lunedì 10 novembre 2008

Iscrizioni funerarie Romane

Iscrizioni funerarie Romane
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Bur, Milano, 1991

Tra le tante voci del mondo antico che sono giunte fino a noi, quelle incise nel marmo o nel bronzo sono le più autentiche: non hanno subito modifiche o sviste da parte di copisti o di revisori. Socchiudono spiragli sull’esistenza, gli affetti, i valori e sull’atteggiamento di fronte alla morte di persone scomparse da molti secoli; lasciano scorrere davanti a noi, come in una carrellata, quella che Virgilio chiamò la plurima mortis imago, i molteplici aspetti della morte: l’incendio, il naufragio, il duello del gladiatore, la battaglia del legionario, la malattia, la vecchiaia, il parto della giovane donna, il pugnale del bandito o dello schiavo, fino al sortilegio malefico. E’ la poesia umile degli anonimi; prosegue dal sepolcro il colloquio con i vivi, lancia il suo appello a una sosta, a un momento di meditazione, minaccia chi oserà violare o contaminare quel piccolo terreno consacrato; rivela la filosofia del defunto, la sua cultura — quando cita autori famosi — infine la sua verità segreta e profonda.
L.S.M

Dalla quarta di copertina

Attraverso le iscrizioni s’è cercato di ricostruire anche la composizione etnica della Roma imperiale:
T. Franck, in Race Mixture in the Roma,, Empire («American Historical Review», 1916, pp.. 689 sgg.), attraverso un esame degli epitaffi di schiavi e liberti, dai nomi prevalentemente greci e orientali, dedusse che appunto di quella classe era costituita in maggioranza la popolazione di Roma; tesi contrastata da M. L. Gordon, in The Nationalityi af Slaves under the Early Empire (Journal of Roman Studies, 1924, pp. 93 sgg.). Vedi G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the I Century of the Roman Empire, in « Harvard Theological Review», l927,pp. 183 sgg.
Si usava, dopo aver aperti e chiusi gli occhi al defunto, mettergli in bocca una moneta (il naulum) per pagare il viaggio nell’Ade. Poi, lo si stendeva su un letto di legno, che veniva collocato sulla catasta di legna alla quale un parente appiccava il fuoco; si chiamava bustum, se l’incinerazione avveniva entro la fossa stessa dove poi le ossa sarebbero state ricoperte di terra, ustrinum invece il luogo dove si innalzava la pira, lontano da quello della sepoltura. L’incinerazione fu un uso prevalente dall’età repubblicana a tutto il I secolo d.C., tranne che nel caso di bambini morti in tenera età e di adulti colpiti dal fulmine.
Le ossa, lavate con latte e vino, venivano deposte entro anfore, in urne di ceramica, di vetro, d’alabastro, in cassette di laterizi, più raramente di marmo; l’urna di vetro, una specie di bottiglia a bocca larga, più spesso destinata alle donne, a volte era inserita entro un’anfora segata, ma avveniva anche che le ossa fossero posate liberamente sulla nuda terra. Tutt’attorno si posavano oggetti d’uso o cari al defunto, attrezzi di lavoro, gioielli, balsamari, giocattoli, alcuni dei quali — e la stessa disposizione in cui venivano posati — rivestivano un significato magico e rituale (per es. i chiodi, gli specchi). La tomba si considerava consacrata soltanto a seguito del sacrificio d’un porco. ossi di animali trovati sulle tombe possono essere residui del banchetto funebre consumato sùbito dopo le esequie e ripetuto nove giorni dopo, oppure alimenti destinati al morto; entro la tomba stessa si versavano libagioni offerte ai Mani.
Il calendario romano segna molte date dedicate alla celebrazione dei defunti: i parerntalia, nell’anniversario della morte, i Feralia in febbraio, i Lemuria — giorno in cui le anime, lasciate libere, cercavano di tornare nelle loro case, in maggio. Il capo famiglia, voltando le spalle alla porta, recitava una formula di scongiuro per allontanarli e gettava a terra una manciata di fave (Ovidio, Fasti, V, 431-444) — l’uso delle fave dolci, consumate il giorno dei morti a Roma (2 novembre) è una inconsapevole reminiscenza, benché in altra stagione, di quel rito remoto.
Dato che le sepolture si trovavano lungo le strade consolari, l’iscrizione rappresenta l’appello postumo del defunto ai vivi, passanti o viaggiatori. In essa, chi non è più vuole attirare ancora l’attenzione e fermare per un momento quel flusso incessante di umanità che scorre davanti a lui, e, nel riassumere la propria esistenza, esprime nella forma più genuina e più breve (appunto, lapidaria) la scala dei valori del suo tempo, la sua concezione della vita e del destino umano.

LIDIA STORONI MAZZOLANI

Pagine XI-XII

Nietzsche, il vulcanico

Nietzsche, il vulcanico
«Il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il più grande godimento, si chiama: vivere pericolosamente. Costruite le vostre case sul Vesuvio» scriveva Nietzsche nella Gaia Scienza, nel 1882.
Un’evocazione del sud, focoso e dionisiaco, nelle pagine di un pensatore del nord attratto magneticamente dalla lucente effervescenza solare del mediterraneo e dal suo sottosuolo vulcanico anche in senso ifiosoflco. Da questa traccia, un filosofo venuto dal profondo sud, Antimo Negri, risale in un suo denso volume per rintracciare il senso profondo della nuova scienza secondo Nietzsche. Una scienza gaia e ridente che si beffa delle proposizioni universali, fredde e oggettive, e si apre alla poesia che sola può restituire l’incanto al mondo.
Aleggia nelle pagine di Negri, il riferimento bacchico, dionisiaco a Nietzsche.

