lunedì 10 novembre 2008

Iscrizioni funerarie Romane

Iscrizioni funerarie Romane
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Bur, Milano, 1991

Tra le tante voci del mondo antico che sono giunte fino a noi, quelle incise nel marmo o nel bronzo sono le più autentiche: non hanno subito modifiche o sviste da parte di copisti o di revisori. Socchiudono spiragli sull’esistenza, gli affetti, i valori e sull’atteggiamento di fronte alla morte di persone scomparse da molti secoli; lasciano scorrere davanti a noi, come in una carrellata, quella che Virgilio chiamò la plurima mortis imago, i molteplici aspetti della morte: l’incendio, il naufragio, il duello del gladiatore, la battaglia del legionario, la malattia, la vecchiaia, il parto della giovane donna, il pugnale del bandito o dello schiavo, fino al sortilegio malefico. E’ la poesia umile degli anonimi; prosegue dal sepolcro il colloquio con i vivi, lancia il suo appello a una sosta, a un momento di meditazione, minaccia chi oserà violare o contaminare quel piccolo terreno consacrato; rivela la filosofia del defunto, la sua cultura — quando cita autori famosi — infine la sua verità segreta e profonda.
L.S.M

Dalla quarta di copertina

Attraverso le iscrizioni s’è cercato di ricostruire anche la composizione etnica della Roma imperiale:
T. Franck, in Race Mixture in the Roma,, Empire («American Historical Review», 1916, pp.. 689 sgg.), attraverso un esame degli epitaffi di schiavi e liberti, dai nomi prevalentemente greci e orientali, dedusse che appunto di quella classe era costituita in maggioranza la popolazione di Roma; tesi contrastata da M. L. Gordon, in The Nationalityi af Slaves under the Early Empire (Journal of Roman Studies, 1924, pp. 93 sgg.). Vedi G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the I Century of the Roman Empire, in « Harvard Theological Review», l927,pp. 183 sgg.
Si usava, dopo aver aperti e chiusi gli occhi al defunto, mettergli in bocca una moneta (il naulum) per pagare il viaggio nell’Ade. Poi, lo si stendeva su un letto di legno, che veniva collocato sulla catasta di legna alla quale un parente appiccava il fuoco; si chiamava bustum, se l’incinerazione avveniva entro la fossa stessa dove poi le ossa sarebbero state ricoperte di terra, ustrinum invece il luogo dove si innalzava la pira, lontano da quello della sepoltura. L’incinerazione fu un uso prevalente dall’età repubblicana a tutto il I secolo d.C., tranne che nel caso di bambini morti in tenera età e di adulti colpiti dal fulmine.
Le ossa, lavate con latte e vino, venivano deposte entro anfore, in urne di ceramica, di vetro, d’alabastro, in cassette di laterizi, più raramente di marmo; l’urna di vetro, una specie di bottiglia a bocca larga, più spesso destinata alle donne, a volte era inserita entro un’anfora segata, ma avveniva anche che le ossa fossero posate liberamente sulla nuda terra. Tutt’attorno si posavano oggetti d’uso o cari al defunto, attrezzi di lavoro, gioielli, balsamari, giocattoli, alcuni dei quali — e la stessa disposizione in cui venivano posati — rivestivano un significato magico e rituale (per es. i chiodi, gli specchi). La tomba si considerava consacrata soltanto a seguito del sacrificio d’un porco. ossi di animali trovati sulle tombe possono essere residui del banchetto funebre consumato sùbito dopo le esequie e ripetuto nove giorni dopo, oppure alimenti destinati al morto; entro la tomba stessa si versavano libagioni offerte ai Mani.
Il calendario romano segna molte date dedicate alla celebrazione dei defunti: i parerntalia, nell’anniversario della morte, i Feralia in febbraio, i Lemuria — giorno in cui le anime, lasciate libere, cercavano di tornare nelle loro case, in maggio. Il capo famiglia, voltando le spalle alla porta, recitava una formula di scongiuro per allontanarli e gettava a terra una manciata di fave (Ovidio, Fasti, V, 431-444) — l’uso delle fave dolci, consumate il giorno dei morti a Roma (2 novembre) è una inconsapevole reminiscenza, benché in altra stagione, di quel rito remoto.
Dato che le sepolture si trovavano lungo le strade consolari, l’iscrizione rappresenta l’appello postumo del defunto ai vivi, passanti o viaggiatori. In essa, chi non è più vuole attirare ancora l’attenzione e fermare per un momento quel flusso incessante di umanità che scorre davanti a lui, e, nel riassumere la propria esistenza, esprime nella forma più genuina e più breve (appunto, lapidaria) la scala dei valori del suo tempo, la sua concezione della vita e del destino umano.

