oltre. In più, la defezione di Aquino porta a galla diverse contraddizioni in seno alla Chiesa, la principale delle quali non finirà mai di essere rimproverata ai satanisti dalle altre formazioni della tradizione sia occulta che neopagana: ha senso un culto - se di culto si può parlare - che, nel negare i valori cristiani, finisce in realtà per ribadirli? Come scagliarsi contro i precetti cristiani se poi, ergendo a vessillo la figura di Satana, se ne accettano i presupposti, essendo Satana un prodotto di quegli stessi valori? Fondamentalmente, senza il nemico cristiano, il Satanismo perde di senso. E nonostante i laveyani ribidaranno in tutti i modi che la loro impostazione puramente simbolica e "razionale" li mette comunque al riparo da siffatte accuse, è questo uno dei nodi che ne minerà in maniera sostanziale la credibilità. Salvata semmai dalle ricorrenti crociate anti-sette, i cui eccessi al pari ridicoli e grotteschi, alimenteranno ancora per molto tutto il fascino del Principe del Male e delle sue oramai innumerevoli chiese.

Anto Szandor Lavey
"La Bibbia di Satana"
Arcana
pp. 280, euro 15

domenica 11 maggio 2008

Disneyland e altri nonluoghi

Disneyland e altri nonluoghi di Marc Augé

"Marc Augé, antropologo di fama mondiale, è il celebre teorizzatore dei nonluoghi, spazi di transito, sosta e consumo, illuminati dalla fantasmagoria delle merci e dal loro eterno presente: autogrill, centri commerciali, supermercati, aeroporti, stazioni. Come è cambiato questo universo a otto anni dall'uscita in Italia del suo Disneyland e altri nonluoghi? Mostre d'arte all'aeroporto. Ipermercati che offrono sempre più servizi: dal baby parking ai massaggi. Governi che, d'estate, suggeriscono agli anziani di entrarci per evitare il caldo. Cosa succede ai nonluoghi? Da spazi di passaggio anonimi si trasformano in luoghi di vita e cultura? 'Il carattere più 'abitato' degli spazi di passaggio o transito è in buona parte marketing, ma queste strategie non si sarebbero sviluppate se questi spazi non fossero sempre più frequentati'. E nelle nostre case cosa sta cambiando? 'Il fenomeno più rimarchevole mi sembra l'invasione della sfera privata da parte di immagini provenienti dall'esterno. Oggi televisione e computer sono la vera anticamera delle nostre case. Hermes, dio messaggero, dio delle strade e del contatto con gli altri, ha preso il posto di Hestia, dea del focolare. Anche l'individuo è decentrato e sempre più pubblico: costantemente connesso con l'esterno per mezzo di telefoni cellulari sempre più ricchi di funzioni, e in costante predicato di finire su YouTube se scivola su una buccia di banana'. Gli spazi si evolvono: come possiamo oggi distinguere tra luoghi e nonluoghi?

