venerdì 31 dicembre 2010

Un saggio di Lina Bolzoni sul rapporto tra scrittura e pittura. Il cuore di cristallo della nostra civiltà

Un saggio di Lina Bolzoni sul rapporto tra scrittura e pittura. Il cuore di cristallo della nostra civiltà
BENEDETTA CRAVERI
MERCOLEDÌ, 29 DICEMBRE 2010 LA REPUBBLICA - Cultura

Attraverso l´opera del Bembo si analizza un´epoca e come si è evoluta la cultura

Sono gli Asolani di Pietro Bembo a servire da punto d´avvio della splendida lezione di civiltà letteraria che Lina Bolzoni ci offre oggi con Il cuore di cristallo. Ragionamenti d´amore, poesia e ritratto nel Rinascimento (Einaudi). Una lezione che dall´indagine delle varianti testuali del celebre dialogo si estende via via alle altre opere dello scrittore, ai suoi modelli letterari - Dante, Petrarca, Boccaccio - , alla lirica a lui contemporanea, fino ad abbracciare la pittura e il ritratto. Sul filo di questo gioco vertiginoso di analogie e rimandi che costituiscono la sua ricerca, il saggio ricostruisce, infatti, "una vicenda pluridimensionale, in cui è possibile rintracciare, intorno ai grandi temi dell´amicizia, dell´amore, della rappresentazione dell´io, rapporti del tutto inaspettati".
Proviamo allora a ricordare alcuni momenti di questo viaggio che ci porta al cuore della civiltà italiana del Rinascimento. Pubblicati nel 1505, a Venezia, da Aldo Manuzio, gli Asolani sono la prima opera in volgare di Bembo (1470-1547), giovane e coltissimo patrizio veneziano. Ad imporsi all´attenzione è in primo luogo l´architettura narrativa di tipo ternario dell´opera: ci troviamo di fronte a tre libri, rispondenti a tre dialoghi - introdotti da tre canzoni - nel corso dei quali tre giovani gentiluomini illustrano la loro diversa concezione dell´amore a tre giovani dame. La cornice che dà il nome al dialogo è quella del castello di Asolo dove la regina di Cipro, Caterina Cornaro, sta festeggiando le nozze di una delle sue damigelle d´onore.
Tuttavia sarebbe sbagliato credere che questo elaboratissimo gioco di simmetrie rinvii a un discorso univoco. Il tre non è forse un numero magico? E, ricomposti insieme, i ritratti dei tre protagonisti del dialogo non ci offrono in realtà l´autoritratto dello stesso Bembo? E anziché l´amore non è piuttosto lo statuto stesso della letteratura ad essere qui al centro della riflessione? E la letteratura non apparirà allora come una vita vissuta indirettamente, "come un percorso che guida alla conoscenza e insieme una terapia dell´anima "?
Ma nel momento stesso in cui sembra investire la letteratura di un potere ermeneutico assoluto, Bembo si dimostra pronto a rimettere tutto in discussione. In che misura la ricerca della verità può essere compatibile con la vocazione ludica della scrittura? La letteratura non rischia di diventare una fuga e un rifugio nel sogno? E qual è la natura delle immagini mentali e il senso da dare alle figure del mito? Come mostra la Bolzoni, è proprio parlando dei sogni che Bembo rivela fino a che punto abbia fatto sua la lezione della Theologia platonica di Marsilio Ficino. Noi siamo quello che sogniamo non solo in vita ma anche dopo la morte e l´inferno altro non è che il mondo dei sogni che l´anima impura porta con sé. Ma in "questa radicale decostruzione del punto di vista sul mondo" suggerita nel terzo dialogo, anche il grande topos letterario della trasparenza del cuore innamorato così caro a Petrarca - "Avess´io almen d´un bel cristallo il core" - si rivela una ingannevole utopia.
Per quale singolare paradosso, allora, quest´arte della parola letteraria di cui Bembo non si stanca di celebrare la capacità di svelamento e che sola sembra detenere la facoltà di penetrare nell´interiorità e cogliere l´essenza delle cose, "si protende" continuamente verso l´immagine, fa così spesso ricorso a metafore visive e entra in gara con la pittura?
E´ proprio su questo rapporto complesso di "rispecchiamento e di competizione" che si instaura tra poesia e ritratto che Lina Bolzoni torna qui nuovamente a riflettere. Confrontata alla voga crescente del ritratto e all´enorme prestigio raggiunto dalle arti visive nella civiltà rinascimentale, la poesia intende, in effetti, giovarsi delle suggestioni che le vengono dal mondo delle immagini e, al tempo stesso, difendere la superiorità conferitale dalla tradizione. L´impresa si rivela però tutt´altro che facile. Se, poeta egli stesso, Michelangelo evidenzia il carattere comune del processo artistico, altri geni sommi come Leonardo e Tiziano rivendicano con intransigenza la superiorità del linguaggio pittorico.
Di questa splendida gara di emulazione a base di versi, iscrizioni, motti, emblemi, imprese, allegorie, medaglie, ritratti di cui Lina Bolzoni ci regala oggi la storia, mi limiterò a uno degli esempi più celebri: il ritratto "doppio" di Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, ad opera di Piero della Francesca, davanti a cui sfilano ogni giorno i visitatori degli Uffizi.
Colti di profilo, secondo il modello numismatico, i ritratti del duca e della duchessa di Urbino ci trasmettono un primo messaggio di straordinaria efficacia politica. Ma per trascendere le contingenze storiche e proiettare i suoi committenti nel mondo eterno dei valori, le loro effigi non bastano e, per dar voce a questo secondo messaggio, Piero ha dovuto, sul rovescio delle due tavole, raffigurarli di nuovo, facendo ricorso anche alla scrittura e al linguaggio allegorico. Questa volta i due sposi sono ritratti da lontano, seduti sui due carri di trionfo di cui due iscrizioni latine spiegano la valenza simbolica - la duchessa incarna la Modestia, il duca la Fama - mentre il paesaggio sullo sfondo sta ad indicare la continuità con i ritratti precedenti. In una sintesi vertiginosa tra storia e mito, tradizione letteraria e sapere antiquario, interiorità e immagine, i ritratti doppi dei duchi di Urbino disegnano così, sui due lati di una stessa tavola, i momenti successivi di un percorso comune a tutte le arti. Un percorso che va, come scrive la Bolzoni, dall´individuale all´universale e "che nutre la memoria, stimola all´imitazione, e si può variamente declinare".

giovedì 30 dicembre 2010

Posseduti ed esorcisti nel mondo ebraico

“Posseduti ed esorcisti nel mondo ebraico”
Bollati Boringhieri
J. H. Chajes

Accadde qualcosa, in Europa e nel Vicino Oriente tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, che coinvolse con intensità diversa le culture dei tre monoteismi. Gli storici parlano, al riguardo, di «demonizzazione del mondo». Espressione un po’ sinistra, e tuttavia efficace nel significare la concomitante recrudescenza, forse l’ibridazione o il singolare polifonismo, dei fenomeni di possessione, peraltro presenti in tutte le epoche e a ogni latitudine. Cambiavano gli agenti di intrusione nel corpo dei vivi – il Diavolo per i cristiani, o gli spiriti dei defunti che gli ebrei chiamavano dybbuk, o i demoni islamici – e spesso divergevano le interpretazioni del fatto, a seconda che si giudicasse o meno colpevole il posseduto, ma analoghi erano gli scotimenti della carne e i ricorsi a rituali di esorcismo per scacciare il temibile ospite. Nonostante l’abbondanza delle fonti nei singoli ambiti, il peso storiografico degli avvenimenti è rimasto imparagonabile. Mentre la stregoneria, con i suoi dispositivi giudiziari e i suoi epiloghi cruenti, ha avuto un rilievo indiscutibile negli studi sulla cristianità, finora mancava un libro organico sui posseduti ebrei.
J.H. Chajes provvede magnificamente a colmare la lacuna, in un saggio di antropologia storica ricchissimo di testimonianze da una letteratura sommersa, portata per la prima volta alla luce.
«Con il potere della nostra intelligenza è difficile capire come lo spirito di una persona morta possa agire in un altro corpo vivente e usarne tutte le membra e i sensi. In verità pare che sia una delle meraviglie del nostro tempo, eccezionalmente bizzarra»: così rifletteva nel 1586 un talmudista che aveva trattato un caso a Ferrara, riuscendo a farsi dire dallo spirito quanto fosse grande (circa un uovo di gallina) e in quale parte della giovane vittima giacesse (tra le costole e i lombi). I risvolti mistico-magici della possessione agitavano le comunità ebraiche da Praga ad Amsterdam, fino in Galilea, dove a Safed, dalla forte componente sefardita, era normale che i morti arruolassero i vivi. Attraverso la visionaria compenetrazione di mondo e oltremondo, gli inizi della modernità si popolarono dunque di anime trasmigranti e infestanti che confermavano l’esistenza dell’aldilà. Di questo baluardo eretto contro l’incipiente incredulità Chajes offre un quadro vivido, destinato a rivaleggiare con i classici sul demonismo cristiano.
[dalla quarta di copertina]