D’altronde lo stesso pensatore tedesco aveva già nel 1870 definito Dioniso “lo scopo della esistenza”. La conoscenza tragica, eroica e ludica è in realtà per Nietzsche la vera, sola conoscenza. Ovvero non cerca l’essenza della vita ma i suoi specchi, ustori e deformati.

Antimo Negri
Nietszche. La scienza sul Vesuvio
Laterza

Da “L’Italia settimanale, 15 giugno 1994, pagina 61

Il noce di Benevento, La Stregoneria e l’Italia del Sud

Paolo Portone
Il noce di Benevento, La Stregoneria e l’Italia del Sud
Xenia, Milano, 1990
Narra la leggenda che ai tempi del ducato longobardo, a due miglia fuori dalla città di Benevento, un serpente di bronzo appeso a un albero di noce era meta di culto idolatrico: la soppressione di questo culto pagano e lo sradicamento della «superstiziosa noce» era quanto chiedeva il cielo per la salvezza di Benevento dall’assedio bizantino. L’albero di noce venne sradicato da San Barbato, ma il suo culto resisté tenacemente tanto che lo stesso albero, «grandissimo e verdeggiante anco di mezzo inverno», ricompariva nelle notti del sabba: questo, almeno, testimoniarono le «streghe» ai processi inquisitoriali di tutta Italia. L’opera di Paolo Portone inquadra la stregoneria meridionale entro l’ampia cornice europea, mostrando come nell’Italia del Sud la caccia alle streghe abbia avuto un carattere assai meno sistematico e feroce che nel resto del continente. Notevoli quanto singolari sono le pagine in cui l’Autore, con la collaborazione di un gruppo di farmacologi, studia la composizione degli unguenti usati dalle «streghe» prima del volo verso il sabba: alla loro base erano erbe velenose come la belladonna, lo stramonio e il giusquiamo, dotate di proprietà allucinogene. Il volo verso il magico noce si rivela così volo della memoria, fuga della visione, sete del fantastico.

Dalla quarta di copertina

I MISTERI DI MITHRA, Cosmologia e salvazione nel mondo antico

DAVID ULANSEY
I MISTERI DI MITHRA, Cosmologia e salvazione nel mondo antico
Edizioni Mediterranee, Roma, 2001
Una nuova spiegazione delle origini dei misteri mitriaci basata sulla constatazione che la strana iconografia appartenente al culto tributato in epoca romana (dal I al IV secolo d.C.) al dio Mithras — derivazione, secondo Io studioso Cumont, del dio iranico Mithra — è un complesso codice cosmologico creato da una cerchia di filosofi e scienziati per tradurre in simboli la loro dottrina occulta.
Gelosamente custodita, la conoscenza esoterica di questa potente divinità era ritenuta una chiave di accesso privilegiata ai favori che essa poteva elargire: la liberazione dalle forze del fato che risiedevano nelle stelle e la protezione dell’anima durante il suo tragitto, dopo la morte, attraverso le sfere planetarie. Mithras era in grado quindi di accompagnare l’uomo nella sua esistenza terrena e ultraterrena e di portare a salvazione la sua anima.
Da questo punto di vista lo studio del mitraismo è estremamente importante per comprendere la matrice culturale da cui prese le mosse una religione ben più rilevante e duratura: il cristianesimo. Le due fedi furono infatti sorelle, si diffusero grosso modo nella stessa epoca e nella medesima area geografica, cercando di dare risposte differenti a un identico desiderio di trascendente.
Dalla quarta di copertina.

domenica 9 novembre 2008

Mitra, un antico culto misterioso tra religione e astrologia.

Alexander Von Pronay
Mitra, un antico culto misterioso tra religione e astrologia.
Convivo, Firenze, 1991

L ‘OPERA — Il culto di Mitra, il dio nato dalla roccia, trova le sue antiche origini nell’altopiano persiano, in epoche preistoriche; culto misterico caratterizzato da una rigida etica, si affermò prima in Asia Minore e poi in Grecia, a Roma e in tutto l’Occidente, specie nelle regioni nordiche. All’epoca della sua maggiore diffusione il Mitraismo fu un movimento religioso di grandissime proporzioni, tale da presentarsi come reale antagonista alla diffusione del Cristianesimo stesso. Approfondendo questa prospettiva storica, che apre capitoli nuovi nella storia delle religioni, l’essenza, il potere e il destino dei segreti culti misterici orientali affiorano in una rete di relazioni finora sconosciute, in cui trova posto e fondamento l’astrologia, con i suoi contenuti religiosi e occulti.

Da pagina 13
MITRA, IL DIO PERSIANO
NATO DALLA ROCCIA

Più di mille anni erano trascorsi in peregrinazioni allorché Mitra trovò dimora nelle grotte-tempio dell’Impero Romano, più precisamente presso le guarnigioni dei legionari sul Limes, il vallo di confine posto tra Reno e Danubio. Il culto di Mitra era giunto a Roma nell’anno 67 a. C., proveniente dall’Asia Minore, ma la sua impronta effettiva, o meglio il suo perfezionamento, lo aveva ricevuto in Mesopotamia. E comunque possibile far risalire le sue tracce originarie all’altopiano persiano, al periodo che addirittura precede l’Età della Pietra.

La Religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico

Dario Sabbatucci
La Religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico
Il Saggiatore, Milano, 1988

« Ho voluto esporre la religione romana per mezzo del suo calendario festivo. E una scelta che ha due spiegazioni. La prima: ho creduto vantaggioso calare la materia in una struttura romana piuttosto che in una nostra, inevitabilmente condizionata dalla nostra religione, dal nostro concetto di religione, e dunque fuorviante in proporzione al condizionamento stesso. In sostanza, ho rifiutato il modello manualistico corrente, per seguire un modello antico, quello che ha indotto Ovidio ad esporre la religione romana per mezzo dei Fasti, appunto per mezzo del calendario festivo. La seconda: ho seguito l’indicazione di uno dei più geniali antichisti che io conosca, K. Kérenyi, il quale ci ha insegnato a considerare “la religione antica come religione della festa”.
Il calendario festivo, dovunque ne sia stato formulato uno, è lo strumento con cui si dà ordine al tempo: lo si cosmicizza, lo si rende agibile all’uomo. Enorme è dunque la sua importanza per le religioni che, come la romana, concernono la vita “temporale”. Chi non si è lasciato fuorviare è giunto a definire il calendario romano la Magna Charta della religione di Roma antica.
Ora la questione è: quale Roma antica? Il calendario che ho utilizzato è riferibile alla Roma medio-repubblicana, alla Roma già pienamente storica. E un calendario che comunque rivela presupposti d’età anteriori, la monarchica e la paleo-repubblicana, che, quando mi è stato possibile senza cadere nel gioco delle congetture, ho debitamente messo in evidenza. Ho dunque lasciato fuori i moltissimi culti d’età imperiale, tranne che nei casi, pochissimi, in cui è stato possibile ravvisare lo sviluppo di culti precedenti. Fuori dalla realtà calendariale da me proposta sono state lasciate le religioni di Iside e di Mithra, per quanto regolarmente quotate dai tardi calendari d’età imperiale. Ha invece trovato un suo spazio il culto di Cibele, e a suo.

Dal risvolto di copertina

I Romani

R.H. Barrow, I Romani, Mondadori, Milano, 1962

La civiltà di Roma ha contribuito in modo determinante alla formazione di quelle nazioni che un tempo costituivano le province di un immenso impero e che, dopo le invasioni barbariche, assunsero i loro caratteri peculiari. Inoltre la tradizione romana, dalla storia alla letteratura, dal diritto all’architettura, ha improntato di sé tutta la cultura del Medioevo e dell’epoca moderna. Partendo da tali considerazioni l’autore di questo libro si propone di individuare i cardini di una struttura che si è dimostrata cosi vitale anche dopo il suo crollo politico. I rapporti fra stato e individuo, fra libertà e controllo dall’alto, il conflitto fra uso e abuso del potere, il problema della civilizzazione dei popoli più arretrati, la condizione di duplice lealtà dei sudditi verso Roma e verso la propria cittadinanza, sono alcuni degli argomenti trattati dal Barrow in questa rapida ed efficace sintesi. Le direttrici di un’evoluzione che iniziò nel 753 a. C. e che nei suoi riflessi postumi non si è ancora esaurita, emergono dalla lettura di queste pagine con la costante di una perenne attualità.

Dal risvolto di copertina

L’idea laica nell’Italia contemporanea.

Tina Tomasi
L’idea laica nell’Italia contemporanea.
La Nuova Italia, Firenze, 1971
Dal dibattito tra Chiesa e Stato nell’italia preunitaria al laicismo della destra storica, dai bilancio politico delle associazioni operaie e delle leghe per l’insegnamento popolare al riformismo dell’età positivista, dalla crisi giolittiana alla controffensiva spiritualista, dalla fioritura dell’idealismo alla critica pedagogica d’ispirazione marxista, dall’eclissi dell’idea laica nel periodo fascista alla gestione democristiana del ministero della P.I., dal cattolicesimo postconciliare alla « nuova risposta » laica: una storia del pensiero educativo e della politica scolastica nella prospettiva del conflitto tra le forze sociali e culturali che ha costituito la storia d’italia nell’ultimo secolo.
Dalla quarta di copertina

Pagina del Manoscritto del Popol Vuh

Pagina del Manoscritto del Popol Vuh

“Augusta miseria”

Carlo Crocella
“Augusta miseria”
Aspetti delle finanze pontificie nell’età del capitalismo
Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1982

In questo volume si affronta un argomento che ha interessato gli storici e attirato in pari tempo l’attenzione dell’opinione pubblica. Il problema delle finanze pontificie si pose in modo drammatico sin dalla prima metà dell’Ottocento e divenne ancora più grave dopo che lo Stato della Chiesa perse, nel 1859-60, le sue regioni più ricche. Al problema della sopravvivenza dello stato si aggiunse allora quello ben più grave di trovare risorse per far fronte al governo della chiesa universale. A parte taluni espedienti monetari del cardinal Antonelli,si ricorse per lo più a prestiti internazionali. Banchieri, finanzieri, capitalisti “cattolici” talora spregiudicati come il belga Langrand-Dumonceau - finito in bancarotta nel 1870 e sottrattosi con una fuga ad una dura condanna - avanzarono iniziative e proposte per una istituzione o organizzazione finanziaria cattolica a servizio del papa. Ma il soccorso alla Santa Sede non giunse dai grandi capitalisti, quanto piuttosto dai fedeli di tutto il mondo che diedero vita a una colletta, prima spontanea, poi via via sempre più organizzata, che fu l’Obolo di San Pietro. Gli umili credenti non pensavano a far prestiti; preferivano donare al pontefice, perché egli potesse rispondere liberamente alla domanda religiosa che saliva dal basso e conservare la chiesa in decoro-sa povertà.
caduta Roma nel 1870 le risorse dell’Obolo cominciarono ad eccedere i bisogni e le spese della Curia romana. Nacque allora il problema di come investire il sovrappiù. E fu così che la Chiesa si ritrovò impigliata in quel mondo capitalista che in linea di principio non aveva mai potuto accettare, e in un giro di banche, banchieri e affaristi pronti a strumentalizzare anche i più alti valori religiosi.