'Chi vuole capire dove si trova dovrebbe chiedersi se riesce a entrare in contatto con qualcuno, se riesce a scambiare anche solo uno sguardo con gli altri. Se è così, allora è probabile che si trovi, magari solo di passaggio, in un vero luogo del quale conserverà il ricordo. Invece, gli spazi che rendono falsata o impossibile la relazione con gli altri, e quindi non contribuiscono alla costruzione della nostra identità, sono i nonluoghi, che riflettono un'esperienza di solitudine. Il nonluogo è uno spazio finalizzato alla circolazione e al consumo, senza vocazione territoriale, caratterizzato dagli opposti eccessi del troppo pieno e del troppo vuoto dei periodi di non uso, come la chiusura notturna per un outlet. Altri indizi sono la presenza di una qualche forma contrattuale, come l'acquisto di un biglietto o l'identificazione attraverso un documento per accedere. C'è la musica diffusa: spesso è caratteristica dei nonluoghi, uguale ai quattro angoli del mondo. E poi i testi, i simboli e le prescrizioni che sono il modo in cui il nonluogo guida il nostro agire, che è quasi sempre un passaggio. Per esempio l''Arrivederci. Guidate con prudenza' della voce automatica al casello se paghiamo l'autostrada'. Magari per andare in vacanza, che è anche l'occasione per conoscere usi e culture diversi. Nel mondo globalizzato di oggi possiamo avere esperienza di qualcosa altro da noi? 'L'identità individuale, oggi come ieri, si può costruire solo in relazione con l'altro. Ma, sempre più, abbiamo relazione con immagini dell'altro, ad esempio attraverso i media e internet. Anche il turista che visita un luogo esotico con l'occhio incollato alla videocamera si dimostra più interessato alle immagini che ai nativi. Senza contare che i tour operator organizzano i viaggi in modo da evitare al turista prossimità sociali indesiderate. L'amicizia e l'amore hanno bisogno di lasciare il mondo delle immagini, ma l'ostilità e l'odio possono nutrirsi benissimo di sole immagini'. Anche nelle reivocazioni storiche e folcloristiche le immagini sono preferite alla realtà: non interessa riprodurre gli eventi, ma il film che potrebbe essere tratto da quel fatto storico. 'Il ricorso a ciò che chiamo 'finzionalizzazione' è sempre più esteso. Anni fa gli architetti della Disney Corporation vinsero un concorso per risistemare Times Square e Central Park: questo dice già molto. La distinzione tra realtà e finzione non regge più: una volta eravamo ben consci di vivere nella realtà, con evasioni consapevoli al cinema o a teatro, dove la finzione imita la realtà. Oggi si è aggiunto il fenomeno della realtà che copia la finzione. La tendenza ha il suo apice in Disneyland, dove tutti si sentono attori di un film globale ripreso dalle loro videocamere e da quelle degli altri'. Anche nelle nostre città non ci si orienta più guardando le strade, ma il navigatore satellitare. 'Il navigatore contribuisce alla creazione di un rapporto astratto, funzionale con lo spazio. E' l'itinerario che conta: il paesaggio svanisce. Ogni palazzo si riduce a un numero, ogni strada a una linea senza passato né futuro'. Invece le città ci guardano con centinaia di telecamere. 'La videosorveglianza è apparsa nei supermercati prima che nelle stazioni e negli aeroporti. E' l'aspetto contrattuale del 'nonluogo': garanzia di sicurezza, ma anche misura di dissuasione. Crea una dimensione leggermente schizofrenica nel consumatore. Succede lo stesso con i pedaggi richiesti per poter entrare nei centri delle città, come l'ecopass di Milano, o con multe per eccessi di velocità, o i divieti di fumo. Tutti protetti e virtualmente colpevoli allo stesso tempo'. Nel rapporto sempre più astratto con il territorio, emergono però esempi di legami territoriali interessanti. Come vede le proteste alla Sapienza per scoraggiare la visita del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico? 'E' un esempio molto interessante perché sottolinea che tutta la resistenza, oggi, è innanzitutto locale. Non intendo la resistenza del locale al sistema globale: ma il rispetto di certe frontiere. Di fronte ai tentativi di sconfinamento, di invasione, di confusione, dobbiamo ricordarci che esistono salutari gradi di separazione: il pubblico non è il privato, la scienza non è l'ideologia, la religione non è la politica (né dovrebbero esserlo), la democrazia non è totalitarismo. Abbiamo bisogno, nel senso più esteso del termine, di laicità." (da Giuliano Aluffi, Marc Augé, istruzioni per l'uso di un mondo sempre più disneyano, "Il Venerdì di Repubblica", 15/02/'08)

Economia canaglia

Economia canaglia di Loretta Napoleoni

"Canaglia: una persona malvagia, spregevole, disonesta. Se invece il termine viene posto accanto a 'economia' sembra rinviare all'economia criminale, alla malavita in senso stretto. Mafia e dintorni, per intenderci. E invece il termine può essere usato per un'infinità di pratiche economiche oggi diffusissime e soprattutto 'quasi normali'. Un'economia canaglia oggi potente e ricchissima. Ovunque e in nessun luogo.
I mutui subprime americani (per banche e assicurazioni uno strumento finanziario virtuoso fino a pochi mesi fa), parte di quella 'industria del credito' che ha fatto indebitare (deliberatamente?) gli americani per oltre il triplo dell'intero pil del paese; il 'mercato del sesso', che vale oltre 50 miliardi di dollari nel mondo (e la E-55 che corre tra Germania e Repubblica Ceca, 'squallida striscia d'asfalto che ospita la più alta concentrazione di prostitute d'Europa'; e Israele, che sarebbe uno dei maggiori 'importatori' di prostitute slave, con una 'domanda' prticolarmente alta tra gli ebrei ortodossi). E gli oligarchi russi e la mafia cinese; l'Europa divenuta oggi la 'lavanderia' del denaro sporco globale; i milioni di schiavi e di bambini-lavoratori che producono cose che noi tranquillamente consumiamo, compreso l'oro dei nostri anelli luccicanti; e la pornografia via Internet (60 miliardi di dollari di incassi globali annuali). E ancora: le politiche fiscali dell'occidente, un tempo progressive per ridistribuire i redditi a favore dei meno abbienti, oggi diventate regressive: minore è il reddito, maggiori sono le tasse. 'Una follia sul piano politico e sociale' - accettata però da elettori affascinati da chi promette di ridurre le tasse, senza spiegare come. Dice Morpheus nel film Matrix: 'Hai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?'. Ecco, l'economia canaglia è anche questo: essere ormai incapaci di distinguere il reale dal sogno (o meglio: dall'incubo). Se invece cercassimo di guardare la realtà vera, non quella che viene fatta immaginare, scopriremmo - scrive Loretta Napoleoni, esperta di economia internazionale e di terrorismo in questo suo inquietante Economia canaglia (appunto), dettagliatissimo viaggio nel lato oscuro del nuovo ordine (o disordine) economico globale - che siamo invece 'in pieno marasma commerciale', ma anche etico e politico. Ma l'economia canaglia non è cosa di oggi, anzi ha sempre caratterizzato - ancora Napoleoni - la maggior parte delle grandi transizioni storiche, dalla quarta crociata finanziata da Venezia per avere il monopolio dei commerci con l'Oriente, alla scoperta dell'America; dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del Muro di Berlino. L'economia canaglia farebbe dunque parte (inevitabile?) della storia umana, 'come lo yin e lo yang'. E allora vale il confronto con un'altra grande transizione, quella alla fine della II guerra mondiale. Allora, il sistema venne rifondato sulle regole e sul controllo politico (Bretton Woods, Piano Marshall). Dopo il 1989, invece, nessuna regola (è la deregolamentazione liberista), se non le regole dei più forti. Ovvero, 'dal controllo della politica sull'economia si è passati all'economia canaglia che tiene in scacco la politica'. Competizione esasperata, corruzione dlagante, valori morali scomparsi: è il nuovo 'senso comune'delle società attuali. E la democrazia sembra vacillare, debole e incerta. Ma sembra anche felice e contenta, perché mai come oggi l'economia del divertimento (un'altra economia canaglia?) è tanto diffusa e condivisa. Cercata. Invocata." (da Lelio Demichelis, Economia canaglia fin dalle crociate, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/03/'08)