martedì 21 dicembre 2010

Beni archeologici: arriva la rivista "aperta" a tutti

Beni archeologici: arriva la rivista "aperta" a tutti
LIBERO – 12 dicembre 2010

Sarà presentata lunedì 20 dicembre presso la sala della Crociera, in via del Collegio Romano 27, la guida al patrimonio artistico ed etnoantropologico "Nel Lazio". Ad inaugurare questo nuovo progetto sarà Anna Imponente, soprintendente per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici della Regione Lazio, alla presenza della Presidente della Regione, Renata Polverini, il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Maria Giro, il direttore generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, Antonia Pasqua Recchia, il Direttore della Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte Maria Concetta Petrollo Pagliarani, il professore ordinario di Storia dell'Arte Moderna della Sapienza Università di Roma, Alessandro Zuccari e il giornalista e scrittore Andrea Caterini. La rivista nasce come strumento d'incontro tra istituzione e territorio, per far conoscere a un vasto pubblico, non solo di specialisti del settore, ma anche di amatori e turisti curiosi, gli interventi effettuati su un'ampia gamma di beni archeologici nel Lazio. La pubblicazione, composta di 138 pagine, si articola in diverse sezioni che illustrano il compito istituzionale di tutela alla promozione del territorio attraverso inediti, scoperte e riscoperte, nonchè interventi di restauro.

mercoledì 8 dicembre 2010

Eros e civiltà (e trasgressione...) in tre millenni di storia umana

l’Unità 8.12.10
Riscoperte
Da Creta all’India nel nuovo libro del Nobel un viaggio straordinario
Eros e civiltà (e trasgressione...) in tre millenni di storia umana
Escort e lap dance? No grazie Quando l’osceno era sacro
In libreria «L’osceno è sacro» di Dario Fo (a cura di Franca Rame, Guanda, pp.293, euro 20). L’osceno non quotidiano, l’osceno catartico: ecco un libro che ci fa riflettere davvero sulla trivialità. Di ieri e di oggi.
di Gaia Manzini

Anni luce dal bunga bunga, lustri da escort e accompagnatrici, dalla lap dance e sex and the city, dall’età di lulù e dalla depilazione brasiliana, prima dei cento colpi di spazzola (e prima pure delle spazzole), esisteva tutto un esercito di tòpole, che l’immaginario voleva gaudenti, più rubacuori, rubiconde e rubizze, di una rubi qualsiasi.
Già, perché nella tradizione popolare il sesso femminile impazza che è una bellezza dall’Alto al Basso Medioevo: la parpàja (farfalla), il mügnaghìn (albicocchina), la ciumachèlla, la pèrsega (pesca), la ciùccia, la cumachèna, lo sticchiu, il coño, la móna, la fessa, la muscarella (il muschio), il brolo tenerin de dolzo parfùmo (ma qui solo come «auto definizione»). Tutta una storia di trivio e giullarate, che Fo richiama a memoria per riabilitare l’osceno come tale, nella sua funzione giocosa e vitale, parte (ma, attenzione, solo parte) della cultura di un popolo.
Osceno che non è all’ordine del giorno (se no che osceno sarebbe?). Osceno che è e vuole essere osceno, per liberare da vizio e perversione. Osceno catartico, dunque sacro.
E, allora, ecco che non mancano all’appello miti greci ed etruschi, riletture apuleiane e cretesi giochi rituali. E poi, conte popolari che con bretoniano surrealismo mettono in scena sticchi parlanti e dotati di vita propria, che espongono le loro lamentazioni per l’onore calpestato e la dignità vilipesa, direttamente al Padreterno. Oppure storie di fanciulle siciliane violate e di satiri bavosi, che perseguono l’impunità grazie a la defénsa, la legge promulgata a loro favore da Federico II, come racconta Cielo d’Alcamo. Nobiluomini, che con le braghe ancora calate, potevano estrarre duemila augustari, gettarli sulla violata a mo’ di risarcimento e scampare così il carcere e il tribunale. Storie che ricordano pericolosamente tanti fabulazzi odierni, di quelli che fioriscono rigogliosi tra le pagine dei giornali, tra menzogne e agnizioni, finzioni e stratagemmi che manco Plauto...
LA PARPÀJA DIMENTICATA
Poi, storie dell’XI secolo, come quella di Alessia, la donna che non vuole concedersi allo sposo, Giavàn Petro, tonto e poco virile, e inventa che la sua parpàja è stata dimenticata alla casa paterna. Storie di falloforie e fanciulle gaudenti che cavalcano tori con mosse circensi. Storie sacre di ceri da chiesa che evocano altro, e che la tradizione popolare porta in processione e simbolica corsa verso anfore, che dicono di vita e fertilità. Storie desunte e rielaborate da Le mille e una notte. Infine, storie trecentesche di falli falliti, come quello di Bellomo. Falli che mettono in imbarazzo per la loro ingordigia e prontezza di riflessi, e allora, per un incantesimo, cadono insieme ai loro attributi, e così, tutti scissi l’un dall’altro, con personalità precise e a tutto tondo, falli, ammennicoli e «cavalieri sfallati (immagine da augurarsi profetica per l’oggi della nostra storia politica) diventano un’ottima compagnia di giro. Comici che neanche allo Zelig.
Come da copertina, gli splendidi bassorilievi indiani di Khajurhao, nel Madhya Pradesh, rappresentano pratiche erotiche e formosità femminili dalle avvenenti proporzioni. Eppure non c’è nulla di volgare. Nonostante le guide della città attirino i turisti con slogan di basso livello, «The most exciting tour in your life», una volta arrivati si assiste a uno spettacolo di pura e autentica bellezza. L’osceno, dunque, serve a trascendere se stesso e a restituire all’oggetto in questione piena dignità. Ma un problema rimane: se il triviale è parte della cultura d’un popolo, che dire quando (come capita dalle nostre parti) il triviale diventa la cultura di un popolo? Forse la ripetizione continua, la duplicazione arbitraria di fatti osceni e volgari, deve averci ormai anestetizzati alla trivialità... be’ allora, chiedo a Fo, cosa dovremmo fare? Ormai che i giochi sono fatti, a quale osceno sacro possiamo votarci?

martedì 23 novembre 2010

Giappone, il pianeta dell’eros

l’Unità 20.11.10
Giappone, il pianeta dell’eros
Storia del piacere Phaidon pubblica un magnifico volume curato dallo studioso d’arte orientale Gian Carlo Calza: un vertiginoso mare d’immagini firmate dai maestri Utamaro e Hokusai. Pornografia o trionfo della natura?
di Giuseppe Montesano

