sabato 26 luglio 2008

Turista per belle biblioteche. Oxford, Dublino, Belfast, Parigi "Luoghi freschi e pieni di amici libri"

Turista per belle biblioteche. Oxford, Dublino, Belfast, Parigi "Luoghi freschi e pieni di amici libri"
LUIGI BOLOGNINI
VENERDÌ, 25 LUGLIO 2008 LA REPUBBLICA - Milano

L´itinerario di vacanza ideale del filosofo Giulio Giorello passa per magnifici scaffali e dotte letture Più qualche passeggiata e una pinta al pub
Hanno i muri spessi per conservare al meglio i volumi e chi li legge. E spesso fuori dalle finestre parchi con scoiattoli

Dove può andare in vacanza uno che vive circondato dai libri? Su un´isola tropicale? In un eremo montano di alta quota? No, tra i libri. E così Giulio Giorello, uno dei più noti filosofi italiani, docente di Filosofia della Scienza alla Statale, non pago di tre stagioni su quattro trascorse a casa e nel suo ufficio all´università tra libri alle pareti, pile di libri sui tavoli e libri da scrivere e da curare in prima persona, vive la bella stagione zingarando da una biblioteca all´altra. Con una netta predilezione per quelle anglosassoni. «Oxford, Dublino, Belfast, ma anche Stoccolma e Parigi. Questa sì che è vita. Anzitutto le biblioteche sono fresche: hanno i muri spessi per conservare i volumi, e chi li legge, meglio che si può. E poi sono posti meravigliosi, dove si apprende sempre qualcosa di nuovo, popolati di gente che ama la cultura».
La sua biblioteca preferita?
«Ho dei ricordi bellissimi della Bodleian Library, di Oxford. C´è un punto dove amo sedermi ed è sotto un affresco che dice "Deus illuminatio mea". Ha 12 milioni di volumi, è la cosa più simile alla Biblioteca di Babele inventata da Borges. Se si guarda fuori dalle finestre c´è un parco con gli scoiattoli che zampettano allegri, e al pub più vicino servono delle eccellenti birre, ovviamente inglesi quindi ale, quelle ad alta fermentazione, complesse e ricche di aromi, le mie preferite. Insomma, quasi il paradiso».
Altre biblioteche?
«Le due irlandesi, quella del Trinity College di Dublino, e quella di linen Hall a Belfast, magnifiche per maestosità e tradizione culturale. Quella della Citè universitaire di Parigi, dove spesso trovo le documentazioni necessarie per i miei libri, quella di Stoccolma. Tante, tante davvero».
Come mai sceglie i libri anche d´estate?
«Per due motivi. Il primo è che certi libri sono meglio di certi uomini. Il secondo è che io non concepisco il riposo come inerzia, per me deve esserci comunque movimento, del corpo e della mente. Non riesco a concepire una vacanza vacanza, così come non riesco mai a staccare davvero».
Avrà fatto qualche vacanza di tutto riposo, almeno da piccolo, no?
«Certo. Quando ero bambino avevamo una casa di campagna nella alta Val Bormida. Mi pareva un palazzo incantato, aveva anche gli affreschi alle pareti, era ben diverso dal trilocale dove abitavo a Milano. Vacanze bellissime, a parte una intorno ai 10 anni in cui in pochi giorni mi infilzai un chiodo a pochi millimetri da un occhio, mi venne la pertosse e morì il mio cane. Poi a Bormio, le cosiddette vacanze igieniche, per respirare l´aria buona. Ma non mi piaceva: era un paese pieno di turisti borghesotti arricchiti, dove sentivo cantare Giovinezza un po´ troppe volte per i miei gusti».
Libri a parte come sceglie dove andare?
«Mi faccio guidare dal caso e dalle esigenze del momento. Mi è anche capitato di passare l´estate a Milano, per lavorare».
E com´è? Tutti lodano la città in questa stagione, dicono che diventa bella e vivibile.
«Io no. O meglio, dico che è meno peggio del previsto. Ma l´ho sempre fatto per motivi pratici e non certo estetici, dovevo completare un libro di meccanica quantistica. Oltretutto io non guido, quindi che ci sia il parcheggio facile non mi importa un fico secco. Comunque un grande evviva ai ristoranti di cucina araba e nordafricana, che sono sempre aperti, ti fanno mangiare bene e ti trattano in modo civile, cosa che non sempre capita. Io ne ho due dove mi rifugio d´estate, si chiamo Le arcate e I Mori, nella mia zona, città studi».
Ma quindi Milano d´estate proprio non le piace?
«Mettiamola così, quando uno alza gli occhi al cielo estivo della città e vede la luna rossastra e il cielo nero, ecco, quello per me è un momento struggente. Nel senso che mi struggo dalla voglia di essere altrove».

venerdì 25 luglio 2008

Un saggio sull’amore nel ‘700

La Repubblica 25.7.08
Un saggio sull’amore nel ‘700
Cicisbei. Lui, lei e il cavalier servente
di Benedetta Craveri