sabato 10 maggio 2008

LA GUIDA Viaggio nell´antica Ercolano da Villa dei Papiri alle terme

LA GUIDA Viaggio nell´antica Ercolano da Villa dei Papiri alle terme
VENERDÌ, 15 DICEMBRE 2006, La Repubblica, Napoli

Un viaggio nell´antica Ercolano accompagnati dalla direttrice degli scavi in persona: Maria Paola Guidobaldi. Questa in sintesi è la guida edita da Electa Napoli (144 pagine, prezzo 8 euro) presentata ieri al Miglio d´Oro Park Hotel di Ercolano da Stefano De Caro e dal sindaco Nino Daniele. Un volume agile e di facile consultazione, ma al tempo stesso rigoroso nei contenuti scientifici e illustrato da un ricco corredo iconografico. L´autrice guida il lettore in un itinerario documentatissimo, attraverso le aree recuperate, compresa la biblioteca epicurea della Villa dei Papiri, e i ritrovamenti più recenti.
«I contenuti sono aggiornati alla situazione archeologica attuale, tengono conto delle acquisizioni più recenti e delle ultime campagne di scavo», spiega la Guidobaldi che di pagina in pagina ripercorre la storia della cittadina sepolta nel 79 dopo Cristo dalle lave roventi del Vesuvio e sigillata sotto venticinque metri di fango pietrificato.
Racconta gli uomini ‘imbalsamati´ dalle ceneri, il mercato, le terme, il teatro e illustra la Villa dei Papiri con dati aggiornati agli scavi del 1996-98. Una guida dunque specifica e di alta divulgazione scientifica sotto l´egida della Soprintendenza archeologica di Pompei per affrontare la visita del sito e comprenderne al meglio luoghi e reperti.

Negazionismo. "Serve la cultura, non il carcere"

Negazionismo. "Serve la cultura, non il carcere"
23/01/2007, La Repubblica

il documento

Ecco il testo integrale dell´appello al governo firmato finora da quasi duecento storici
Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l´esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria.
Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna.
Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell´attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l´eco.
Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com´è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d´espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall´autorità statale (l´"antifascismo" nella Ddr, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l´inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l´idea, assai discussa anche tra gli storici, della «unicità della Shoah», non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L´Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative.
La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all´odio razziale, all´apologia di reati ripugnanti e offensivi per l´umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
E´ la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.


L´ATLANTE DEI BENI ECCLESIALI. Un´indagine sul potere delle confraternite dopo l´Unità

L´ATLANTE DEI BENI ECCLESIALI. Un´indagine sul potere delle confraternite dopo l´Unità
PAOLA NICITA
24 gennaio 2007, La Repubblica, Palermo