Il titolo del libro è musicale e evocativo, come i fiori di peonia che sbocciano negli haiku del poeta Basho e nei dipinti di seta che decorano la vita del Principe Genji, e gli autori delle stampe che cantano i misteri sessuali nascosti e rivelati dai paraventi delle camere da letto sono pittori straordinari e raffinati tra i quali ci sono Utamaro e Hokusai: ma le stampe erotiche che formano Il canto del guanciale, uno straordinario volume curato da Gian Carlo Calza e pubblicato dalla Phaidon con 462 pagine tutte illustrate a colori, sono esplicite fino al grottesco e al fantastico. Molte delle stampe del libro del guanciale si spingono sull’orlo di quel vuoto che chiamiamo pornografia e quasi ci cadono, altre danzano su quell’orlo con una voluttà insieme fragilmente algida e ironicamente libera, inquietando lo sguardo occidentale. Se la pornografia sta nell’evidenza del dettaglio isolato dal contesto, allora molte di queste stampe sarebbero pornografiche e non erotiche: i dettagli non sono risparmiati, con lo scopo di attirare chi guarda nelle spirali dell’eccitazione. Ma il dettaglio dei sessi e delle posizioni erotiche è colto in ritardo dallo sguardo, come un panorama nella nebbia: un turbinare di linee che si intricano sinuose, di colori di kimono slacciati a metà e paraventi trasparenti ipnotizza l’occhio, lo devia dal dettaglio fisiologico, lo allontana dalla fissità a cui la pornografia chiede il suo unico cibo, lo travolge e lo fa galleggiare trasportandolo nelle volute delle onde di Hokusai che diventano abiti femminili o maschili, e lo lascia cadere nelle maree sessuali del mondo fluttuante.
CREPACCI E VALLATE
Scene esplicite di amori e congiungimenti sono invase da rami di pesco che entrano dalle finestre o sono dipinti sui muri di carta, gli allacciamenti visti in ogni particolare e in posizioni non di rado impossibili o come minimo difficoltose sono sommerse da piogge di stoffe ricoperte da petali, ghirigori, curve e ondulazioni, curve e ondulazioni che sembrano proseguire nelle curve dei corpi, i corpi che si distinguono dai paraventi e dalle vesti solo perché non sono colorati ma pallidamente lunari o carnalmente rosati; e quando l’occhio del pittore che lavora per i voyeurs che frequentavano le case di piacere di Edo, di Kyoto, di Osaka, si incanta sugli organi sessuali, li disegna in maniera da renderli iperreali e, soprattutto, affini a quel mondo di rami di ciliegio, fiori e stoffe di seta: i luoghi della sessualità fioriscono come crepacci e vallate, si ergono come tronchi di foreste preistoriche e bizzarre, germogliano di petali che sembrano lacrime di pioggia o gocce di rugiada, fanno spuntare fili d’erba che si arricciolano e si incurvano come fiori liberty. Se si ritagliassero gli organi sessuali ritratti nel Canto del guanciale e li si separasse dai corpi, essi apparirebbero come paesaggi naturali, anamorfosi alla Arcimboldo o alla Dalì, visioni e sogni arrivati dall’eros rimosso. I pittori del mondo narrato da Ihara Saikaku nella Vita di un libertino, nelle Cinque donne amorose o nel Grande specchio dell’omosessualità maschile, non smettevano di praticare la loro arte anche quando erano chiamati a fornire un servizio ai gaudenti che frequentavano le case galleggianti dove il piacere veniva venduto da cortigiane arrivate ai vertici dell’eleganza. Cortigiane capaci di improvvisare delicati haiku sulle stagioni, donne che potevano permettersi di rifiutare i clienti se li trovavano arroganti o cafoni, e che vivevano a stretto contatto con il teatro Kabuki, facendo del piacere una rappresentazione artistica, il teatro sempre uguale e sempre diverso dell’erotismo. Dietro lo spumeggiare del «mondo fluttuante», che valutava la vita per l’attimo di piacere che l’ebbrezza amorosa sa dare e conosceva fino alla feccia la fragilità dell’attimo che se ne va, c’era il mondo orrendo dello sfruttamento della prostituzione che arrivava a esporre le donne in gabbia: ma quello che Hokusai, Utamaro e gli altri artisti cantarono non fu il mondo reale, fu un sogno. La festa che questi Watteau e Boucher senza veli riuscirono a esprimere nelle loro stampe più riuscite e meno mercantili fu il perenne desiderio della partenza per l’isola felice, l’imbarco per Citera che sospende l’orrore della vita con il piacere, l’invito al viaggio verso il luogo dove «tutto è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà»: ma quel mondo non poteva essere detto nella raffigurazione esplicita, che è sempre pornografica, e loro tentarono di trasformarlo come la musica trasforma un tema. Questa lezione non andò dispersa, arrivò a VanGogh e a Klimt, a Klinea Wols a Mathieu e oltre: quello che si dissipò e svanì fu il fluttuante sogno del piacere senza fine, ma quello svanisce sempre.

sabato 13 novembre 2010

Ateismo, materialismo, rivoluzione Michel Onfray pasdaran dei Lumi

Corriere della Sera 29.10.10
Ateismo, materialismo, rivoluzione Michel Onfray pasdaran dei Lumi
«Voltaire e Kant ipocriti bigotti. Meglio Meslier, d’Holbach, Sade»
di Pierluigi Panza

Ai radicalismi che si fronteggiano su scala planetaria dall’inizio del secolo (religiosi, etnici, economici), il filosofo francese anti-salotto buono parigino, Michel Onfray, ne vuole aggiungere un altro: l’Illuminismo radicale. È una posizione che rivendica come caratteristica dell’Europa nel saggio Illuminismo estremo (traduzione di Gregorio de Paola, Ponte alle Grazie, pp. 302, €20)
e che si fonda su almeno quattro aspetti: un marcato e netto ateismo; il riconoscimento del fondamento materialistico e meccanicistico delle cose e degli esseri viventi; la libertà di espressione per ogni forma di piaceri e l’elemento rivoluzionario come azione politica — essendo la rivoluzione francese l’atto caratterizzante l’Europa moderna.
Onfray è un coraggioso filosofo antiaccademico di estrazione popolare, ma che scrive davvero troppi libri perché siano tutti «importanti»: nel suo precedente a questo — una severa critica a Sigmund Freud fondata sul confronto tra pensiero e biografia — si è attirato numerose critiche dall’establishment dei maîtres à penser transalpini, i quali si sono dimenticati nell’occasione che pure il «guru» Michel Foucault era arrivato a interpretare il pensiero di Freud come estrema eredità del pensiero cattolico.
Forse sarà così anche questa volta, visto che Onfray — pur non invitando gli illuministi radicali a fare guerriglia o attentati nelle strade in nome della Ragione — mette sotto accusa i «padri nobili» dei Lumi: Diderot, d’Alembert, Voltaire e Kant. I quali sono colpevoli di insufficiente radicalismo, più spesso di ipocrisia, come minimo di non aver saputo tagliare i legami con il deismo e la religione o di esser stati quello che oggi si direbbe «politicamente scorretti». Dunque, gli avversari dello sviluppo dei Lumi non sarebbero stati solo gli ultimi occultisti alla Cagliostro, i mesmeristi che guarivano con la calamita, i frenologi che studiavano il bernoccolo della matematica, i seguaci della fisiognomica come Johann Kaspar Lavater o i settari e i dogmatici rifugiati nelle confraternite. No, anche loro, i Kant e i Voltaire, alla fin fine, lasciarono prosperare le due ossessioni di Onfray: il cattolicesimo e le monarchie.
Su che basi giunge a queste condanne? Come per Freud, Onfray procede mostrando la discrasia tra pensiero e comportamento individuale (popolarmente si direbbe «predicano bene e razzolano male»), ovvero comparando teoresi e buco della serratura — o quasi. Diderot è «assai acuto sui popoli dell’altro capo del mondo nel suo Supplemento al viaggio di Bougainville, ma un po’ meno eloquente quando incassa i benefici del suo capitale impegnato nella tratta dei negri». Stessa osservazione per Condorcet: «Pronto a condannare la schiavitù nelle Riflessioni sulla schiavitù dei negri, ma anche a chiedere una moratoria di ottant’anni per non danneggiare i proprietari». Quanto a Kant, la colpa è quella di aver classificato «le donne nella casella dei minorenni di fatto». Accuse anche al naturalista Buffon per l’affermazione che «i negri puzzano di porro» e a Montesquieu perché «difende la pena di morte».
Non si salva nessuno? Europa, ancora una volta, con il capo cosparso di cenere? No; si salvano gli ultrà dei Lumi, che rispondono ai quattro requisiti sopra enunciati. Sono: La Mettrie, Meslier, Helvétius, d’Holbach e il marchese de Sade.
Quello di Onfray è più un coraggioso manifesto per l’oggi che una controstoria. È vero che la storia delle idee si fa con «gli occhi del presente», e che qualsiasi storia è interpretazione; ma qui la volontà di non calare il pensiero nell’epoca della sua formulazione appare troppo evidente per parlare di «storia».
Lo registrano anche due osservatori italiani. L’epistemologo Giulio Giorello ritiene infatti che Onfray sia «un po’ offuscato da ossessioni personali, come fare i conti con il cristianesimo», e che la sua sia «un’utile provocazione intellettuale che dà voce al materialismo radicale di d’Holbach o Le Mettrie». Ma — e questa è una critica anche di altri — «non vorrei che si sostituisse l’idea di filosofia come ricerca di Dio, con la tesi opposta», dice Giorello. «Voltaire è un deista e ritiene necessaria una religione civile, ma smonta con ironia ogni fanatismo. Diderot ha sarcasmo; dire che possedeva degli schiavi è un gioco vecchio. Anche Thomas Jefferson e George Washington erano teisti e schiavisti: ma ciò toglie veridicità alla dichiarazione che tutti gli uomini sono nati liberi? Direi di no. Toglie valore all’esperimento democratico di Washington?». Il caso de Sade, poi, è curioso. In un libretto dove tracciava l’elogio di Charlotte Corday, l’assassina di Marat, Onfray esaltava la donna e stigmatizzava de Sade. «Sono contento — conclude Giorello — che ora lo rivaluti; Charlotte ammazzava e Sade no. Il marchese si esprime contro la pena di morte, nella sua Filosofia nel boudoir presenta un’idea di Stato minimo e dice che la rivoluzione non deve essere imposta. Se vale esportare la rivoluzione, come vorrebbe Onfray, allora vale anche esportare la democrazia! A Sade avrebbe fatto orrore la guerra in Iraq; a Onfray non so».
Per il filosofo cattolico Giovanni Reale, poi, Onfray prende proprio l’Illuminismo dalla parte sbagliata. «L’Illuminismo ha avuto una validità fondamentale, ma il suo nucleo pericoloso è proprio l’estremismo integralista, il radicalismo della Ragione che diventa dea al posto di Dio. L’Europa non è nata con l’Illuminismo, come pensano i neoilluministi anche di Bruxelles; ma con la cristianità. L’errore che compie l’Illuminismo radicale è negare la portata conoscitiva della fede. Persino epistemologi come Thomas Kuhn hanno mostrato che i passaggi di paradigmi scientifici avvengono per atti di fede». E conclude: «L’Illuminismo che combatte l’integralismo religioso non è un buon Illuminismo se diventa, a sua volta, integralista, come è Onfray».
L’Illuminismo dovrebbe presentarsi come anticorpo al radicalismo. «Senza ignorare», come scriveva Edgar Morin, «le ombre della Ragione». E senza trasformarsi in «contro-prassi», come si diceva ai tempi della Scuola di Francoforte. Visto che già Horkheimer e Adorno, con Dialettica dell’Illuminismo (1947), avevano mostrato i limiti e i rivolgimenti di una ragione radicale che diventa il suo opposto: la meccanizzazione che porta allo smog, la promozione che conduce alla sudditanza pubblicitaria… Se in Onfray va apprezzata la radicale guerra a ogni ipocrisia e a ogni falsa coscienza (e ce n’è bisogno), va però evidenziata anche l’ingenuità filosofica nel ritenere che il «pensiero» davvero possa partire da una tabula rasa e procedere senza «pre-giudizi».