Indice del volume. Presentazione di Giancarlo Mazzocchi. Premessa. 1. La crisi finanziaria dello stato pontificio dopo la Restaurazione. 2. Le proposte dei capitalisti cattolici per la ripresa economica dello stato della Chiesa. 3. La politica monetaria del cardinal Antonelli. 4. L’Obolo di san Pietro. 5. Venti Settembre: una sconfitta vantaggiosa. Alcuni interrogativi.

Dalla quarta di copertina.

Una pagina del processo a Giovanna D'Arco


Una pagina del processo a Giovanna D'Arco

venerdì 7 novembre 2008

I Piaceri a Roma

Jean Noel Robert, I Piaceri a Roma, Rizzoli, Milano, 1985
“Le terme, il vino, le donne: questa è la vita.” è il testo di una iscrizione funeraria romana di epoca imperiale. Come molte altre analoghe, essa manifesta senza ipocrisie la concezione dell’esistenza propria di una civiltà che vedeva nella dea Venere — la divinità del piacere — la propria progenitrice. La società romana era attraversata da enormi squilibri sociali: accanto a una classe che aveva ammassato (e che spendeva) immense ricchezze, esisteva la plebe miserabile e oziosa — la cui esistenza è stata descritta in un altro volume di questa collana, I bassifondi dell’antichità, di C. Salles —, mantenuta quasi esclusivamente dai donativi pubblici e dal lavoro degli schiavi. Ricchi e poveri sono dominati da un’uguale ansia di godimento: ciascuna classe elabora una propria “arte di vivere”. Nella metropoli immensa e frenetica, che dobbiamo immaginare più simile a una casbah orientale che a una città moderna, i cittadini passano la maggior parte della loro giornata nelle strade, nel foro, in quei “palazzi per il popolo” che sono le basiliche e soprattutto le terme. Ogni romano, uomo o donna, vi passa in media due ore della sua giornata: a lavarsi, a giocare, a bere, ad amoreggiare, forse soprattutto a chiacchierare — anche questo uno dei piaceri dell’esistenza, a cui i Romani si dedicano ai più vari livelli. Vi sono, nella sola Roma, novecentocinquanta edifici termali, dai più piccoli a quelli giganteschi: un servizio pubblico completamente gratuito (ma vi sono anche, non dimentichiamolo, ventotto biblioteche anch’esse pubbliche, con una media di diecimila volumi ciascuna!). Un numero incredibile di giornate è dedicato alle feste, sempre accompagnate da elargizioni e da spettacoli — naturalmente offerti dallo stato, o da qualche ricco cittadino. Essi sono di una grandiosità senza pari, tali da ricordare i più fastosi kolossal della storia del cinema: solo che a Roma non si trattava di finzioni, e le ricostruzioni di battaglie comportavano centinaia di morti, come le cacce nel circo (magari trasformato in una cera foresta) vedevano l’uccisione di migliaia di animali esotici. I1 fascino atroce del combattimento di gladiatori attirava plebei e patrizi e grandi dame.
Questo gusto per lo spettacolo si riflette anche nell’altra grande occasione di piacere: il banchetto. Gli eccessi barocchi e stravaganti dei ricchi Romani a tavola — oggetto, fin da allora, della satira divertita e feroce di un Orazio, di un Giovenale, di un Petronio — prendono infatti l’aspetto di sorprendenti finzioni teatrali che si riallacciano a complessi e inattesi riferimenti culturali: mitologici, astrologici, letterari.
Se la vita del cittadino comune tende a svolgersi nei grandi spazi pubblici, quella delle classi superiori tende a chiudersi nelle grandi dimore, in cui il ricco romano profonde tesori. Preziose opere d’arte, razziate o acquistate a peso d’oro in Grecia e in Oriente, arredano gli ambienti resi confortevoli da impianti di riscaldamento e attrezzature igieniche in tutto paragonabili a quelli moderni, o popolano i giar1ini destinati a creare l’illusione della natura. E la contemplazione della natura è un altro grande piacere dei Romani, negato ai plebei: ne testimoniano le grandi ville, situate in posizioni stupende, messe in luce dagli archeologi o descritte dagli scrittori antichi. “Quando sono nella mia villa di Laurento — scrive Plinio — non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio, nessun timore mi turba.” E il piacere più grande: quello di essere in pace, con se stessi e con gli altri.