LA MOSTRA

«Libera Chiesa in libero Stato», sentenziava Camillo Benso di Cavour all´indomani dell´Unità d´Italia, per sottolineare la necessità di una suddivisione di ruoli e poteri mirata al rafforzamento di una entità giuridica, sociale ed economica nuova di zecca.
Da questo assunto discende una serie di conseguenze legate al passaggio dei beni ecclesiastici allo Stato: fatto che comporta, concretamente, uno spostamento dell´asse economico legato alla Chiesa, che va dalla gestione dei grandi possedimenti fino alle più piccole realtà create per le fasce sociali meno abbienti o popolari. Vengono così promulgate nuove leggi per dismettere le istituzioni dei vecchi Stati preunitari, raccordare comunità e territori, unificata la moneta e scritti nuovi codici. Tra il 1866 e il 1867 si procede all´incanto dei terreni demaniali dell´ex Regno Borbonico e dei beni ecclesiastici, con una vendita ideata al fine di sanare il bilancio pubblico, e che in realtà non riuscì a risanare il deficit. Sempre di questi anni è la Legge delle Guarentigie, eccezione alla regola che consentì alla Chiesa il possesso dei palazzi del Vaticano, del Laterano e della villa di Castel Gandolfo, considerati beni inalienabili.
Il Regno, adesso unito, assume su di sé il debito pubblico dei vecchi Stati, guardando con particolare apprensione alla situazione del Sud, tra miserie, brigantaggio e violenti moti popolari come ad esempio la rivolta di Palermo del 1866.
Il reticolo di fili che tessevano i complicati rapporti tra Stato e Chiesa, in particolare al Sud, è adesso oggetto della mostra "Italia 1866. Possesso e Incanto. Libera Chiesa in libero Stato", allestita all´Archivio storico comunale di via Maqueda 157 (a cura di Aurelio Rigoli, fino al 6 febbraio, da lunedì a sabato dalle 9 alle 18,30, ingresso libero; promossa dal Centro Internazionale di Etnostoria, Comitato nazionale per la documentazione delle Confraternite del XIX secolo e dall´assessorato alla Cultura di Palermo).
La mostra mette in particolare rilievo il delicato e importante ruolo delle confraternite come mediatrici di fondamentale importanza per la religiosità popolare; specie nell´Isola, le confraternite divengono un centro d´interessi comuni, legate non solo alla sfera religiosa, ma più in genere al senso sociale e di aggregazione, articolato su vari e differenti livelli.
Si pensi ad esempio al fatto che la prima ondata di emigrazione verso l´America vede l´arrivo, insieme ai siciliani d´oltreoceano, delle «vare» con i santi, per perpetuare l´antica tradizione, che diviene anche fuori dal luogo d´origine motivo di immediato riconoscimento e orgoglio identitario. A New York o in Australia, sfilano Addolorate, Santi e Gesù incoronati di spine portati a spalla, come tra le vie dei paesi e delle città d´origine.
Questa esposizione propone un allestimento - curato dall´architetto Antonio Di Lorenzo - che molto punta sull´impatto scenografico, con una serie di «teatrini» realizzati da «pincisanti» - ovvero da quei pittori popolari che attingendo all´iconografia sacra dei maestri che realizzavano le loro opere nelle chiese le tenevano a modello rielaborandole in modo più semplificato - che si stagliano sulle pareti della sala Damiani Almeyda, luogo certamente tra i più suggestivi della città. Anche l´Archivio ha una forte relazione con la mostra, perché il luogo non è altro che l´ex convento di San Nicolò di Tolentino, anche questo passato allo Stato dopo l´Unità.
Insieme alle pitture - le «cappelle devote» di proprietà di alcune confraternite, realizzate su carta da imballaggio - nelle teche è possibile vedere una serie di documenti sulla trasposizione dei beni ecclesiastici allo Stato, come ad esempio atti di vendita, statuti e francobolli. Insieme ai documenti sono esposti oggetti di culto. Di particolare rilievo è la croce lignea seicentesca proveniente dal monte Athos, realizzata da artigiano anonimo su legno di bosso e con cornice d´argento, finemente scolpita in minuscoli e raffinati «teatrini» che raccontano storie sacre legate alla vita di Cristo, dall´Annunciazione alla Crocifissione. La croce è conservata nella chiesa di Santa Maria di tutte le Grazie di Mezzojuso. Nella Sala Pollaci in mostra documenti, planimetrie e immagini sacre, una selezione di abiti indossati dai Confrati durante le processioni e infine una serie di immagini fotografiche di processioni siciliane.
Sono esposte anche le cosiddette «leggi eversive dell´asse eccelsiastico», specie la normativa degli anni 1866-67, ma anche i documenti di molti archivi di Stato siciliani.
«L´esposizione - dice Aurelio Rigoli - è il risultato di tre anni di ricerca e della schedatura di 25 mila confraternite, per comprendere il ruolo di queste particolari realtà, inizialmente formatesi intorno al sacro e poi sempre più presenti e incisive nel sociale, con notevole rilievo economico». La divisione del potere tra Stato e Chiesa, così, non farà altro che rafforzare il ruolo delle confraternite, attestandosi sempre di più ad ineludibile raccordo tra la dimensione del sacro e quella della realtà tangibile.

mercoledì 7 maggio 2008

Dopo il caso Toaff. Chi imbavaglia di storici

Dopo il caso Toaff. Chi imbavaglia di storici
di Piero Ignazi
18-02-2007 Il Sole 24Ore