mercoledì 3 novembre 2010

Lo sterco del diavolo abita in Vaticano

il Fatto 30.10.10
Lo sterco del diavolo abita in Vaticano
di Riccardo Chiaberge

Nell’Europa del Medioevo non esistevano leggi anti-riciclaggio, ma l’Inferno funzionava molto meglio di adesso e il girone degli usurai era affollato di buoni finanzieri cristiani come Ettore Gotti TedeschiFenus pecuniae, funus est animae, “il profitto del denaro è la morte dell’anima”, aveva ammonito a suo tempo papa Leone MagnoChi presta soldi in cambio di interessi, si legge in un manoscritto anonimo del Duecento, commette un peccato gravissimo contro la natura, “pretendendo di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo”E nel suo manuale per confessori il vescovo inglese Tommaso di Cobham rincara la dose: “L’usuraio punta a guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore che ha detto: ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane’”.
SE LA CHIESA medievale divide la società in tre classi, uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori, il predicatore francese Giacomo di Vitry ne aggiunge una quarta: i professionisti dell’usura“Essi non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma quello dei diavoliLa quantità di denaro che hanno guadagnato con l’usura corrisponde alla quantità di legna inviata agli Inferi per bruciarli”.
Chissà quanta legna sarebbe necessaria per un Madoff o un TanziCerto, le fiamme eterne per gli strozzini erano di ben scarsa consolazione per le loro vittime, che non potendo contare sulla giustizia degli uomini dovevano affidarsi a quella del PadreternoTalvolta, però, la punizione arrivava in anticipo: si racconta di ricchi prestasoldi privati dell’uso della parola in punto di morte, in modo da non potersi confessare (ma forse si avvalevano della facoltà di non rispondere al sacerdote), o colpiti da infarto senza avere il tempo di pentirsiE un domenicano di Lione narra un episodio spettacolare: “Nell’anno del signore 1240, a Digione, un usuraio volle celebrare le sue nozze con grande sfarzo..Mentre i due promessi sposi felici stavano per entrare in chiesa accadde che una statua di pietra raffigurante un usuraio trascinato all’Inferno dal Diavolo si staccò e cadde con tanto di borsa sulla testa dell’usuraio in carne e ossa, uccidendolo”Tornando al succitato Gotti Tedeschi, attuale capo dello Ior, paragonarlo agli usurai del XIII secolo sarebbe ridicolo prima che ingiustoMa la storia millenaria della Chiesa e del suo rapporto tormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà dei nostri tempiLo stesso giorno in cui il Tribunale del riesame di Roma confermava il sequestro di 23 milioni di euro a carico della banca vaticana per certe movimentazioni sospette, il presidente interveniva a un convegno su etica e finanza promosso dall’Osservatore Romano e puntualmente ripreso dal laico Sole 24 OreE parafrasando il famoso passo del Vangelo di Marco sul cammello e la cruna dell’ago, si lanciava in un’ardita ipotesi teologica: “Il ricco, per entrare nel regno dei cieli deve diventare ancora più ricco, perché se la ricchezza non viene creata il rischio è poi di distribuire la povertà”Anche se la ricchezza è frutto di speculazione, o peggio di frodi ai danni dei risparmiatori? Anche quando la gobba del cammello è gonfia di titoli tossici o di conti correnti intestati a prestanome?
COME RICORDA il grande medievista Jacques Le Goff nel suo Lo sterco del diavoloIl denaro nel Medioevo (Laterza, pagg220, euro 18,00), l’unico modo di evitare l’Inferno, per un usuraio, era la restituzione del maltoltoCosa che non avveniva di frequente, malgrado i fulmini del clero: come diceva re Luigi IX il santo, “è una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli è così arduo che la sola pronuncia della parola rende strozza la gola a causa delle r che contiene, le quali rappresentano i rastrelli del demonio che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di restituire i beni altr ui”Poi con lo sviluppo dei commerci, l’aumento della circolazione monetaria e la crescita dell’indebitamento anche il mondo ultraterreno ebbe bisogno di ampliamenti, sicché fu istituito il Purgatorio, dove pure speculatori e strozzini avevano una chance di redenzioneUn regime di carcere meno duro, con possibilità di riduzione della pena per buona condottaI più abili e meritevoli riescono a strappare un Lodo ad personam e vanno dritti in Paradiso senza fare anticameraBasta qualche opera di bene o un oratorio dedicato alla VergineTipico il caso degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani del XIII secoloDante schiaffa il padre, Rainaldo, nel girone degli usurai, ma il figlio Enrico, che consolida il business di famiglia, espia la propria opulenza con un gesto esemplare di caritas: investe un mucchio di quattrini in una cappella affrescata da Giotto, raccomandando che il ciclo dei vizi e delle virtù non appaia punitivo verso la sua categoriaCome biasimarlo? Dopotutto, gli Scrovegni del Duemila non lasciano all’umanità chiese affrescate, ma ville ad Antigua e si comprano la benevolenza del clero vietando le unioni gay.
Peraltro è difficile mandare all’inferno i mercanti se ci si mostra più avidi di loroOltre a dover venire a patti con le leggi dell’economia, fin dal Medioevo la Chiesa diventa essa stessa una potenza
economica che ha sempre più fame di “pecunia” È ancora Le Goff a ricordarci che fu il trasferimento ad Avignone, agli inizi del Trecento, a far impennare le spese della Santa SedeSale il numero dei dignitari della corte (tra 400 e 500, un centinaio in più rispetto all’ultimo papa romano, Bonifacio VIII) e Clemente V arriva a spendere ben 120 mila fiorini all’anno, di cui 30 mila solo “per la gestione domestica del suo palazzo tra stipendi, cibo, cera, legna, bucato, fieno, mantenimento dei cavalli ed elemosine”E le entrate? A parte le somme che vescovi e abati devono pagare al momento della nomina, il grosso proviene dai “censi” corrisposti dal re di Napoli e da altri signori italiani e dall’obolo di San Pietro versato dai regni scandinavi“ Tutte queste imposte – osserva lo storico – vengono saldate di malavoglia dai debitori nonostante il frequente ricorso alla scomunica”Per forza: sai che gusto foraggiare dei papi che pensano solo a costruire palazzi sontuosi e ad armare eserciti per difendere le loro terreIl fisco pontificio è una sanguisuga che ricorre a ogni mezzo per rimpinguarsi, inclusa la Peste nera che si abbatte sull’Europa dal 1348: “I benefici di molti titolari morti durante l’epidemia – ricorda Le Goff – vanno ad alimentare direttamente le finanze della Chiesa”E quando non sanno a cosa appigliarsi, tirano in ballo la lotta alle eresie, spauracchio sempre buono per giustificare confische, procure e gabelleE poi ci lamentiamo dell’otto per mille e dell’esenzione dall’Ici...
OGGI BENEDETTO XVI
tuona giustamente contro il potere distruttore dei “capitali anonimi che pongono l’uomo in schiavitù” e predica l’avvento di un “mercato buono”, una specie di non profit universale che ricongiunga le sfere della giustizia e della carità Ma il suo messaggio perde credibilità se la finanza vaticana, lo Ior o la Propaganda Fide si comportano con la stessa cupidigia e scarsa trasparenza dei capitalisti senza DioCome scrive Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia-Bovino, in un suo coraggioso libello (Per riformare la Chiesa, edizioni lLa Meridiana, pagg76, euro 12,00), “la povertà è per la Chiesa un discorso teologico prima che sociologico”Dopo la fine dell’alleanza trono-altare la Chiesa cattolica non ha ritrovato la strada del Vangelo e oggi, “nella opulenta società dell’Occidente aiuta i poveri, ma resta quasi impermeabile alla scelta della povertà per se stessaIl culto a Dio giustifica il barocchismo di vesti liturgiche e di insegne episcopaliLa necessità di sostenere opere pastorali spinge a servirsi dei meccanismi della finanza moderna”A rischio di incappare nelle maglie della giustizia come i tanti peccatori in doppiopetto che maneggiano troppo disinvoltamente lo “sterco del diavolo”.