Dal risvolto di copertina

venerdì 10 ottobre 2008

La moglie del Profeta, sfida editoriale

Corriere della Sera 9.10.08
Una narratrice americana racconta la storia del fondatore dell'Islam e della sua sposa bambina
La moglie del Profeta, sfida editoriale
Divide la scelta della Newton Compton: pubblicare in Italia il romanzo
di Paolo Conti

«L o ammetto. Per pubblicare un libro del genere, occorre un bel po' di coraggio. Con Aisha si sfiora un tema delicatissimo come la religione. Ma spero che appaia subito chiaro come non ci sia nulla contro l'Islam, né contro Aisha, la sposa bambina di Maometto né tanto meno contro Maometto». Raffaello Avanzini è il giovane direttore generale della Newton Compton che il 16 ottobre distribuirà in Italia, nella traduzione di Micol Arianna Beltramini, il romanzo Aisha, l'amata di Maometto di Sherry Jones, giornalista americana alla sua prima opera letteraria. L'autrice assicura di aver studiato storia dell'Islam e numerosi testi di cultura musulmana «inclusa una biografia di Maometto che risale al XIV secolo» prima di affrontare la storia romanzata della giovanissima compagna del Profeta, sposata a nove anni di età. Nel testo ci si imbatte in particolari espliciti, come l'iniziazione sessuale dopo le prime mestruazioni della ragazzina: «Il dolore per la consumazione del matrimonio se ne andò subito. Maometto era così gentile. Essere nelle sue braccia era la beatitudine che avevo atteso per tutta la vita». Oppure, quando Aisha viene sospettata di adulterio a 14 anni e lei risponde «"Io, con Safwan? È ridicolo", dissi. "Sono la moglie del sacro profeta di Allah. Perché dovrei desiderare una nullità come lui?". Mi sentii addosso gli occhi di Muhammad. Vampate di calore mi attraversavano la pelle. Aveva sentito la bugia dietro la mia risata?» Tanta chiarezza poetica offenderà i musulmani in Italia? O accadrà ciò che è avvenuto a Belgrado dove, il 17 agosto, la comunità islamica ha chiesto attraverso il suo leader Muamer Zurkolic il ritiro del volume in quanto «offensivo per i musulmani»? Una cosa è certa. Denise Spellberg, docente di storia islamica all'università del Texas, ha giudicato l'opera un «romanzo porno- soft».
Il coraggio di cui parla Raffaello Avanzini (suo padre Vittorio, ora presidente onorario, fondò la casa nel 1969) è insomma motivato. All'inizio di agosto la casa editrice statunitense Ballantyne Book del gruppo Random House, aveva annullato la pubblicazione di The Jewel of Medina (titolo originale) perché la compagnia era stata avvertita che la pubblicazione avrebbe potuto essere offensiva per i musulmani. Ma il 7 ottobre, il libro è finalmente uscito negli Usa ma per i tipi della Beaufort Books che ha anticipato di una settimana la distribuzione, prevista per il 15 ottobre. L'editore Eric Kampmann ha chiarito di non aver ricevuto minacce ma ha spiegato di aver voluto accelerare i tempi perché «finalmente si parli del valore del libro piuttosto che di terroristi o editori fifoni». Nulla si sa invece sulla pubblicazione in Gran Bretagna da Gibson Square: il 27 settembre una molotov è stata lanciata contro l'ingresso della casa dell'editore Martin Rynja, in Londsale Square. Tre uomini sono stati arrestati con l'accusa di terrorismo. Da qui a novembre il libro uscirà in Ungheria, Germania, Danimarca, Macedonia. Poi in Brasile, Spagna, Grecia, Polonia, Russia.
Dunque Avanzini e la Newton Compton conoscono le incertezze della scelta: «Lo abbiamo messo nel conto, il libro qualche fastidio lo darà. Ma la nostra cifra è l'indipendenza e abbiamo deciso di andare avanti lo stesso. Dopo la Fiera del Libro di Francoforte, Sherry Jones sarà nostra ospite in Italia e stiamo organizzando un suo tour per la prima parte di novembre. Affronteremo inevitabili misure di sicurezza. Qualche frangia estremista può sempre agire. Ma per noi l'opera è un bel romanzo storico che può mettere in contatto due culture diverse, l'occidentale e quella islamica. Non c'è alcun insulto a una figura considerata santa nell'Islam ». Cosa dicono gli altri editori italiani? Avrebbero pubblicato un romanzo così «scomodo»? La parola a Carmine Donzelli: «Non si può ragionare in astratto, dipende dalla qualità del libro. Per un capolavoro sarei disposto sicuramente a rischiare, anche se a lume di naso bisogna comunque stare attenti nel valutare se un libro possa davvero produrre effetti devastanti. Se invece si trattasse di un'opera che titillasse la semplice curiosità, non ne farei nulla. Qui sta, a mio avviso, l'etica della responsabilità di un editore». Avrebbe pubblicato I versetti satanici di Salman Rushdie, Donzelli? «Sicuramente, correndo tutti i rischi. Parliamo di un grande ». Analogo l'approccio di Elido Fazi, della Fazi editrice: «L'importante, rispetto al rischio, incluso quello religioso, è la qualità del prodotto. Dopo l'11 settembre ci prendemmo la responsabilità di pubblicare Fine della libertà, in cui Gore Vidal quasi giustificava le ragioni dell'attentato per l'arroganza degli Stati Uniti nell'ultimo mezzo secolo. Fernanda Pivano mi telefonò: "Voi siete pazzi, ma come vi viene in mente?". Invece ne valeva la pena. Questa è libertà, questa è responsabilità. E il discorso varrebbe anche per un libro di eventuale sfondo religioso».