LIDIA STORONI MAZZOLANI

Pagine XI-XII

Nietzsche, il vulcanico

Nietzsche, il vulcanico
«Il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il più grande godimento, si chiama: vivere pericolosamente. Costruite le vostre case sul Vesuvio» scriveva Nietzsche nella Gaia Scienza, nel 1882.
Un’evocazione del sud, focoso e dionisiaco, nelle pagine di un pensatore del nord attratto magneticamente dalla lucente effervescenza solare del mediterraneo e dal suo sottosuolo vulcanico anche in senso ifiosoflco. Da questa traccia, un filosofo venuto dal profondo sud, Antimo Negri, risale in un suo denso volume per rintracciare il senso profondo della nuova scienza secondo Nietzsche. Una scienza gaia e ridente che si beffa delle proposizioni universali, fredde e oggettive, e si apre alla poesia che sola può restituire l’incanto al mondo.
Aleggia nelle pagine di Negri, il riferimento bacchico, dionisiaco a Nietzsche.

D’altronde lo stesso pensatore tedesco aveva già nel 1870 definito Dioniso “lo scopo della esistenza”. La conoscenza tragica, eroica e ludica è in realtà per Nietzsche la vera, sola conoscenza. Ovvero non cerca l’essenza della vita ma i suoi specchi, ustori e deformati.

Antimo Negri
Nietszche. La scienza sul Vesuvio
Laterza

Da “L’Italia settimanale, 15 giugno 1994, pagina 61

Il noce di Benevento, La Stregoneria e l’Italia del Sud

Paolo Portone
Il noce di Benevento, La Stregoneria e l’Italia del Sud
Xenia, Milano, 1990
Narra la leggenda che ai tempi del ducato longobardo, a due miglia fuori dalla città di Benevento, un serpente di bronzo appeso a un albero di noce era meta di culto idolatrico: la soppressione di questo culto pagano e lo sradicamento della «superstiziosa noce» era quanto chiedeva il cielo per la salvezza di Benevento dall’assedio bizantino. L’albero di noce venne sradicato da San Barbato, ma il suo culto resisté tenacemente tanto che lo stesso albero, «grandissimo e verdeggiante anco di mezzo inverno», ricompariva nelle notti del sabba: questo, almeno, testimoniarono le «streghe» ai processi inquisitoriali di tutta Italia. L’opera di Paolo Portone inquadra la stregoneria meridionale entro l’ampia cornice europea, mostrando come nell’Italia del Sud la caccia alle streghe abbia avuto un carattere assai meno sistematico e feroce che nel resto del continente. Notevoli quanto singolari sono le pagine in cui l’Autore, con la collaborazione di un gruppo di farmacologi, studia la composizione degli unguenti usati dalle «streghe» prima del volo verso il sabba: alla loro base erano erbe velenose come la belladonna, lo stramonio e il giusquiamo, dotate di proprietà allucinogene. Il volo verso il magico noce si rivela così volo della memoria, fuga della visione, sete del fantastico.

Dalla quarta di copertina

I MISTERI DI MITHRA, Cosmologia e salvazione nel mondo antico

DAVID ULANSEY
I MISTERI DI MITHRA, Cosmologia e salvazione nel mondo antico
Edizioni Mediterranee, Roma, 2001
Una nuova spiegazione delle origini dei misteri mitriaci basata sulla constatazione che la strana iconografia appartenente al culto tributato in epoca romana (dal I al IV secolo d.C.) al dio Mithras — derivazione, secondo Io studioso Cumont, del dio iranico Mithra — è un complesso codice cosmologico creato da una cerchia di filosofi e scienziati per tradurre in simboli la loro dottrina occulta.
Gelosamente custodita, la conoscenza esoterica di questa potente divinità era ritenuta una chiave di accesso privilegiata ai favori che essa poteva elargire: la liberazione dalle forze del fato che risiedevano nelle stelle e la protezione dell’anima durante il suo tragitto, dopo la morte, attraverso le sfere planetarie. Mithras era in grado quindi di accompagnare l’uomo nella sua esistenza terrena e ultraterrena e di portare a salvazione la sua anima.
Da questo punto di vista lo studio del mitraismo è estremamente importante per comprendere la matrice culturale da cui prese le mosse una religione ben più rilevante e duratura: il cristianesimo. Le due fedi furono infatti sorelle, si diffusero grosso modo nella stessa epoca e nella medesima area geografica, cercando di dare risposte differenti a un identico desiderio di trascendente.
Dalla quarta di copertina.