Ariel Toaff, storico israeliano, stimato studioso degli ebrei italiani del perìodo medievale e rinascimentale, è stato sottoposto nella scorsa settimana a un linciaggio mediatico che non ha riscontri nella storia culturale italiana. Un suo documentatissimo libro —più di un terzo dell'intero volume è riservato alle note, ali 'appendice documentaria e alla bibliografìa—su credenze e riti di ebrei askhenaziti tedeschi presenti anche nell'Italia nord- orientale, Pasque di sangue, è stato bollato d'infamia prima ancora di essere stato letto. Alla recensione in anteprima di Sergio Luzzatto che rendeva onore ali ' «inaudito coraggio intellettuale» dell'autore nell 'affrontare senza pregiudizi l'ignominiosa accusa con cui sono stati martirizzati per secoligli ebrei, ecioè l'uccisione di bambini cristiani per utilizzarne il sangue a scopi rituali, sono seguiti condanne e ingiurie di impressionante violenza. Oltre a minacce personali. Non ci interessa qui, perché non abbiamo la competenza, discutere il valore scientifico di questo libro; molti, anche su questo giornale, lo hanno criticato. Ma questo fa parte del gioco, benché da molti storici (diversamente dal nostro equilihratissimo Giulio Busi) ci si sarebbe aspettato un linguaggio meno livoroso e accaldato. Quello che è inaccettabile è che autorità
religiose, gruppi di pressione, e accademici senza pudore né rigore (valga per tutti l'incredibile rassegna digiudizi demolitori di storici americani e israeliani sul «Corriere della sera» del 13 febbraio nonostante, per mere ragioni temporali, non potessero aver letto il libro, tanto che qualcuno come Kenneth Stow dell'Università di Haifa lo ha pure candidamente confessato) si siano precipitati a lanciare una fatwa contro il libro e la persona di Toaff. La condanna preventiva, «a prescindere» (dalla lettura e dal contenuto), e l'intromissione di organizzazioni, associazioni e personalità extra-accademiche tingono dei colori più foschi questa vicenda. La comunità accademica italiana in nome di principi universali di libertà intellettuale e di ricerca, sanciti solennemente dalla "Magna Charta Vniversitatum"di Bologna firmata da circa 1.000 università del mondo, deve respingere le invasioni di campo, le pressioni (avanzate anche con il ricatto dei finanziamenti), le condanne con richieste dì abiura. Da Galileo in poi sappiamo quanto possa essere rischiosa la ricerca senza pregiudizi e preconcetti, indirizzata anche contro les idecs ree, ues. Dopo i casi eclatanti di Salman Rushdie e Orhan Pamuk la lista degli scrittori vittime dell'intolleranza e del fanatismo rischia di estendersi, includendovi anche gli storici. Ripetiamolo: non ci interessa sapere se Taoff abbia o no
ragione nel suo lavoro; questo lo decide la comunità accademica, l'unica intitolata a dare giudizi. Gli altri, per cortesia, si astengano. Non vorremmo proprio vedere, in un Paese intellettualmente tra i più liberi e spregiudicati del mondo come Israele, il rogo di un libro proibito e la maledizione del suo autore. Sarebbe tragico che facessero breccia anche nelle nostre democrazìe i depositari della verità assoluta, i fondamentalisti di ogni colore, i custodi delle ortodossie, i timorosi del nuovo. Non abbiamo proprio bisogno di un orwelliano ministro della Storia.

martedì 6 maggio 2008

Il ciclo del grano nei campi di Demetra

SICILIA - Il ciclo del grano nei campi di Demetra
MARCELLA CROCE
6 maggio 2008, LA REPUBBLICA - Palermo

Un libro ricostruisce miti e tradizioni collegati alla fertilità della terra

Formule magiche nei riti antichi per propiziare i raccolti in tutta l´Isola dalla semina alla mietitura fino alla cottura del pane