giovedì 2 ottobre 2008

Quando il triangolo non è solo un simbolo

Corriere della Sera 2.10.08
Archeologia. Waldemar Deonna
Quando il triangolo non è solo un simbolo
di Armando Torno

La Nike di Paionios, conservata al Museo di Olimpia, è il punto di partenza di Waldemar Deonna (1880-1959) per riflettere su una delle figure enigmatiche della storia e cariche di simbologia: il triangolo sacro. Più che un saggio questo libro è una dotta odissea tra iconologie fiorite in tempi e luoghi diversi, legate tra loro da un segno che si ritrova sui frontoni dei templi greci, nell'Italia etrusca e romana, nei culti pagani e anche in quelle culture lontane dal Mediterraneo. Ma esso è presente anche nell'architettura moderna, nell'iconografia vegetale e animale, negli utensili, perfino nelle armi. Marco Bussagli nella prefazione ricorda che le domande di Deonna «sono da antropologo nel senso più ampio del termine».
Pagine dense (metà libro è costituito da note), ricche di intuizioni e di intrecci tra civiltà e tendenze, nelle quali il lettore pensa in un primo momento di perdersi. Ben presto, tuttavia, si accorge di essere coinvolto; in ogni percorso di Deonna c'è materia per stupirsi, come quando l'autore analizza la forma del triangolo e ricorda che questa figura geometrica può essere unica e multipla, che molti simboli si associano ad essa e che le religioni non riescono a liberarsi dalla sua forza. Figura sacra già nel mondo punico, Freud la sessualizza e ricorre ad essa per spiegare i culti contemporanei che passano attraverso la materialità del corpo. Del resto, il triangolo è in noi. O meglio, fa parte dell'anima.
WALDEMAR DEONNA Il triangolo sacro MEDUSA PP. 192, e 18,50

martedì 9 settembre 2008

E Aby scoprì Bruno. Warburg era rimasto profondamente colpito dalla figura del filosofo condannato al rogo

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
E Aby scoprì Bruno. Warburg era rimasto profondamente colpito dalla figura del filosofo condannato al rogo
In un quaderno di appunti inediti arrivò a definirlo un anticipatore di Nietzsche
di Carlo Ossola

