giovedì 28 aprile 2011

Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Vi presento Pletone (e non è un refuso...)
Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento
Silvia Ronchey

Che cosa sarebbe il nostro mondo senza Platone? Infinitamente diverso e certamente peggiore, lo sanno tutti. Ma pochi sanno che lo sarebbe anche senza un altro filosofo, suo quasi omonimo: Pletone. Non è uno scherzo, né, o non solo, un calembour. Il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra politica, questa nostra civiltà occidentale, che ha origine nella Grecia antica ma è nel Rinascimento che si forma alla modernità e appunto rinasce, non avrebbero avuto il loro imprinting nella filosofia di Platone se a trasmetterla all’internazionale degli umanisti europei non fosse stato quel grandissimo filosofo bizantino. Il suo vero nome, Gemisto, nel greco del Quattrocento voleva dire «colmo» ( gemistos ); e lo stesso o quasi — «pieno», «traboccante» — significava, nel greco classico, lo pseudonimo Plethon , Pletone, che si era dato in omaggio al filosofo per cui traboccava d'amore. Con questo nome era noto in tutto il mondo, come spiega Moreno Neri nello straordinario libro — un vero evento — che oggi ci consegna la traduzione del più diffuso fra i testi di Pletone, il Trattato delle virtù , e in cui più di 400 pagine sono dedicate a un saggio introduttivo che ha lo spessore intellettuale e critico oltreché la lunghezza di un’esemplare monografia.
Da Platone a Pletone, la filosofia platonica, per dieci secoli, aveva seguito un cammino carsico, ininterrotto ma spesso sotterraneo. Inizialmente cristianizzata, eppure quasi sempre coniugata a un sincretismo religioso intrinseco ai suoi princìpi e a un neopaganesimo filosofico condiviso anche dagli esponenti ecclesiastici delle più o meno eretiche o clandestine «eterìe» o «fratrie» che seguitarono a professarla anche dopo la sua eclissi dalla teologia ufficiale divenuta aristotelica, solo alla Scuola di Pletone sarebbe riemersa alla piena luce. E con la venuta del Gran Maestro e dei suoi discepoli in Italia per il concilio fiorentino del 1439 si sarebbe trasmessa agli intellettuali e ai politici riuniti in suo ascolto.
Fu un preciso passaggio di dottrine, uomini e testi, che da Bisanzio ormai prossima a cadere sotto il dominio turco vennero portati in salvo nell’Europa occidentale. Fu un deliberato passaggio di consegne, in nome del quale Cosimo de' Medici fondò l'accademia platonica. E quella filosofia diventò, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia della sovversione europea».
«E’ solo grazie a una combinazione di talento e fortuna che Marsilio Ficino - scrive Neri resta un nome che non si scorda, mentre quello di Giorgio Gemisto è ignoto ai più, così come Shakespeare è un’icona internazionale e Marlowe no». Di Pletone, come scrisse il suo grande estimatore e traduttore Giacomo Leopardi, «la fama tace al presente, non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione, e nessuno può assicurarsi di acquistarla per merito, quantunque grande».
In realtà, non sono certo mancate le ragioni per dimenticare Gemisto, o per travisarlo, se non per diffamarlo, spiega Neri, il primo dopo Leopardi ad essersi misurato vittoriosamente con il suo greco splendido e impossibile, musicale e burrascoso, arcaico e futuribile, che ha dissuaso molti dal tradurre la sua opera omnia, di cui invece questo Trattato è il primo volume.
«Detestato da tutte le chiese costituite, finita sul rogo la sua opera più importante» — il libro delle Leggi, bruciato dal patriarca Gennadio poco dopo la sua morte —, «Pletone diede vita a entusiasmi come a odi non passeggeri tra le persone più eccellenti del Rinascimento», scrive Neri. «Fu uno dei primi geni del moderno, mosso da una curiosità quasi topografica per ogni ramo del sapere». Oltre che un teologo neopagano e un eretico, era un utopista che «aveva trovato nelle dottrine platoniche e neoplatoniche, nei mitici testi zoroastriani, orfici e pitagorici, il fondamento di un radicale programma di rinnovamento politico e religioso, di una rinascita della più antica sapienza che fosse l’inizio di un nuovo tempo dell’esperienza umana». Alla sapienza nascosta del cristianesimo non potevano non essere arrivati, riteneva Pletone, gli antichi saggi ellenici e orientali. Far rivivere i loro testi e riti avrebbe portato a una religione filosofica in cui le diversità dei culti e delle confessioni storiche sarebbero state irrilevanti per gli iniziati di un alto clero illuminato. In quel mondo nuovo, ogni devozione sarebbe stata ammessa e libera di prosperare.
Pletone affermava che tutto il mondo entro pochi anni avrebbe accolto una sola religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione. «Cristiana o maomettana?», gli avevano chiesto. «Nessuna delle due - aveva risposto - ma simile a quella dei gentili. Solo quando Maometto e Cristo saranno dimenticati, la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo». I filosofi musulmani amarono quanto gli umanisti italiani le sue opere e poco dopo la sua morte ciò che restava del libro delle Leggi fu tradotto in arabo.
«Trattato delle virtù»: l’opera di uno fra i primi geni del moderno, curioso di ogni ramo del sapere Stimato e tradotto da Leopardi, detestato da tutte le chiese, un utopista radicale, politico e religioso