mercoledì 6 ottobre 2010

Pubblicato il Dizionario storico dell’Inquisizione

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 5.10.10
Prosperi, mille pagine di Inquisizione
Domani il grande storico apre la rassegna di Anna Benedetti
di Edoardo Semmola

Elegante, con fare spavaldo, un fazzoletto di batista appuntato sul vestito chiaro. Pietro Carnesecchi si avvia verso il patibolo, parole sue, «vestito da carnevale per il grande disprezzo».
Disprezzo per l’Inquisizione che lo aveva condannato a morte per aver abbracciato, come Michelangelo prima di lui, le teorie di riforma morale della Chiesa di Juan de Valdés. Sono passati appena 20 anni dall’istituzione della Santa Inquisizione Romana e Firenze non ha perso tempo. La prima e più illustre vittima è proprio l’«eretico» Carnesecchi, uno dei maggiori intellettuali del tempo, valdesiano giustiziato nel 1567. Siamo a pagina 312 del Dizionario storico dell’Inquisizione (Edizioni della Normale) del grande storico Adriano Prosperi che domani (ore 17.30 alla Biblioteca delle Oblate) apre la nuova stagione di «Leggere per non dimenticare», la rassegna letteraria di Anna Benedetti.
Quattro volumi, 1084 pagine ricche di voci su personaggi, istituti, processi, teorie, da Dante al 1965, anno della nascita della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un enorme lavoro di compilazione che ha avuto dodici anni di gestazione. Una storia europea nella quale Firenze e la Toscana giocano un ruolo importante. A cominciare da Carnesecchi. E proseguendo quasi un secolo dopo quando, racconta il professore, «viene denunciato un gruppo di nobili delle maggiori famiglie: Capponi, Ricasoli, Acciaioli, Anselmi, Grifoni, Cardinali, sorpresi durante una partita a carte a bestemmiare (in caso di mano sfortunata). Tra loro c’è anche Alessandro de’ Medici che fu accusato di urlare: ‘‘Cristo ti desgrado che mi fai perdere…’’». La prosecuzione della frase di Alessandro non è pubblicabile neanche ai giorni nostri. Il caso dell’infausta partita fu però insabbiato e la giustizia romana non riuscì ad avere la meglio «sulla solidarietà di classe tra le famiglie di maggiori potere del granducato — sorride Prosperi — L’incartamento fu insabbiato». In Toscana si contano tre tribunali dell’Inquisizione: «Uno a Firenze, uno Pisa, e uno Siena, poi aprì anche a Volterra. Ma l’archivio di Volterra è tuttora chiuso, si sono sempre rifiutati di aprirlo». Lucca fa storia a sé perché era una città storicamente «piena di eretici, perché calvinisti, e si è sempre opposta all’ipotesi di ospitare l’Inquisizione istituendo però un tribunale sopra la religione che non era ecclesiastico ma secolare. Anche lì furono mandati streghe ed eretici a morte, ma è passato alla storia per essere un tribunale dalla mano molto più morbida degli altri». Firenze è stata però una delle prime città a disfarsi dell’Inquisizione, sull’onda delle idee illuministiche, nel 1782. Ma non fu compito facile per i Lorena che dovettero combattere una dura battaglia politica con Roma. «La polemica tra Firenze e Roma durò a lungo e si concluse con un concordato scaturito dopo alcuni processi clamorosi, i primi contro la massoneria, tra cui quello a Tommaso Crudeli nel 1739. Significativo per avviare questo lento processo fu anche il delicato caso della monaca Francesca Fabroni nel tardo Seicento: condannata dopo morta, disseppellita ( dal chiostro di Santa Croce) e processata, il suo cadavere fu dato alle fiamme».
Il concordato venne stipulato nel 1754 e il Granducato riuscì ad imporre «un modello di giustizia religiosa in stile veneziano: l’unico in cui l’inquisitore ecclesiastico veniva affiancato da tre assistenti laici». Ma sia nel periodo di maggiore efficienza persecutoria, sia nelle fasi di gelo dei rapporti tra Arno e Tevere, «la peculiarità toscana— conclude l’autore— è sempre stata quella di una forte contiguità tra potere laico e potere ecclesiastico, non a caso è dalle grandi famiglie toscane che provengono tanti papi».

mercoledì 30 giugno 2010

Il saggio: 17 pedofili, 10 incestuosi, 9 stupratori E poi sposati, travestiti, sadici... La doppia morale vaticana e le strane storie dei Pontefici

l’Unità 30.6.10
«Sesso ma segreto sotto l’ombra del Vaticano»
La chiesa cattolica. È l’unica a considerare il sesso proibito, accettabile solo per la procreazione. E dunque è un peccatore che lo fa per piacere
Il saggio: 17 pedofili, 10 incestuosi, 9 stupratori E poi sposati, travestiti, sadici... La doppia morale vaticana e le strane storie dei Pontefici
Intervista a Eric Frattini