Il secondo volume dègli scritti di Aby Warburg - il primo apparve nel 2004 presso lo stesso editore - presenta non solo una vasta antologia dell'ultima parte dell'attività di ricerca e della vita di Warburg, ma offre al lettore un prezioso manipolo di inediti, principali dei quali sono le tre versioni della conferenza su Ghirlandaio tenuta alla Biblioteca Hertziana di Roma nel maggio del 1929 e un quaderno febbrile di appunti su Giordano Bruno, che accompagnerà lo studioso - come ha finemente ricostruito Maurizio Ghelardi nella sua Introduzione - sino alla vigilia della morte, quando i126 ottobre 1929, alle 4 della mattina, annoterà: «Perseo, oppure "Estetica energetica come funzione logica nel problema dell'orientamento in Giordano Bruno": ho finalmente scelto il titolo della mia prolusione». Poche ore dopo sopravvenne la morte.
Ora l'opera di Warburg e la sua importanza sono troppo note per ritornare sull'emblematica conferenza "hertziana" (alla quale SilviaDe Laude ha dedicato importanti studi, in rapporto anche alla presenza romana di Curtius). Merita qui prestare una prima attenzione al quaderno bruniano. Si tratta di 45 fogli di appunti che risalgono al soggiorno in Italia di Warburg e di Gertrud Bing (Rimini, Orvieto, Roma, Napoli, Capua, tra l'autunno del 1928 e la primavera del 1929). Gli appunti indicano subito umi direzione forte di lettura di Giordano Bruno: «Rafforzamento della rivolta attraverso l'afferrare»; ascesa e indiamento attraverso il ricorso al mito orfico di conoscenza e sacrificio: «L'ascesa immaginaria e sacrificio-pratica» (20.V.1929). E negli stessi giorni: «Un giorno: Spaccio delle tenebre grazie alla luce esterna (Mitra) e a quella, interna (G. Bruno)».
La figura del Nolano lo cattura al punto che Warburg si troverà indeciso se collocarlo, a fronte del Don Chisciotte, tra ifondatori dell'imperativo categorico: «Don Chisciotte / Chevalier errant / del concetto di infinità/ "Sfida" / imperativo categorico / / Giordano Bruno /Igino moralizzato / sul fondamento umano / individuale / attraverso / una emulsione dinamica / la riforma della umana/causalltàfigurativa / Sorgere dell'imperativo / categorico» (Roma 2. XII. 1928), o se porlo come un antesignano di un dionisismo non luttuoso: «Ripristino della dinamica / umana (non si tratta della luttuosità) passionale/ Giordano Bruno» (f. 28), sino a figurarlo come un precursore di Nietzsche: «Negli Eroici Furori giunto al punto in cui Atteone da predatore diventa preda della solitudine pensante».
Ora quando si consideri l'importanza che Warburg attribuisce, nel suo sistema, al pensiero di Nietzsche, e proprio nelle stesse settimane "bruniane" in cui preparail resoconto (18 maggio 1929) suL'antico romano nella bottega di Ghirlandaio, che così comincia: «Nietzsche, nellaNascita della tragedia (1886), ci ha insegnato a considerare l'Antico attraverso il simbolo della doppia erma di Dioniso e Apollo»; quando ancora si ricordi che sin dal 1908 il Nietzsche che lo cattura è quello dionisiaco: «Ogni epoca, in base allo sviluppo della sua visione interiore, può comprendere ciò che dei simboli olimpici è in grado di riconoscere e di sopportare. Al nostro tempo, ad esempio, Nietzsche ha insegnato a vedere Dioniso» (voI. I, 504); non sarà allora indebito supporre che Giordano Bruno venga, nel pensiero di Warburg, a colmare l'aporia di un "nietzschianesimo senza Nietzsche" ormai vigente dopo le coloriture wagneriane e i miti ariani sempre più presenti nella coeva propaganda nazionalsocialista (e che lambiscono, problematicamente, anche il quaderno di Warburg: «Spaccio della Bestia I I Venerazione dell'energetica socialmente utile» (1O.VLI929). Dostoevskij, di fronte alle stesse aporie del come «emergere dal caos», aveva scelto l'Idiota -Don Chisciotte, Warburg il furore orfico, e rigeneratore, brunian-nietzschiano.
Giordano Bruno veniva così a compiere (con conseguenze che si proietteranno su tutta la scuola warburghiana, a cominciare da Frances Yates, e sulla recente ricezione italiana, satura di miti bruniani) la parabola iniziata nel primo soggiorno italiano di Warburg e ricordata anche nell'ultimo quaderno: «Botticelli (arazzo) I Poliziano I Urbino I GiordanoBruno» (24,XILI928).
È tempo di interrogarci, come storici, sulla "funzione Giordano Bruno" nell'Italia unita e nella determinazione dei miti che reggeranno il senso del letterario da fine Ottocento a fine Novecento. Indubbiamente la lettura warburghiana, seppure sul versante del «ripristino della dinamica passionale», corrobora quella proposta dal De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), ove il Bruno 1 incarna - accanto a Galileo - il modello della "Nuova scienza" -una scienza politico-filosofica coesa a Machiave1li: «Machiavelli aveva già parlato di uno spirito del mondo immortale e immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Q,uello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il fabbro del mondo, il suo artefice interno».
«Materia assoluta»: bene si vede come le patrie lettere siano state orientate da questa lettura, sì che esaurite le aure del materialismo storico, la letteratura italiana e la sua critica (dopo Gramsci e Vittorini, Fortini e epigoni) giacciano.
Era possibile altra via? Warburg stesso l'aveva suggerita nelle note a La "Nascita di Venere" e la "Primavera" di Sandro Botticelli (1893), in cui richiama i debiti contratti con l'edizione di G. Carducci, Le Stanze, l'Orfeo e le Rime diM.A. Poliziano (Firenze, Barbera, 1863). Recentemente Giovanna Cordibella (in «Lettere Italiane», n.4, zo07) ha evocato l'importanza di quel debito; ma si dovrebbe andare ben oltre: la formula stessa «rinascita del paganesimo antico» sembra debitrice al Carducci il quale, chiudendo il capitolo dedicato a Firenze nell'ultimo Quattrocento, così si congedava da Savonarola: «E non sentiva che la riforma d'Italia era ilrinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani».
Sappiamo che lo splendido saggio carducciano Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871), da cui è tratta la citazione, fu soccombente e s'imposegrazie anche alle funzioni di ministro dell'Istruzione più volte esercitate dal suo autore - il coevo profilo del De Sanctis, nel quale la condanna in blocco del Cinquecento è senza appello: «Quello era il tempo che i grandi stati d'Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la patria. E quello era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo. Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione» (cap. XVII. Torquato Tasso).
Carducci, più sensibile alla continuità storica di una grande civiltà classica nel nostro Cinquecento, ben diversamente lo giudicava, opponendosi esplicitamente al De Sanctis: «Spettacolo che altri potrà dir vergognoso e che a me apparisce pieno di sacra pietà, cotesto d'un popolo di filosofi di poeti di artisti, che in mezzo ai soldati stranieri d'ogni parte irrompenti séguita accorato e sicuro l'opera sua di civiltà. E il canto de' poeti supera il triste squillo delle trombe straniere, e i torchi di Venezia di Firenze di Roma stridono all'opera d'illuminare il mondo. Cara e santa patria! Ella aprì alle menti un mondo superiore di libertà e di ragione; e di tutto fe' dono all'Europa».
Dei due Warburg, quello giovanile fiorentino-carducciano e quello senile nolano-nietzschiano, oggi - in tempi nei quali accade di dover contemplare di nuovo il "paese guasto" - verrebbe voglia di tener caro il primo, quello della pagana pietas piuttosto che degli schiavi ed eroici furori. Non la politica, ma la poesia. In stagioni (quanto dureranno?) nelle quali la prima è squallida, servirebbe, come insegna Carducci, salvare almeno la seconda, per le future generazioni e per la nostra dignità.
Aby Warburg, «Opere. II: La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929»), a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, pagg.1.006, € 65,00.

venerdì 5 settembre 2008

recensione del libro: Gnomi

Pubblichiamo una recensione del libro di Wil Huygen e Rien Poortvilet "Gnomi", la recensione è del 1979 ed è stata scrittica da Luigi De Anna. In alcune sue parti il testo può essere considerato fortemente datato e rispecchiante il clima culturale del tempo. Tralasciamo questi punti perchè la parte rimanente del può essere considerata ancor'oggi valida ed interessante.