Accompagnare assiduamente una donna sposata era una pratica diffusa. Specchio di un costume e di una morale
Un prodotto della società d’Antico Regime, che scompare nell’800
Un’indagine che investe il tema dell’identità nazionale italiana
Parini, Goldoni e Alfieri criticano aspramente il fenomeno

«Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento?
A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi.
Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata.
Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione.
Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani.
Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina.
La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti.
Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro.
Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento.

giovedì 24 luglio 2008

La vera storia dei templari

La Repubblica 24.7.08
La vera storia dei templari
Un saggio di simonetta Cerrini mette a confronto diverse fonti
Monaci, guerrieri e un po' maghi
di Susanna Nierenstein

La loro fu una rivoluzione: cavalieri antieroici frati antiascetici tolsero ai chierici il monopolio del sacro. Usarono la lingua volgare per aprire al popolo, non disdegnarono strani riti
La liturgia del giovedì santo: versato sull´altare del vino, poi veniva leccato
Non costruirono una memoria collettiva: e questo permise il nascere della leggenda

Monaci con licenza di uccidere nati tra il 1105 e il 1113, cavalieri armati eppure sottoposti al voto di povertà, castità e obbedienza al papa fin dal 1129, anno del Concilio di Troyes, guardiani della Terrasanta travolta dalle Crociate ma diffusi in tutto l´antico continente (in Italia avevano oltre 150 "case"), tanto pauperisti quanto straordinari accumulatori di ricchezze: sono questo e molto altro i Templari, cancellati dalla storia, ma non dalla leggenda, con il processo farsa per eresia che gli fece intentare il re francese Filippo il Bello e il successivo rogo che il 18 marzo 1314, sull´isola della Senna, davanti ai Giardini Reali, arse l´ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, insieme a Geoffroy de Charny, precettore di Normandia. Combattenti mistici e potenti entrati in un mito che li ha visti in possesso del Santo Graal piuttosto che di fantastici segreti sull´Arca della Santa Alleanza con le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè, o ancora custodi di sapienze su alcune verità riguardanti Gesù e di tesori ancora ricercati, piuttosto che detentori di un potere trasversale in grado di dominare il mondo o al contrario di una trasparenza etica diamantina destinata alle Rivoluzioni di tutti i tempi.
La Militia Salomonica Templi (titolo che deriva dalla Spianata del Tempio di Salomone, dove Baldovino II destinò a Gerusalemme la dimora dei Templari), al di là del templarismo nato e prosperato dal XIV secolo ai giorni nostri, ha però una storia vera. Ed è sulle loro origini reali che Simonetta Cerrini vuole indagare, mettendo sotto il microscopio e comparando i testi fondatori dell´ordine e della regola, nove manoscritti in latino e lingua d´oïl, tra cui uno rintracciato a Praga e studiato per la prima volta. Ne è nato un libro La rivoluzione dei templari. Una storia perduta del XII secolo (Mondadori, pagg. 238, euro 18,50).
Professoressa Cerrini, perché definisce rivoluzionaria l´intuizione di Ugo de Païens da cui nacquero i Templari?
«Perché la società del dodicesimo secolo, era divisa in una classe di oratores (la struttura ecclesiastica che gestiva il potere spirituale), in una di bellatores, laici e combattenti (che in un contesto guerriero come quello medievale erano l´equivalente dell´autorità civile, ovvero imperatori, re, nobiltà) e i laboratores, laici che costituivano il popolo senza diritti né autorità, dunque artigiani, servi, contadini. I Templari distruggono questo quadro».
In che senso?
«Sostengono da laici di essere anche chierici, laici combattenti con un´autonomia sul sacro. Alle origini, la Chiesa cristiana non prevedeva una divisione così forte come quella del XII secolo. Pensi agli imperatori, erano laici con una evidente autorità religiosa: Carlo Magno arrivò a cambiare la formulazione del "Credo". Più in generale la liturgia, le scelte teologiche e pastorali non erano affidate solo alla gerarchia ecclesiastica. Poi invece, con la Riforma gregoriana, i chierici si costituiscono parte a sé e si appropriano dell´intero potere spirituale, escludendone imperatore, re, nobili e scegliendo anche una maggior devozione e purezza, come col celibato, che fino ad allora non c´era. Dall´altra parte, il monopolio della guerra è dei laici, che diventano ben poca cosa rispetto a prima, e sono il mero braccio armato del potere spirituale. Ugo de Païens nella sua lettera manifesto rivoluziona ogni concetto e dice: noi Templari non siamo il braccio armato della Chiesa, siamo i suoi piedi, sorreggiamo il suo intero corpo ("Pes tangit terram, sed totum corpus portat") e ne facciamo parte».
E qual è il significato che lei vede in questa definizione?