icerone dava per scontato che l´intera Sicilia appartenesse alla dea Demetra, dea del grano e della terra; dopo il furto della statua della dea dal santuario ennese da parte di Verre, gli abitanti attribuirono a questo sacrilegio le carestie che colpirono molte città dell´Isola. La Sicilia antica pullulava di templi dedicati al culto di Demetra e a sua figlia Persefone (detta anche Kore, cioè "ragazza"), e in essi potevano entrare solo le donne: a Catania c´erano due templi delle dee, uno dentro e l´altro fuori la città, e quando Verre tentò di portare via il simulacro della dea anche da lì, le sacerdotesse reclamarono davanti ai magistrati. Ancora nel 1756, in occasione di una spaventosa carestia, i catanesi eressero una statua alla dea Cerere che si trova attualmente in piazza Università e il marchese di Villabianca riferisce che a Palermo il giorno dell´Assunzione, malgrado i ripetuti tentativi di proibire questa pratica, si continuava a fare una solenne processione a Maredolce dove si sapeva avessero avuto anticamente luogo i riti di Cerere/Demetra.
«Gli Ennesi credono che Cerere abiti presso di loro, tanto che mi sembravano non cittadini di quella città, ma tutti sacerdoti, tutti ministri della Dea» (Verrem IV, 49, 50): le città di Enna, Morgantina, Assoro e Agira vengono citate da Cicerone come i territori dove la produzione di frumento era talmente ricca che «a vederli coperti di spighe si cessava di temere la carestia»; molti secoli dopo anche Goethe visitando le province interne della Sicilia rimase colpito dalla vista di tutti quei campi di frumento. Nel volume "Il ciclo del grano nella terra di Demetr"a, recentemente pubblicato dalla Sovrintendenza regionale dei Beni culturali della Provincia di Enna, Claudio Paterna ha curato la parte riguardante le relazioni pubbliche, sociali e simboliche dell´agricoltore, e Salvatore Scalisi quella relativa all´intero ciclo del grano, con un´accurata esposizione di tutto lo svolgimento del calendario solare agrario mediterraneo, dall´aratura e semina dell´autunno, al magico spuntare del primo germoglio primaverile, dalla raccolta e trebbiatura dell´estate fino alla molitura e infine al miracolo della panificazione.
La luna, il cielo, il mondo, il paesaggio, gli animali, il fuoco, la luce: tutti elementi che nel mondo contadino venivano considerati controllabili a opera di forze magico-religiose che intendevano esorcizzare la pericolosa precarietà legata agli eventi atmosferici. Nel volume della Regione, Paterna ha esaminato gli auspici, i pronostici, il computo del tempo, il valore simbolico degli attrezzi, le feste, i proverbi e le tradizioni che riflettono le credenze nella forze della natura e della Madre Terra.
Nell´inno omerico a Demetra si trova la narrazione più antica del mito: mentre Persefone stava giocando sulle sponde del lago di Pergusa con alcune ninfe, Ade la rapì dalla terra e la portò con sé nel suo regno. La vita sulla terra si fermò e la disperata Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta. Alla fine Zeus, non potendo più permettere che la terra morisse, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone e mandò Hermes a riprenderla. Prima di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melograno magici, che l´avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all´anno. Da quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose ma per quattro mesi all´anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda.
Da numerose fonti antiche sappiamo che gli abitanti della Sicilia, che per il mito avevano ricevuto per primi il dono del grano, istituirono in onore di Demetra e Kore sacrifici e feste, tra cui la katagogè della fanciulla, cioè il suo "rapimento verso gli Inferi", e il suo ritorno (anagoghé). Nella monetazione e nella coroplastica antica Demetra e Persefone sono accompagnate da una spiga o da focacce di pane o da un maialino, simbolo di abbondanza o ancora dalle fiaccole che erano loro necessarie per illuminare il regno dell´Ade. Diodoro Siculo riferisce che Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell´Etna, e fino a una cinquantina di anni fa la grotta di Galerno alle falde del vulcano veniva indicata come il luogo da cui si sarebbe mosso Ade per rapire Proserpina: sulla strada si sarebbe fermato ad Aidone che da lui aveva preso nome. Innumerevoli immagini sacre delle due Dee sono state ritrovate nel santuario della Malophoros a Selinunte, e tra i più celebri santuari era soprattutto quello di Enna: come parte del suo progetto di ellenizzazione, il tiranno di Siracusa Gelone aveva diffuso il culto di Demetra nell´interno dell´Isola. Un forte legame mitico si era così venuto a creare fra Siracusa e Enna, rafforzato dal carattere fortemente plebeo e popolare del culto di Demetra. Le feste Tesmophorie erano riservate alle donne e vietate agli uomini, i quali non potevano neanche guardare il simulacro della dea. Ateneo racconta che per l´occasione venivano confezionati dolci detti mylloi a forma degli organi sessuali femminili, era inoltre permesso il turpiloquio (aiscrologein), il cui scopo era quello di suscitare il riso sulle labbra della dea afflitta per la perdita della figlia; nel lancio di motti e lazzi osceni sarebbe stata l´origine della poesia giambica. Un forte legame fra sesso e agricoltura è rintracciabile in molte culture del mondo ed era presente fin dagli albori della civiltà umana. «La mia terra giace incolta», cantavano i riti ierogamici dei Sumeri, «che sarà di me Inanna? Chi seminerà la mia vagina con l´aratro?». Antonino Uccello riferisce che fino a un´epoca abbastanza recente nelle campagne di Noto si soleva invocare San Benedetto per "ingravidare il frumento" (San Binidittu ‘mprena li lavuri). Con la pubblicazione di "Il ciclo del grano nella terra di Demetra", realizzata con il contributo della Camera di commercio di Enna e della società concertile Rocca di Cerere, la Regione Siciliana ha inteso porgere omaggio a una delle vocazioni più antiche della Sicilia, la coltivazione del grano.

lunedì 5 maggio 2008

SICILIA - Nove strutture già associate e volumi dedicati ai "cicli" del pane e dell´olio

SICILIA - Nove strutture già associate e volumi dedicati ai "cicli" del pane e dell´olio
MARCELLA CROCE
24 marzo 2007, LA REPUBBLICA, PALERMO