Diciassette papi pedofili, dieci incestuosi, dieci ruffiani, nove stupratori. E poi ancora pontefici sposati, omosessua-
li, travestiti, concubinari, sadici, masochisti, voyeur. Nei giorni in cui la moralità della chiesa è messa sempre più spesso in discussione per i continui scandali, ci pensa lo scrittore e professore Eric Frattini ad illustrarci come, in fondo, la sua storia non sia mai stata immacolata.
Pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, dai primi versi della Bibbia a Benedetto XVI, nella documentatissima inchiesta «I papi e il sesso» (Ponte alle Grazie editore) sfilano gli indicibili vizi passati all’ombra del Vaticano. Sottaciuti e nascosti, «non c’era Internet dice Frattini ora la Chiesa non può far finta di niente, il Papa ha dovuto condannare pubblicamente la pedofilia ma da cardinale non si comportò in maniera altrettanto esemplare. Lo trovo più efficace con la corruzione, Sepe lo ha allontanato subito».
Che ne pensa dello scandalo pedofilia che ha coinvolto la chiesa negli ultimi mesi? Pensa che il Pontefice stia facendo il possibile?
«Io distinguo il cardinale Ratzinger da papa Benedetto XVI. Riguardo al Belgio, la mia opinione è che gli investigatori si siano mossi come elefanti in una cristalleria. Ma ridicole sono anche le reazioni della Chiesa. Per quanto riguarda la pedofilia dobbiamo ricordare che Giovanni XXIII ha scritto un documento su come nascondere gli abusi sui minori, Giovanni Paolo II ha mantenuto questo approccio e Ratzinger ha aggiunto un allegato nel quale si descrivevano i pederasti non come delinquenti ma come peccatori e questo ha fatto si che aumentasse la “congiura del silenzio”. Non credo alla lettera che ha scritto Papa Benedetto XVI ai prelati d’Irlanda, sono solo intenti. Lo scandalo è scoppiato perché adesso la chiesa si deve confrontare con i nuovi mezzi di comunicazione di massa, con internet. Il Vaticano non poteva più far finta di niente. Quindi il pontefice ha dovuto condannare pedofilia e corruzione. Pensiamo al cardinale Sepe: era uno dei pilastri di Wojtyla ma appena son circolate le voci Ratzinger lo ha mandato a Napoli, un piccolo passo però rivoluzionario»
Nel suo libro scrive: «Nessuna religione al mondo ha mai dibattuto tanto l’intimità sessuale come il cattolicesimo e nessuna ha mai imposto tanto dettagliatamente i suoi codici di comportamento: ancora oggi tolleranza zero verso le copie di fatto, l’aborto, la fecondazione assistita, la contraccezione». Esiste una “doppia morale” nella Chiesa?
«Sicuramente c’è un’ipocrisia di fondo. C’è molto di Dottor Jekyll e Mister Hyde. C’è una morale che parte dalle mura di San Pietro e va verso la piazza, ai fedeli, e una e una che parte dalla basilica e va verso l’interno. La chiesa cattolica in che secolo vive? Me lo chiedo quando alcuni alti prelati paragonano l’omosessualità alla pedofilia o quando insistono nel vietare l’uso del preservativo, mentalità da XVIII o XVII secolo».
Ma questo atteggiamento della Chiesa cattolica è originato forse da una sorta di paura del sesso? «Se ci pensiamo bene la chiesa cattolica è l’unica organizzazione a livello mondiale a considerare il sesso come qualcosa di proibito, da effettuare solo a scopo della procreazione e dunque ritiene chi pratica il sesso solo per piacere un peccatore. Un altro elemento a mio avviso importante è il celibato; se c’è qualcosa che ho imparato scrivendo questo libro è che il vero cancro della chiesa è il celibato. Se ci fosse stato in passato un papa che lo avesse eliminato non si sarebbe arrivati oggi alla situazione di pedofilia che tanto deploriamo, basta confrontarsi con le altre religioni» I suoi precedenti libri sulla chiesa in passato hanno suscitato vibranti polemiche. Si aspetta attacchi anche per questo saggio?
«Scommetto tutto quello che posso che non ci sarà nessuna reazione su questo saggio, come è successo per “L’Entità» (la precedente inchiesta sui servizi segreti del Vaticano, uscita per Fazi lo scorso anno, ndr). Invece l’Opus Dei ha protestato per un mio romanzo, «Il labirinto sull’acqua», attaccandomi violentemente. Raccontavo che forse Pietro non era poi così fantastico mentre Giuda non era così malvagio... non ho mai venduto tanti libri, stavo per dire “grazie a dio”, ma dovrei dire “grazie all’Opus Dei”».

martedì 22 giugno 2010

«Coraggioso e senza peli sulla lingua. Come lui ce ne sono davvero pochi»

L’Unità 19.6.10
Intervista a Vincenzo Consolo «Coraggioso e senza peli sulla lingua. Come lui ce ne sono davvero pochi»
Lo scrittore siciliano «Insieme visitammo la Striscia di Gaza, ma parlò apertamente di crimine contro l’umanità e i suoi libri furono ritirati»
di Roberto Carnero

Con Saramago perdiamo un autore di alta letteratura e di profondo impegno civile». In questo binomio – qualità letteraria coniugata con un’attenzione sempre vigile alla realtà circostante – uno dei più importanti autori italiani, Vincenzo Consolo, individua la peculiarità del lavoro di José Saramago. E ricorda un rapporto di amicizia quasi trentennale con lo scrittore portoghese, che conobbe all’inizio degli anni ’80 in Sicilia, la terra d’origine di Consolo. In che occasione ha conosciuto Saramago?
«Fu a un convegno letterario organizzato a Catania, al quale ricordo che parteciò anche Leonardo Sciascia. In quell’occasione feci da cicerone a Saramago, che portai a visitare il Convento dei Benedettini, ricordato nei Viceré di Federico De Roberto, un romanzo che Saramago conosceva bene».
Avete avuto modo di incontrarvi altre volte? «Sì, in diverse circostanze. Abbiamo mantenuto un rapporto costante negli anni. Ricordo, in particolare, un viaggio che compimmo nel 2002 con un gruppo di scrittori di diversi Paesi europei, organizzato dall’Unione Europea. Visitammo anche la Striscia di Gaza e nel constatare le terribili condizioni di vita della popolazione palestinese Saramago ebbe una reazione molto forte, pronunciando parole estremamente dure. Pronunciò, cioè, qualcosa di impronunciabile, parlando apertamente di crimine contro l’umanità. La reazione del governo israeliano fu molto determinata: i libri di Saramago vennero immediatamente ritirati dalle librerie». Come ricorda il suo carattere? «Questo era l’uomo: un uomo coraggioso, privo di autocensure, sempre disposto a dire apertamente ciò che pensava. Come prova l’episodio che ho appena rievocato. Non aveva cautele diplomatiche. Era schietto, diretto, a costo di essere fastidioso. Era una persona trasparente. Dotata di una grande capacità di empatia. Era innamoratissimo della sua seconda moglie, con la quale, quando era lontano da casa, passava delle intere mezz’ore al telefono». Come mai era così importante per lui la dimensione dell’impegno civile? «Lo si capisce facilmente se si guarda alla sua provenienza. Lui veniva dal giornalismo, da giovane, durante gli anni della dittatura di Salazar, aveva lavorato nel giornalismo d’opposizione. Pur essendo poi passato alla narrativa, non ha mai dimenticato di essere partito da lì. E ha mantenuto la forma mentis del bravo cronista, del giornalista d’inchiesta».
Quale dei suoi libri le è più caro?
«Sono molte le opere che l’hanno reso grande e che ho amato. Da Memoriale del convento a La zattera di pietra, fino a Storia dell’assedio di Lisbona. Un libro come Cecità è una grande metafora della nostra condizione attuale: una condizione di accecamento generale, specchio del mondo d’oggi».
In particolare in Italia, forse. Non è un caso che Einaudi, una casa editrice del gruppo Mondadori (la cui proprietà è riferibile alla famiglia Berlusconi), si sia rifiutata di pubblicare uno dei suoi ultimi libri, «Il quaderno» (poi edito da Bollati Boringhieri), perché conteneva critiche al nostro Presidente del Consiglio. Ha avuto modo di raccogliere le sue reazioni su questa vicenda?
«No, e devo dire che ho volutamente evitato di farlo. Perché mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti. Autori come Saramago e come Roberto Saviano danno fastidio ai potenti, politici o criminali che siano, perché dicono la verità, spiattellano con candore le tante piccole e grandi scomode verità che spesso facciamo prima a non vedere. O che il potere mediatico ci impedisce di vedere, rincitrullendo e rimbambendo la gente con ore e ore di programmi tv stupidi, superficiali e sostanzialmente vuoti. Ecco perché la perdita di uno scrittore come Saramago è gravissima: perché sono pochi quelli che come lui, in un panorama letterario per molti aspetti desolante, continuano a concepire il lavoro della scrittura in questi termini così ampi». L’altro suo bersaglio polemico, soprattutto negli ultimi anni, era diventato la religione. Da dove derivava questa attenzione al fenomeno religioso? «Anche questa critica alle religioni rivelate si inserisce nella più ampia critica al potere. Saramago attaccava le grandi fedi monoteiste, in particolare il cattolicesimo da cui proveniva per formazione e l’islam nelle sue derive fondamentaliste, a partire da una matrice laica e razionalista. Lo si vede bene anche nel suo ultimo libro, pubblicato poche settimane fa da Feltrinelli, Caino, che è una rilettura della Bibbia fatta in maniera del tutto anticonvenzionale».

lunedì 21 giugno 2010

Addio Saramago, il mondo è cieco senza il tuo sguardo

l’Unità 19.6.10
Addio Saramago, il mondo è cieco senza il tuo sguardo
Fedele alle idee: È sempre rimasto duro, combattivo e comunista
Fedele alla politica: Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar
di Oreste Pivetta

È morto a 87 anni il grande scrittore portoghese, autore di Memoriale del convento e Cecità
Di recente teneva un blog per ritrovare nell’immaginazione compagni d’avventure letterarie
Il manifesto Aveva un’antipatia mai dissimulata per Israele
La sua prosa Maestosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti accompagna