«Significa che Ugo seppe uscire dallo stato di inferiorità in cui l´alto clero aveva messo il laico bellator, rivendicando la condizione più bassa, quella dei laboratores, dei poveri, uno stato attraverso cui passeranno anche religiosi come San Francesco d´Assisi e i suoi frati minori, e donne come Giovanna d´Arco».
Sembra palese anche il desiderio di tornare a un passato pregregoriano, senza separazione tra poteri spirituali e laici.
«In parte, ma Ugo non guarda a imperatori e re, quanto alla piccola nobiltà. In un certo senso "proletarizza" la regalità sacra. Ugo rivendica il valore degli umili. E apre anche alle donne. Crea una società intera dove trovavano posto mogli, suore, frati sposati o a termine, una società religiosa più ampia, dove il laico non è totalmente assoggettato al chierico».
Quali sono le circostanze storiche che generano i Templari?
«Dopo l´anno 1000, il mondo riprende a muoversi e vede nascere, come racconta splendidamente Le Goff, quello delle città, delle università, delle grandi cattedrali. Si assiste a un movimento popolare che esce dalla passività delle paure millenaristiche. In questo contesto non vedo le Crociate come guerre di conquista: lo dimostra il fatto che, dopo la vittoria, i combattenti tornano a casa e lasciano così sguarnito il territorio, che perciò ha bisogno di guardie armate: è da questa necessità che prendono vita i Templari».
Era più forte la loro natura religiosa o militare?
«Quella religiosa. Un dato che cambiò anche le regole militari: prima non esistevano eserciti fissi, mentre l´input monastico fece nascere la prima armata permanente. Anche la disciplina rigorosa copiò quella dell´ordine religioso».
Lei sottolinea l´importanza della lingua scelta per molti dei loro documenti, il francese antico, non il latino. Ci vuole spiegare meglio?
«Sì. Scelgono la lingua parlata, non esattamente langue d´oïl, perché ricca di apporti catalani, inglesi, fiamminghi, tedeschi, ungheresi. Una decisione importante perché fino ad allora alla spiritualità era riservato il latino, non esistevano trattati teologici in lingua volgare. Ugo così volle dare un accesso molto più largo a testi sacri importanti».
Chi furono i primi templari, nobili diseredati, religiosi fanatici?
«Né diseredati, né fanatici. Piccola nobiltà, ma nei Templari troviamo anche signori di rango, come nel 1125 il conte di Champagne, un altro Ugo, nei cui territori si svolgerà il Concilio di Troyes che ratificò l´ordine. Ma l´entrata dei grandi aristocratici non cambiava il livello di vita o i poteri della confraternita, che del resto non fu un luogo di upgrading sociale, almeno finché non divenne ricca e potente».
Antieroismo e antiascetismo qualificano i doveri del Templare: questo è quanto le è risultato dalla lettura dei manoscritti. Il contrario dell´immagine di guerriero sacro che ce ne siamo fatti.
«Me ne sono sorpresa anch´io. Ma il gruppo poneva binari attenti all´individuo che entrava: i laici novelli monaci tendevano a rendere eccessiva la tensione spirituale, cercavano l´ascesi, l´eremitaggio, il digiuno... ed ecco che la regola imponeva il riposo, e il mangiare a due a due sullo stesso piatto perché vi fosse un controllo reciproco. In quanto all´antieroismo, era vietata ogni forma di largesse e di vanteria: non a caso non esistono memorie delle loro gesta».
Lei individua una formula per la guarigione dei cavalli leggendo un foglio con la lampada di Wood (raggi ultravioletti). Qui sì che sembra di essere in un film sui Templari: eccoci all´uso di pratiche magico religiose. Fino a che punto si estendeva quest´aspetto inquietante e misterioso?
«Non ho trovato solo quella. Descrivo anche la liturgia del giovedì santo, dove veniva versato del vino sull´altare e poi leccato: si trova negli statuti dei templari, e, come mi ha fatto notare Barbara Frale, era una pratica seguita a Cipro dai cristiani orientali. Oppure potrei citare le reliquie con le teste di santi che possedevano. Il fatto è che in Terra Santa c´era una vita religiosa che altrove sarebbe stata giudicata eretica, abitudini e credo condivisi da religioni diverse, come il pellegrinaggio al convento greco-melchita di Nostra Signora di Saydnaya, vicino a Damasco, fatto da pellegrini cristiani, Templari ed anche musulmani».
Dunque niente eresie?
«Ma no! Il processo voluto da Filippo il Bello fu costruito su un castello di accuse di magia e eresia preparate in realtà per Bonifacio VIII: Clemente V scelse di insabbiarle e sacrificare l´ordine del Tempio».
Perché i Templari sono diventati un mito?
«Resta un mistero: certo, l´eredità ideale del Tempio non era rivendicata da nessuno; dopo la loro scomparsa era libera e i Templari non avevano neppure costruito una memoria collettiva con cui fare i conti. Comunque le recenti scoperte storiche e filologiche ci stanno restituendo dei Templari curiosamente simili ai Templari della leggenda. Templari laici, ma religiosi; Templari colti che desiderano divulgare testi escatologici facendoli tradurre in lingua volgare; Templari che praticano riti magico-religiosi; Templari che frequentano intellettuali; Templari che sono pronti a condividere liturgie e devozioni religiose con i cristiani d´Oriente (lo scisma con la Chiesa latina è del 1054), ma anche con i musulmani. La vera storia dei Templari si sta rivelando interessante come la leggenda».