martedì 19 aprile 2011

La conoscenza è lussuria. Parola di Giulio Giorello.



Giulio Giorello, filosofo della scienza, descrive il proprio saggio "Lussuria. La passione della conoscenza".

venerdì 15 aprile 2011

Risorgimento e scienza: le relazioni prosperose

l’Unità 14.4.11
Il libro di Russo e Santoni traccia la prima storia del sapere scientifico nel nostro paese
Il ruolo degli scienziati italiani fu fondamentale nella formazione dell’Unità d’Italia
Risorgimento e scienza: le relazioni prosperose
Risalendo a Fibonacci, primo matematico europeo, «Ingegni minuti» traccia una storia della scienza italiana, sottolineandone il ruolo avuto nel Risorgimento ma anche il mancato dialogo tra produzione e ricerca.
di Pietro Greco

Camillo Benso, Conte di Cavour, scriveva insieme ad Alessandro Volta sugli «Annali universali di statistica», una rivista fondata nel 1824 e a lungo diretta da Gian Domenico Romagnosi, giurista e fisico dilettante. Anche Carlo Cattaneo, il padre del (serio) pensiero federalista, collaborò alla rivista, prima di fondare a sua volta «Il Politecnico» nel 1839, perché i cittadini tutti avessero cognizione che la Scienza è il modo migliore per fecondare il campo della Pratica e accrescere «la prosperità comune e la convivenza civile».
Stanislao Cannizzaro, il più grande chimico italiano del XIX secolo insieme ad Amedeo Avogadro, partecipò ai moti siciliani del 1848 e dovette riparare in Francia inseguito da una condanna a morte da parte del Borbone. Macedonio Melloni, uno dei più grandi fisici italiani dell’Ottocento, fu destituito dall’insegnamento a Parma, dopo che nel 1830 aveva parlato ai suoi studenti della rivolta di Parigi. Riparò, in seguito, a Napoli dove gli fu chiesto di fondare e dirigere l’Osservatorio Vesuviano.
Il primo osservatorio vulcanologico al mondo fu inaugurato nel 1845, nel corso della settima «Riunione degli Scienziati Italiani», che portò nella capitale borbonica oltre 1.600 uomini di scienza provenienti da tutta Italia.
Hanno ragione Lucio Russo ed Emanuale Santoni, autori degli Ingegni minuti (Feltrinelli, pagine 506, euro 30,00), la prima storia completa della scienza italiana – dal 1202 (poi spiegheremo perché una data così precisa) ai nostri gior-
ni – e dei suoi limiti: quella del Risorgimento è semplicemente una storia monca se non tiene conto del ruolo che vi hanno avuto gli scienziati e la scienza. Per svariati motivi.
Perché gli uomini di scienza hanno partecipato in maniera attiva e da protagonisti assoluti al Risorgimento – anche in armi (esisteva, per esempio, un battaglione degli studenti pisani che ha partecipato alle battaglie di Curtatone e Montanara). E perché hanno partecipato in maniera altrettanto attiva alla costruzione dell’Italia appena unita: il fisico forlivese Carlo Matteucci fu Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia nel 1862; il chimico calabrese Raffaele Piria fu Ministro dell’Istruzione del governo Garibaldi a Napoli nel 1860, dopo la liberazione dai Borboni.
Perché la scienza è stato uno dei grandi collanti culturali che hanno creato uno «spirito nazionale». La prima «Riunione degli Scienziati Italiani» avvenne nel 1839, mentre l’Italia non esisteva – era ancora una costellazione di stati – ma gli italiani si percepivano come membri di uno stesso popolo e di una medesima nazione.