IL CONSORZIO DEI MUSEI CONTADINI

In Sicilia l´esagerazione è d´obbligo. Eccessiva la proporzione dei templi greci, eccessivo l´oro dei mosaici, eccessivo il barocco che un po´ dappertutto, prepotente e delicato al tempo stesso, si insinua fra le catapecchie dei centri storici. Ma, proprio accanto al fasto e alla smodatezza, convisse per secoli anche una società improntata a grande, forse anch´essa eccessiva, frugalità. Alla società contadina, sono ispirati decine di musei sparsi per tutta l´Isola; nove di essi qualche anno fa hanno deciso di unirsi in un consorzio che è stato formalizzato nel 2005 e che adesso comprende anche otto comuni delle province di Siracusa e Ragusa, sette associazioni culturali e due Gal (Gruppi Azione Locale), Val D´Anapo e Co. P. A. I.
Alla società contadina, proprio in questa zona, si appassionò per la sua intera vita un antropologo che a quel mondo apparteneva, Antonino Uccello.
In questo intenso programma di protezione delle tradizioni popolari, si inserisce, con il patrocinio della Regione Siciliana, il progetto "Il Museo è scuola", con la nuova serie degli "Itinerari didattici nei musei etnografici Iblei", il primo dei quali, il "Ciclo del grano", già pubblicato, è stato presentato al Museo Internazionale delle Marionette di Palermo. Il volume è stato curato da Gaetano Pennino e Rosario Acquaviva, che sono già al lavoro con il successivo "Ciclo dell´olio", che sarà presto possibile aggiungere al medesimo fascicolo.
I tetti sono sfondati e i rovi hanno invaso i bagli un tempo affollati di gente e di animali al lavoro, e noi assistiamo impassibili a questa tragedia che, reputiamo inevitabile. Ci siamo così tutti assuefatti al crollo di una civiltà che è poi anche il crollo di una cultura: eppure le numerose masserie oggi trasformate in agriturismi la domenica sono gremite di cittadini che evidentemente desiderano, comodamente seduti a tavola, gustare le gioie della campagna. Tanto cittadini da non chiedersi neppure se quei bagli avessero mai avuto altro uso che quello di posteggio per le loro vetture e che pochissimo conoscono sull´uso degli strani strumenti arrugginiti che agonizzano appesi sui muri, tanto estranei essi ormai sono a ciò che accadeva davvero fra le mura della struttura che li ospita.
Itinerari antropologici di grande interesse culturale sono in gran parte già fruibili nella regione iblea e introducono il visitatore a una lettura del territorio nella sua integrità: botteghe artigiane perfettamente corredate nel museo "Serafino Amabile Guastella" a Modica, una vera dimora contadina a Palazzolo Acreide, la Casa Museo "Antonino Uccello", che, nelle intenzioni del suo fondatore, dovrebbe cambiare aspetto a secondo delle stagioni, un frantoio per l´olio, un palmento per il vino e una macina per il grano nei "Luoghi del lavoro contadino" di Buscemi.
In quest´ultimo museo, si può anche valutare il contrasto fra la casa del massaro che a noi appare primitiva, ma godeva in realtà di relativa agiatezza, e il tugurio del bracciante che lavorava a giornata (jurnataio), dove una famiglia di sei o sette persone doveva stringersi, insieme con le bestie, in spazi ristrettissimi.
Ciò che rende davvero straordinario l´itinerario di questo paese-museo, è il fatto che queste strutture erano ancora in uso, precisamente in questi posti, fino a qualche decennio fa. Ancora più specifico l´oggetto delle esposizioni negli altri centri iblei: l´opera dei pupi a Sortino, l´olio, il ricamo e lo sfilato a Chiaramonte Gulfi, l´emigrazione e la tessitura popolare a Canicattini Bagni, mentre la collezione personale di Nino Bruno, esposta nella sua villa-museo presso Floridia, offre anche saggi della creatività di questo originale artista.
Moltissime persone, attribuendo un significato molto ristretto alla parola "cultura", pensano che essa debba o possa riferirsi solo al retaggio artistico e letterario di un popolo o a istituzioni ed attività organizzate (Università, biblioteche, musei, concerti, mostre).
Particolarmente per le generazioni più giovani, esclusivamente nutricate a base di merendine confezionate e pubblicità televisiva, la visita dei musei della civiltà contadina dovrebbe essere considerata altrettanto importante di quella ad un museo archeologico o ad una pinacoteca.
Il volume di Pennino e Acquaviva costituisce una fonte davvero fondamentale per gli studi sul ciclo del grano, un tempo così fondamentale per la Sicilia, definita un tempo "granaio di Roma", ed è corredato da ottime schede didattiche: uno strumento prezioso affinché tutti, e in particolare insegnanti e alunni, possano accostarsi a un mondo in gran parte ormai scomparso.