Lo scrittore portoghese e Premio Nobel per la Letteratura è morto all’età di 87 anni a causa di una leucemia cronica nella sua casa di Lanzarote, isola delle Canarie, dove risiedeva dal 1991.
Saramago conobbe momenti di celebrità anche in Italia: quando apparvero i suoi romanzi più belli, come Cecità, quando nel 1998 vinse il Nobel, quando fece intendere che cosa pensava di Berlusconi. Scrivendo di Berlusconi divise il suo pubblico vecchio e possibile, s’attirò accuse pesanti, si guadagnò simpatie estreme. Ormai ottantasettenne. La sua polemica antiberlusconiana sta in un libretto, Il Quaderno, che venne pubblicato da Bollati Boringhieri, dopo che l’Einaudi mondadoriana l’aveva rifiutato. Censura, non si discute. Troppo esplicito il verdetto di condanna nei confronti del nostro presidente del consiglio e dell’italietta pecorona e volgare modellata a sua immagine. Non tutta l’Italia è così e Saramago lo sapeva, altrimenti non avrebbe accettato un viaggio nella piovosissima Torino, per presentare il suo «diario». Che stupiva già per una ragione intrinseca, per il modo con cui era nato, cioè dialogando in un blog: che un vecchio intellettuale famoso, in marcia verso i novant’anni, perdesse il suo tempo dietro un blog potrebbe apparire insolito...
Ho usato l’espressione «in marcia» non a caso, perché al nostro appuntamento me lo vidi, alla lettera, marciare incontro, ritto, elegante in completo grigio, camicia e cravatta (con la bella moglie, assai più giovane, al fianco). Era magro, il viso scavato, calvo, mai stanco di parlare, anche se gli altri tutto attorno trepidavano in ansia per la sua stanchezza. Mi spiegò che il blog era un’invenzione di un cognato. Lui si era prestato volentieri a quel dialogo quotidiano, che gli serviva per ritrovare nell’immaginazione vecchi compagni d’avventure letterarie, per connettere tanti episodi della sua esistenza, per introdurre temi di carattere universale, dalla fame nel mondo al potere delle banche, per polemizzare non risparmiandosi avversari. Perché se, dicendo dell’Italia, il suo bersaglio preferito era Berlusconi, ne aveva pesantemente anche per la nostra sinistra, sbeffeggiata per la sua indolenza in varie pagine, con un angolo riservato al nostro Veltroni, descritto, in modo crudo, fragile di carattere e assai incerto nell’ideologia. A proposito di Berlusconi ne scrisse di peggio. Citiamo: «Con la sua particolarissima opinione sulla ragione d’essere e il significato dell’istituzione democratica,
Berlusconi ha trasformato in pochi anni l’Italia nell’ombra grottesca di un Paese e una grande parte degli italiani in una moltitudine di burattini...».
Francamente non mi sentirei di dissentire, ma ci sarà stato qualcuno che l’avrà tacciato di settarismo e l’avrà accusato di non conoscere la realtà del bel paese. Il dubbio venne anche a me e glielo esposi. Saramago teneva un’aria seria, non sorrideva. Accettava le mie domande senza un attimo di impazienza, rispondeva pacato e lento nella parola. Mi rispose che conosceva l’Italia grazie ai suoi viaggi, agli amici che gli riferivano, ai giornali. Ineccepibile. Poi c’era il blog... Ci sarebbe altro da raccontare, ad esempio l’antipatia mai dissimulata per Israele, con qualche durezza di troppo, come nel manifesto che firmò in nobile compagnia, con John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter, Gore Vidal, l’ostilità nei confronti della chiesa portoghese e del «suo» Dio «vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia», lo spregio per i banchieri, considerati più o meno delle canaglie (s’era in piena crisi finanziaria). Insomma Saramago, dal ritiro di Lanzarote, alle Canarie, dove ieri è morto, non si risparmiava, duro, combattivo e comunista, come era rimasto, fedele a un’idea più che alla sua dispersione materiale nel corso della storia. Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar (al partito comunista portoghese, in clandestinità, s’era iscritto nel 1959), appena oltre confine poteva apprezzare quella di Franco. Dopo la libertà, che arrivò con la rivoluzione dei garofani, era rimasto un uomo all’antica, onesto, un combattente, diventando un «grande scrittore», come lo riteneva il più grande dei critici, Harold Bloom: un «titano» lo considerava. Certo rappresenta una delle voci più maestose del secolo che è da poco passato. Maestosa è la sua prosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti conduce tra i misteri della vita e della storia, insegnando a guardare, moltiplicando gli sguardi lungo le traiettorie dell’insolito, come nel suo romanzo forse più bello, Cecità, dove la nebbia diventa la lente che costringe a seguire passaggi anomali e per questo meglio aperti sulla verità. C’è anche ironia nelle sue pagine e c’è soprattutto pena per una umanità fragile, destinata alla sconfitta.
José de Sousa Saramago era nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922. Il padre era un agricoltore, che, una volta a Lisbona dal 1924, aveva trovato lavoro come poliziotto. Il fratello minore, Francisco, morì a due anni, pochi mesi dopo l’arrivo nella capitale. Non c’erano soldi in famiglia e così il giovane Saramago non frequentò l’università, ingegnandosiper mantenersi nei lavori più diversi, fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione. Il suo primo romanzo, Terra del peccato, del 1947, non trovò gran fortuna. Sino alla Rivoluzione dei Garofani, nel ‘74, Saramago visse una stagione di formazione. Pubblicò poesie (Le poesie possibili, 1966), cronache (Di questo e d’altro mondo, 1971), testi teatrali, novelle. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano Diario de Noticias nel ‘75 e quindi scrittore a tempo pieno), crollata la dittatura, si presentò nel 1977 con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, seguito da Una terra chiamata Alentejo, incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con Memoriale del convento (1982) che ottenne il successo. In sei anni pubblicò tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, L’anno della morte di Riccardo Reis e La zattera di pietra). Gli anni novanta lo consacrarono con L’assedio di Lisbona, Il Vangelo secondo Gesù e Cecità.
Nel 1998 il riconoscimento «ufficiale»: il Nobel. Non piacque al Vaticano il premio ad un uomo che non s’era mai risparmiato nelle critiche alla Chiesa, alla religione, ad un certo modo di usare persino Dio. Critiche che gli dettava la vicenda del suo paese e della Spagna accanto.

mercoledì 17 marzo 2010

O: storia intima dell'orgasmo

O: storia intima dell'orgasmo
Autore Jonathan Margolis
Traduttore M. P. Romeo; M. Zonetti
Editore Piemme, 2005

Per alcuni è una questione di minuti. Più o meno dodici all'anno. Altri non lo provano in una vita. C'è chi per definirlo non risparmia la fantasia, compiendo ardite similitudini tra l'orgasmo e il goal in una partita di calcio. Eppure non c'è mai stata parola più oscurata, censurata, osannata, sublimata, parafrasata, condannata, a seconda delle epoche storiche e delle latitudini. Dalla biologia alla letteratura, passando attraverso l'antropologia, la psicologia e la tecnologia, a partire dall'uomo delle caverne fino al Viagra e al virtual sex, Margolis propone un viaggio alla scoperta dell'orgasmo e del piacere del sesso.

venerdì 12 marzo 2010

Chiunque nel mondo potrà accedere a milioni di libri senza copyright

l’Unità Firenze 11.3.10
L’intesa con il ministero dei beni culturali coinvolge anche Roma
Chiunque nel mondo potrà accedere a milioni di libri senza copyright
Accordo storico con Google i libri della Nazionale sul web
Una volta digitalizzate, le opere di Dante, Petrarca, Leopardi, rari testi scientifici del XVIII secolo e litografie di ogni epoca saranno a disposizione dei navigatori del web. Il costo sarà a carico di Google.
di Matilde Tempesti

Non sempre vecchio e nuovo parlano lingue diverse, soprattutto non sempre il mondo virtuale logora quello reale. È stato siglato un accordo già definito storico tra il motore di ricerca Google e il ministero per i Beni e le Attività Culturali, che consentirà a chiunque nel mondo di accedere a fino ad un milione di libri non coperti da copyright conservati nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze.
Una volta digitalizzate, le opere di Dante, Petrarca, Leopardi e Manzoni saranno a portata di clic da Genova a Nairobi. Google fornirà inoltre alle due biblioteche le copie digitali di ciascun libro parte del progetto, così che possano a loro volta renderli disponibili anche su piattaforme diverse da Google Books, come quella del progetto Europeana. L’accordo prevede la
La Biblioteca Nazionale di Firenze
digitalizzazione e messa in rete di circa un milione di volumi, 285mila dei quali sono stati già metadatati e catalogati dal Servizio Bibliotecario Nazionale, e nei prossimi 2 anni si completerà la catalogazione dei volumi scelti, che saranno digitalizzati da Google e poi messi online. Il costo della digitalizzazione sarà a carico di Google. Tra i libri rari e rilevanti che la Biblioteca Nazionale di Firenze includerà nel progetto vi sono rare opere scientifiche del XVIII se-
colo e dell’Illuminismo, opere letterarie del XIX secolo, opere illustrate e litografie di ogni epoca. «La speranza è che questo sia un punto di partenza ha dichiarato il ministro Sandro Bondi e che presto molti altri volumi possano essere disponibili».
PER SAPERNE DI PIÙ
www.bncf.firenze.sbn.it

domenica 28 febbraio 2010

L'anello del pescatore

L'anello del pescatore, Jean Raspail, CasadeiLibri 2009 euro 16

A distanza di 11 anni dall'uscita del Il campo dei santi (Cavallo Alato edizioni di Ar) ritorna in Italia Jean Raspail, con L'anello del pescatore.