Perché, come ribadiscono Lucio Russo ed Emanuela Santoni, la scienza non era e non era vista come separata dalla politica e come un ruscelletto minore che scorre in parallelo al grande corso della storia. Ma, appunto, ne era componente essenziale.
Ma poi di tutto questo ce ne siamo dimenticati. Qual è la causa della damnatio memoriae che ricorre spesso nella vicenda scientifica italiana fin dalle origini?
LE ORIGINI
Il libro di Russo e Santoni ha molti meriti. Ci racconta in dettaglio la storia della scienza italiana fin dalle origini che risalgono, appunto, al 1202, quando Leonardo Fibonacci scrive il suo Liber Abaci e si afferma come il primo matematico e scienziato nella storia europea (Archimede appartiene alla cultura ellenistica e Roma non ha avuto mai una cultura scientifica sviluppata). Ci racconta di una scienza che ha avuto punte di valore assoluto – da Galileo ad Avogadro, da Redi a Fermi. Di una scienza che si è incontrata (nel Rinascimento, per esempio) o scontrata (con Croce e Gentile, per esempio) con gli intellettuali di diversa matrice culturale. Ma che ha avuto, sempre, una costante. Non ha mai incontrato un sistema produttivo che ha creduto nella ricerca scientifica e sulla ricerca scientifica ha fondato il suo sviluppo. Ed è questa incapacità, a ben vedere, il tema dominante della storia d’Italia. Prima dell’Unità. Ma anche dopo.
Certo ci sono state delle eccezioni, in cui il tessuto produttivo italiano è stato informato dalla scienza: nel Rinascimento, nella stagione risorgimentale (appunto), appena dopo la seconda guerra mondiale. Ma si è trattato di episodi, alcuni luminosissimi. Tutti rapidamente conclusi. Non dell’espressione di una cultura dalla radici profonde. Questa incapacità del sistema produttivo italiano di avere un rapporto critico ma stabile con la scienza spiega in buona parte la «crisi perenne» del paese. Il suo costante aggirarsi intorno al baratro. E, di tanto in tanto, caderci dentro.

mercoledì 6 aprile 2011

Eva Cantarella presenta Dammi mille baci



Dopo lesplorazione della sessualità greca in Lamore è un dio, Eva Cantarella completa con Dammi mille baci (Feltrinelli) il percorso sullamore e sulleros nellantichità classica. Con ironia e leggerezza, lautrice dribbla la rigidità accademica e ci parla dellamore al tempo dei romani attraverso miti, leggende, letteratura e casi giudiziari. Un carosello di dotti ma spassosi aneddoti su pratiche amatorie, tariffe, specializzazioni e abbigliamento delle prostitute, riti legati al matrimonio e alla fecondità.


Registrato il 23 aprile 2009 presso laFeltrinelli Libri e Musica, Piazza Piemonte, 2 Milano

Eva Cantarella presenta "L'amore è un dio"



"Dimentichiamo la concezione romantica e cerchiamo di capire che cos'era l'amore per i greci, cerchiamo, addentrandoci in un mondo lontano, di cogliere i diversi volti di quell'amore. Innanzitutto, per i greci l'amore era un dio di nome Eros. Un dio armato, che con il proprio arco scoccava frecce spesso mortali. Chi ne veniva colpito non aveva scampo: si innamorava. Ma Eros non era solo sentimento, era anche desiderio sessuale..." Eva Cantarella presenta L'amore è un dio. Il video.
Le riprese sono state effettuate a Milano alla Feltrinelli libri e musica di Piazza Piemonte il 17 aprile 2007