domenica 9 novembre 2008

Mitra, un antico culto misterioso tra religione e astrologia.

Alexander Von Pronay
Mitra, un antico culto misterioso tra religione e astrologia.
Convivo, Firenze, 1991

L ‘OPERA — Il culto di Mitra, il dio nato dalla roccia, trova le sue antiche origini nell’altopiano persiano, in epoche preistoriche; culto misterico caratterizzato da una rigida etica, si affermò prima in Asia Minore e poi in Grecia, a Roma e in tutto l’Occidente, specie nelle regioni nordiche. All’epoca della sua maggiore diffusione il Mitraismo fu un movimento religioso di grandissime proporzioni, tale da presentarsi come reale antagonista alla diffusione del Cristianesimo stesso. Approfondendo questa prospettiva storica, che apre capitoli nuovi nella storia delle religioni, l’essenza, il potere e il destino dei segreti culti misterici orientali affiorano in una rete di relazioni finora sconosciute, in cui trova posto e fondamento l’astrologia, con i suoi contenuti religiosi e occulti.

Da pagina 13
MITRA, IL DIO PERSIANO
NATO DALLA ROCCIA

Più di mille anni erano trascorsi in peregrinazioni allorché Mitra trovò dimora nelle grotte-tempio dell’Impero Romano, più precisamente presso le guarnigioni dei legionari sul Limes, il vallo di confine posto tra Reno e Danubio. Il culto di Mitra era giunto a Roma nell’anno 67 a. C., proveniente dall’Asia Minore, ma la sua impronta effettiva, o meglio il suo perfezionamento, lo aveva ricevuto in Mesopotamia. E comunque possibile far risalire le sue tracce originarie all’altopiano persiano, al periodo che addirittura precede l’Età della Pietra.

La Religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico

Dario Sabbatucci
La Religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico
Il Saggiatore, Milano, 1988

« Ho voluto esporre la religione romana per mezzo del suo calendario festivo. E una scelta che ha due spiegazioni. La prima: ho creduto vantaggioso calare la materia in una struttura romana piuttosto che in una nostra, inevitabilmente condizionata dalla nostra religione, dal nostro concetto di religione, e dunque fuorviante in proporzione al condizionamento stesso. In sostanza, ho rifiutato il modello manualistico corrente, per seguire un modello antico, quello che ha indotto Ovidio ad esporre la religione romana per mezzo dei Fasti, appunto per mezzo del calendario festivo. La seconda: ho seguito l’indicazione di uno dei più geniali antichisti che io conosca, K. Kérenyi, il quale ci ha insegnato a considerare “la religione antica come religione della festa”.
Il calendario festivo, dovunque ne sia stato formulato uno, è lo strumento con cui si dà ordine al tempo: lo si cosmicizza, lo si rende agibile all’uomo. Enorme è dunque la sua importanza per le religioni che, come la romana, concernono la vita “temporale”. Chi non si è lasciato fuorviare è giunto a definire il calendario romano la Magna Charta della religione di Roma antica.
Ora la questione è: quale Roma antica? Il calendario che ho utilizzato è riferibile alla Roma medio-repubblicana, alla Roma già pienamente storica. E un calendario che comunque rivela presupposti d’età anteriori, la monarchica e la paleo-repubblicana, che, quando mi è stato possibile senza cadere nel gioco delle congetture, ho debitamente messo in evidenza. Ho dunque lasciato fuori i moltissimi culti d’età imperiale, tranne che nei casi, pochissimi, in cui è stato possibile ravvisare lo sviluppo di culti precedenti. Fuori dalla realtà calendariale da me proposta sono state lasciate le religioni di Iside e di Mithra, per quanto regolarmente quotate dai tardi calendari d’età imperiale. Ha invece trovato un suo spazio il culto di Cibele, e a suo.