Siamo nel 1994 lontani dalla morte di Giovanni Paolo II e la proclamazione di Papa Benedetto XVI, e molti anni prima della pubblicazione de “Il codice Da Vinci” di Dan Brown, che ha costruito i suoi romanzi sulla “grande menzogna” su cui si fonderebbe la Chiesa Cattolica.

Raspail, profondo conoscitore dei fatti storici del Grande Sisma d'Occidente, scrive un romanzo, riportando ai giorni nostri una disputa che ha diviso la Chiesa per quasi quarant'anni, conclusa con la deposizione di Benedetto XIII, ultimo degli antipapi di Avignone.

L'ultimo successore di questa discendenza papale scomunicata dalla Chiesa, un mendicante, che si fa chiamare Benedetto, parte da Rodez, al sud della Francia, deciso a raggiungere Roma per rivelare la sua profezia al Papa, morire accanto la tomba di Pietro e mettere definitivamente fine allo Scisma.


Raspail costruisce un libro affascinante, che travalica i generi letterari, e trasporta il lettore avanti e indietro nel tempo senza mai perdere il bandolo della matassa. Dietro alla storia ufficiale della Chiesa, Raspail ne racconta una parallela, che sembra altrettanto verosimile, sostenuta da una grande documentazione storica e una scrittura carica di ritmo, e varietà linguistica che insinua il dubbio capitolo dopo capitolo.

mercoledì 17 febbraio 2010

Joumana Haddad «Quando ho scoperto la storia di Lilith sono tornati tutti i conti della mia vita»

Liberazione, sabato 13 settembre 2008
Joumana Haddad «Quando ho scoperto la storia di Lilith sono tornati tutti i conti della mia vita»
Intervista
«La sua poesia, attraverso una parola tentacolare, spesso riesce a dar voce a una donna forte e sontuosa», così lo scrittore marocchino Tahar Ben Jallun ha recentemente descritto l’opera di Joumana Haddad, poeta libanese. Questa estate, mentre leggeva all’Isola Tiberina (in un italiano perfetto) la sua composizione dedicata alla biblica Lilith, nell’ambito del festival internazionale di letteratura “Mediterranea”, Joumana sembrava aver dato non solo voce ma corpo e sostanza a una «donna forte e sontuosa».

Liberazione 13.9

domenica 31 gennaio 2010

La favolosa storia del trattato sui profeti bugiardi

La Repubblica 30.1.10
La favolosa storia del trattato sui profeti bugiardi
di Adriano Prosperi

Minois ripercorre la leggenda del celebre testo su Gesù, Mosè e Maometto Un´opera contro la religione, prima immaginata poi scritta per davvero

Questa è la storia di un libro maledetto e desiderato, temuto e accanitamente ricercato: un libro che prima di diventare reale fu piuttosto una fantasia, una testa senza corpo, un embrione di libro. All´inizio ci fu un´idea, un titolo: i tre impostori. Ma che titolo: i tre impostori erano Mosé, Gesù Cristo e Maometto. E l´idea era quella di attribuire l´origine delle tre religioni monoteistiche mediterranee all´impostura dei fondatori. Come quell´embrione sia nato e si sia sviluppato lo racconta Georges Minois (Il libro maledetto. La storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori, Rizzoli, traduzione di Sara Arena, pagg. 320, euro 17,50).
Minois è uno storico abituato a scavare nei sedimenti dell´immaginario religioso. Sue sono tra l´altro una storia del diavolo e una storia dell´inferno. Lo zolfo d´inferno circola anche in questa storia. Da lì affiorano le ombre di Federico II di Svevia e del suo ministro Pier delle Vigne, convinti - secondo l´accusa di papa Gregorio IX (1239) - che il mondo intero fosse stato ingannato da tre impostori, Gesù Cristo, Mosé e Maometto.
In quell´inferno la tradizione cristiana collocò anche Averroè. A lui, un infedele e dunque un comodo capro espiatorio, fu attribuita la tesi che le tre religioni monoteistiche fossero state fondate da tre imbroglioni.
L´idea che la storia dell´uomo e del mondo raccontata dalle tre religioni fosse frutto di un´abile mistificazione poteva nascere solo in quel bacino del Mediterraneo dove tre monoteismi si scontravano con l´insanabile odio di un rapporto fraterno. Ma perché si pensasse alla religione come impostura e inganno deliberato era stato necessario il contributo dell´intelligenza greca e della sapienza politica romana. Erodoto aveva raccontato l´inganno di un fondatore di religione, lo schiavo trace di Pitagora, Salmoxis. E Tito Livio aveva descritto i finti convegni notturni di Numa Pompilio con la ninfa Egeria. Il poema di Lucrezio aveva accusato la religione di fondarsi sulla paura. E fu dalla lettura di Lucrezio e di Tito Livio e dall´esperienza dei tempi suoi che Niccolò Machiavelli ricavò le sue osservazioni sulla funzione della religione per il potere politico e per la forza dello stato.
Intanto con le scoperte geografiche la comparazione tra religioni si allargava a scala mondiale; e con la comparazione si sviluppava la capacità di critica e di relativizzazione e la tendenza a considerare la religione - ogni religione - una creazione umana, modellabile con la forza e con l´astuzia. E il libro dei tre impostori? La convinzione della sua esistenza condivideva con la fede in Dio delle religioni positive un carattere comune: era sostanza di cose sperate, terrore di cose temute. Finché a un certo punto ci fu chi lo scrisse davvero. Ma tutta questa storia, dalla lunghissima gestazione alla nascita, ha ancora lati oscuri e passaggi incerti su cui si affaticano gli studiosi: il che contribuisce a conferirle il fascino che appartiene alle cose nascoste, ai sogni e alle immaginazioni.
La violenza dei dispositivi di chiese e stati obbligava al nascondimento e nello stesso tempo aggiungeva forza di argomenti a chi parlava di impostura. Fu allora che la figura dell´ateo cessò di essere uno spauracchio apologetico e prese corpo e caratteri moderni. E fu con gli apporti dei libertini eruditi, di Hobbes e soprattutto di Spinoza che venne lievitando l´idea centrale di quel libro: che intanto, detestato e ricercato, dichiarato esistente senza essere visto, restava come avvolto nell´alone di quella che era la sua materia: l´impostura. Quando prese corpo in stampe e non in una ma in più versioni, una in latino e una in francese, fu per opera delle correnti dell´Illuminismo radicale, decise a voltar pagina rispetto a una cultura elitaria che non riteneva il popolo capace di tollerare la verità.
La versione su cui giustamente Minois si concentra comparve all´Aia nel 1719 dall´editore Levier. E il lettore curioso potrà verificare sull´eccellente edizione che del testo da lei scoperto ha pubblicato Silvia Berti (Trattato dei tre impostori, Einaudi, 1994) se è vero, come scrive Minois, che quel trattato è deludente: di più, se è vero che all´epoca in cui comparve avesse perduto la sua forza dirompente. Una cosa è certa: non c´è l´inferno in quelle pagine, non vi sono le sulfuree empietà su cui avevano speculato trafficanti e stampatori. Al loro posto c´è una ferma fiducia nella retta ragione, «la sola luce che l´uomo deve seguire». E c´è in più un salto rivoluzionario rispetto ai tempi delle cabale segrete e dei libertini eruditi: la convinzione «che il popolo non è così incapace di fare uso /della ragione / come si cerca di fargli credere». Era finita un´epoca, un´altra cominciava che ancora non è finita.