Affresco di vita del ’600: superstizione e streghe

L'Arena, Lunedì 5 Maggio 2008
IN LIBRERIA. NE «LA FIGLIA DELL’ERETICO» UN PROCESSO PER STREGONERIA NEL NEW ENGLAND
Affresco di vita del ’600: superstizione e streghe

Grazia Giordani
Chi ama storie metafisiche, popolate da diavoli e streghe, certamente proverà interesse per La figlia dell'eretica di Kathleen Kent (Titolo originale: "The Heretic's Daughter, pp.321, euro 17,60) che Longanesi porta in Italia, puntualmente tradotto da Laura Cangemi. L'originalità dell'opera consiste soprattutto nel fatto che l'autrice che attualmente vive a Dallas - con un passato negli affari prima, nel settore commerciale poi, dal 1991 nel dipartimento americano della Difesa in Russia - è diretta discendente di Martha Carrier, una delle prime donne processate a Salem, nel 1692, con l'accusa di stregoneria. Confortata da racconti familiari, tramandati di generazione in generazione, con abili suture letterarie, rimaneggiando il materiale strettamente storico, la Kent è riuscita a proporci un affresco di vita seicentesca, popolata da sospetti e superstizioni, espresso in prosa venata di lirico verismo.
"Martha Carrier - precisa la scrittrice, a proposito della sua eroina del romanzo - venne impiccata il 19 agosto del 1692 a causa del suo ostinato rifiuto a confessare di essere una strega, vittima consapevole forse del proprio feroce orgoglio, ma nello stesso tempo l'unica in tutto il New England a saper tener testa ai giudici non solo per sostenere la propria innocenza, ma anche per rimproverarli di 'dare credito a gente senza sale in zucca', piuttosto che ai fatti".
Voce narrante è Sara, figlia di Martha, personaggio deciso e coraggioso almeno quanto quello della madre, donna ironica e tagliente. L'atteggiamento persecutorio che si innesca nei confronti di tutti i familiari, all'inizio considerati quasi degli untori a causa del vaiolo che imperversava all'epoca, è incorniciato dentro il terso ritratto di una vita semplice e dura, ritmata dal passaggio delle stagioni, descritte con mano realista, tanto che percepiamo il profumo dell'estate e il rigore dell'inverno a fianco dei protagonisti, vittime di un bieco oscurantismo. Il New England puritano seicentesco esce a tutto tondo da queste pagine che godono della primizia editoriale italiana, visto che negli Stati Uniti non sono ancora state pubblicate.
Frutto di un intreccio fra documenti storici e finzione narrativa, la Kent ci offre uno spicchio di passato, trafitto da luttuosi bagliori, ancora capace di stupirci.

domenica 4 maggio 2008

LE VERITA' SU GIOVANNA D'ARCO

LE VERITA' SU GIOVANNA D'ARCO

Roma, 3 mag. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - E' vissuta tra il 1412 e il 1431 ed e' stata proclamata santa nel 1920. E' una delle figure piu' significative della storia francese. E' Giovanna d'Arco, 'la pulzella d'Orle'ans', la giovane che trascino' nel corso della Guerra dei Cento Anni le truppe francesi alla vittoria. La sua immagine e' legata all'assedio degli inglesi messo in atto, nel 1429, nella citta' francese d'Orle'ans. Con coraggio e determinazione fu in grado di condurre i suoi concittadini verso una vittoria insperata e apparentemente irrealizzabile. Chi era, pero', Giovanna d'Arco? Quali segreti nascondono la sua figura e le sue gesta eroiche? Gerd Krumeich, docente di storia moderna all'Universita' Heinrich Heine di Dusseldorf, fa luce sulla figura di Giovanna d'Arco illustrando gli eventi principali della sua vita nel saggio ''Giovanna d'Arco'', pubblicato dalla casa editrice il Mulino.

La mitologia su Giovanna d'Arco e' molto vasta ed eterogenea. Nel corso del tempo si sono accumulate domande e dubbi profondi e radicati. Spesso, ad esempio, ci si e' chiesti se la pulzella fosse un uomo oppure se, nelle sue vene, scorresse sangue reale. Molte perplessita' sono state sollevate, poi, sul fatto che avesse delle visioni o sentisse delle voci che la spronavano all'azione. Un dato, secondo Krumeich, e' certo. La storiografia su Giovanna d'Arco risente della stretta relazione tra convinzioni e fede che caratterizza l'esame scientifico dei dati. Uno dei presupposti principali della ricerca elaborata dallo studioso tedesco e' quello di ''distinguere rigorosamente il fatto dalla narrazione''.

Sono tre gli ambiti storici sui quali Krumeich si sofferma, in particolare, per delineare la figura di Giovanna d'Arco. Inquadra, anzitutto, l'evoluzione del Regno della dinastia dei Valois. Esamina la guerra della monarchia contro l'Inghilterra e spiega la politica del principato di Borgogna. Si tratta di elementi che contribuiscono a definire la cornice in cui si e' mossa la Pulzella d'Orle'ans, un'eroina che continua ad esercitare un notevole fascino. ''Non lo si affermera' mai abbastanza - dichiara, Krumeich - la vicenda della Pulzella e' talmente affascinante e la sua vita cosi' ben documentata dalle fonti che, a differenza di molte altre personalita' storiche, e' facile esserne attratti fino ad identificarsi in essa e a volerne assolutamente risolverne l'enigma''.