Dal risvolto di copertina

I Romani

R.H. Barrow, I Romani, Mondadori, Milano, 1962

La civiltà di Roma ha contribuito in modo determinante alla formazione di quelle nazioni che un tempo costituivano le province di un immenso impero e che, dopo le invasioni barbariche, assunsero i loro caratteri peculiari. Inoltre la tradizione romana, dalla storia alla letteratura, dal diritto all’architettura, ha improntato di sé tutta la cultura del Medioevo e dell’epoca moderna. Partendo da tali considerazioni l’autore di questo libro si propone di individuare i cardini di una struttura che si è dimostrata cosi vitale anche dopo il suo crollo politico. I rapporti fra stato e individuo, fra libertà e controllo dall’alto, il conflitto fra uso e abuso del potere, il problema della civilizzazione dei popoli più arretrati, la condizione di duplice lealtà dei sudditi verso Roma e verso la propria cittadinanza, sono alcuni degli argomenti trattati dal Barrow in questa rapida ed efficace sintesi. Le direttrici di un’evoluzione che iniziò nel 753 a. C. e che nei suoi riflessi postumi non si è ancora esaurita, emergono dalla lettura di queste pagine con la costante di una perenne attualità.

Dal risvolto di copertina

L’idea laica nell’Italia contemporanea.

Tina Tomasi
L’idea laica nell’Italia contemporanea.
La Nuova Italia, Firenze, 1971
Dal dibattito tra Chiesa e Stato nell’italia preunitaria al laicismo della destra storica, dai bilancio politico delle associazioni operaie e delle leghe per l’insegnamento popolare al riformismo dell’età positivista, dalla crisi giolittiana alla controffensiva spiritualista, dalla fioritura dell’idealismo alla critica pedagogica d’ispirazione marxista, dall’eclissi dell’idea laica nel periodo fascista alla gestione democristiana del ministero della P.I., dal cattolicesimo postconciliare alla « nuova risposta » laica: una storia del pensiero educativo e della politica scolastica nella prospettiva del conflitto tra le forze sociali e culturali che ha costituito la storia d’italia nell’ultimo secolo.
Dalla quarta di copertina

Pagina del Manoscritto del Popol Vuh

Pagina del Manoscritto del Popol Vuh

“Augusta miseria”

Carlo Crocella
“Augusta miseria”
Aspetti delle finanze pontificie nell’età del capitalismo
Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1982

In questo volume si affronta un argomento che ha interessato gli storici e attirato in pari tempo l’attenzione dell’opinione pubblica. Il problema delle finanze pontificie si pose in modo drammatico sin dalla prima metà dell’Ottocento e divenne ancora più grave dopo che lo Stato della Chiesa perse, nel 1859-60, le sue regioni più ricche. Al problema della sopravvivenza dello stato si aggiunse allora quello ben più grave di trovare risorse per far fronte al governo della chiesa universale. A parte taluni espedienti monetari del cardinal Antonelli,si ricorse per lo più a prestiti internazionali. Banchieri, finanzieri, capitalisti “cattolici” talora spregiudicati come il belga Langrand-Dumonceau - finito in bancarotta nel 1870 e sottrattosi con una fuga ad una dura condanna - avanzarono iniziative e proposte per una istituzione o organizzazione finanziaria cattolica a servizio del papa. Ma il soccorso alla Santa Sede non giunse dai grandi capitalisti, quanto piuttosto dai fedeli di tutto il mondo che diedero vita a una colletta, prima spontanea, poi via via sempre più organizzata, che fu l’Obolo di San Pietro. Gli umili credenti non pensavano a far prestiti; preferivano donare al pontefice, perché egli potesse rispondere liberamente alla domanda religiosa che saliva dal basso e conservare la chiesa in decoro-sa povertà.
caduta Roma nel 1870 le risorse dell’Obolo cominciarono ad eccedere i bisogni e le spese della Curia romana. Nacque allora il problema di come investire il sovrappiù. E fu così che la Chiesa si ritrovò impigliata in quel mondo capitalista che in linea di principio non aveva mai potuto accettare, e in un giro di banche, banchieri e affaristi pronti a strumentalizzare anche i più alti valori religiosi.


Indice del volume. Presentazione di Giancarlo Mazzocchi. Premessa. 1. La crisi finanziaria dello stato pontificio dopo la Restaurazione. 2. Le proposte dei capitalisti cattolici per la ripresa economica dello stato della Chiesa. 3. La politica monetaria del cardinal Antonelli. 4. L’Obolo di san Pietro. 5. Venti Settembre: una sconfitta vantaggiosa. Alcuni interrogativi.

Dalla quarta di copertina.

Una pagina del processo a Giovanna D'Arco


Una pagina del processo a Giovanna D'Arco

venerdì 7 novembre 2008

I Piaceri a Roma

Jean Noel Robert, I Piaceri a Roma, Rizzoli, Milano, 1985
“Le terme, il vino, le donne: questa è la vita.” è il testo di una iscrizione funeraria romana di epoca imperiale. Come molte altre analoghe, essa manifesta senza ipocrisie la concezione dell’esistenza propria di una civiltà che vedeva nella dea Venere — la divinità del piacere — la propria progenitrice. La società romana era attraversata da enormi squilibri sociali: accanto a una classe che aveva ammassato (e che spendeva) immense ricchezze, esisteva la plebe miserabile e oziosa — la cui esistenza è stata descritta in un altro volume di questa collana, I bassifondi dell’antichità, di C. Salles —, mantenuta quasi esclusivamente dai donativi pubblici e dal lavoro degli schiavi. Ricchi e poveri sono dominati da un’uguale ansia di godimento: ciascuna classe elabora una propria “arte di vivere”. Nella metropoli immensa e frenetica, che dobbiamo immaginare più simile a una casbah orientale che a una città moderna, i cittadini passano la maggior parte della loro giornata nelle strade, nel foro, in quei “palazzi per il popolo” che sono le basiliche e soprattutto le terme. Ogni romano, uomo o donna, vi passa in media due ore della sua giornata: a lavarsi, a giocare, a bere, ad amoreggiare, forse soprattutto a chiacchierare — anche questo uno dei piaceri dell’esistenza, a cui i Romani si dedicano ai più vari livelli. Vi sono, nella sola Roma, novecentocinquanta edifici termali, dai più piccoli a quelli giganteschi: un servizio pubblico completamente gratuito (ma vi sono anche, non dimentichiamolo, ventotto biblioteche anch’esse pubbliche, con una media di diecimila volumi ciascuna!). Un numero incredibile di giornate è dedicato alle feste, sempre accompagnate da elargizioni e da spettacoli — naturalmente offerti dallo stato, o da qualche ricco cittadino. Essi sono di una grandiosità senza pari, tali da ricordare i più fastosi kolossal della storia del cinema: solo che a Roma non si trattava di finzioni, e le ricostruzioni di battaglie comportavano centinaia di morti, come le cacce nel circo (magari trasformato in una cera foresta) vedevano l’uccisione di migliaia di animali esotici. I1 fascino atroce del combattimento di gladiatori attirava plebei e patrizi e grandi dame.
Questo gusto per lo spettacolo si riflette anche nell’altra grande occasione di piacere: il banchetto. Gli eccessi barocchi e stravaganti dei ricchi Romani a tavola — oggetto, fin da allora, della satira divertita e feroce di un Orazio, di un Giovenale, di un Petronio — prendono infatti l’aspetto di sorprendenti finzioni teatrali che si riallacciano a complessi e inattesi riferimenti culturali: mitologici, astrologici, letterari.
Se la vita del cittadino comune tende a svolgersi nei grandi spazi pubblici, quella delle classi superiori tende a chiudersi nelle grandi dimore, in cui il ricco romano profonde tesori. Preziose opere d’arte, razziate o acquistate a peso d’oro in Grecia e in Oriente, arredano gli ambienti resi confortevoli da impianti di riscaldamento e attrezzature igieniche in tutto paragonabili a quelli moderni, o popolano i giar1ini destinati a creare l’illusione della natura. E la contemplazione della natura è un altro grande piacere dei Romani, negato ai plebei: ne testimoniano le grandi ville, situate in posizioni stupende, messe in luce dagli archeologi o descritte dagli scrittori antichi. “Quando sono nella mia villa di Laurento — scrive Plinio — non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio, nessun timore mi turba.” E il piacere più grande: quello di essere in pace, con se stessi e con gli altri.

Dal risvolto di copertina