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domenica 31 agosto 2008

Salwa al-Neimi rivendica l'appartenenza a una tradizione che ha sempre esaltato il sesso

Corriere della Sera 31.8.08
Salwa al-Neimi rivendica l'appartenenza a una tradizione che ha sempre esaltato il sesso
E la giovane araba scopre l'eros
Vietato in quasi tutto il mondo islamico, «La prova del miele» è già un caso
di Cecilia Zecchinelli

PARIGI — «Come posso gridare al mondo la mia passione per Georges Bataille, Henry Miller, il marchese de Sade, Casanova e il Kama Sutra e non nominare nemmeno Al Suyuti e Al Nafzawi?», si chiede la narratrice senza nome e senza pudori in La prova del miele (tradotto da Francesca Prevedello per Feltrinelli). «Perché tanta sorpresa in Occidente per un libro erotico in arabo, se non per il solito falso cliché che ci vede tutti nemici del sesso, le nostre donne vittime e oppresse? », ci chiede Salwa al-Neimi, autrice dell'opera diventata ormai caso letterario e campione di vendite (anche) nel mondo arabo. Nel cortile del prestigioso Institut du Monde Arabe di Parigi, dove lavora da anni dopo un passato da giornalista letteraria, Salwa ci parla di Al Suyuti e Al Nafzawi, di Al Tigani e Unsi Al Hajj. Ovvero dei grandi autori classici che secoli fa all'eros dedicarono studi e trattati, ne derivarono gloria e ammirazione. E molti di loro, ricorda, erano sheikh religiosi, credenti e pii. «Perché nel mondo arabo-islamico il sesso non è mai stato peccato, anzi il nostro è l'unico popolo, io credo, per cui l'eros è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio». Al punto che «tra gli effetti positivi del coito, dicevano i classici, c'è l'anticipazione del paradiso».
È tutta nel solco della (ri)scoperta dell'eredità erotica araba la prima opera in prosa («non è un romanzo, piuttosto un testo libero») della Neimi. Una sorta di diario- confessione di una giovane araba («non ha problemi di identità anche se vive in Francia, è libera») che nel sesso scopre davvero il suo paradiso. Leggiamo dal libro: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio». «Non ho altri modelli che me stessa. Non sono in cerca di una fatwa che mi dia il permesso di concedermi ai miei uomini». E ancora: «Chi desidera il mio corpo mi ama, chi ama il mio corpo mi desidera. È il solo amore che conosco, il resto è letteratura ». «Se il mistico Al Juneid scriveva "Ho fame di coito come ho fame di cibo", io dico "Ho sete di acqua, di sperma, e parole"».
Nelle centodue pagine della Prova del miele avvenimenti ce ne sono ben pochi: aneddoti, citazioni e molte riflessioni piuttosto, divisi in capitoletti dedicati come nei testi antichi ciascuno a un tema (l'hammam, la dissimulazione) o a una storia intrecciata a quella della protagonista (la massaggiatrice, il sesso arabo nella City). Ma nemmeno i personaggi (gli «amanti» dai nomi un po' pretenziosi, come il Viaggiatore o il Lontano) hanno personalità delineate e chiare. Ad eccezione del più desiderato e forse perfino amato, il Pensatore, che risveglia nella narratrice la vera passione (il miele), e con lei condivide l'amore, ancora una volta, per i classici e per la lingua araba. «Più di qualsiasi altra la lingua del sesso », che anche in traduzione a volte resiste. Come nella discussione tra lei e il Pensatore su che termine in arabo classico sia più adatto per descrivere la sodomia femminile (la narratrice finirà per inventarlo).
Non che sia tutto così facile, in realtà. La visione dell'Occidente di un mondo islamico sessuofobo oggi è più vera che in passato; moltissimi arabi non conoscono e nemmeno immaginano quei famosi trattati d'amore carnale compilati per giunta da uomini di fede; l'idea che una donna possa scriver di sesso per molti è uno scandalo. E La prova del miele, uscito a Beirut nel gennaio 2007 con la scritta «vietato ai minori» (e lì apprezzato perfino da Al Akhabr, quotidiano del Hezbollah) è stato infatti proibito quasi ovunque nel mondo arabo, esclusi solo il Maghreb e Dubai. «Perfino in Egitto e nella laica Siria, la mia patria, il libro è bandito, anche se per strada lo vendono di nascosto e con Internet arriva ovunque. E ho ricevuto minacce, insulti», dice la Neimi. Censura e attacchi, uniti all'etichetta «il primo libro erotico scritto in arabo da una donna» (record controverso ma in sostanza vero) che hanno però aiutato molto il libro in Occidente. Alla Fiera di Francoforte già 17 Paesi (dal Giappone alla Turchia) lo hanno comprato, in alcuni casi con aste e prezzi assai alti. «Pensare che nei cinque libri di poesie che ho pubblicato in passato l'erotismo era altrettanto presente, ma nessuno li ha mai trovati interessanti », sospira la Neimi.
A sentire lei il successo del Miele sta quindi, soprattutto, «nella lingua facile, moderna, diretta che riesce a parlare anche ai giovani ». Vero forse per la versione originale, in arabo. Mentre è difficile credere che in Occidente non abbia pesato e non pesi quel mix di censura-erotismo-orientalismo che volutamente l'accompagna: l'edizione italiana lo presenta come «le confessioni impertinenti di una Sheherazade contemporanea », cliché che le scrittrici arabe affermate rifiutano da tempo e con forza. Ma comunque sia, ben venga il Miele di Salwa. Per sfatare qualcuno dei tanti falsi miti dell'Occidente sul mondo arabo. Per ricordare a quest'ultimo un passato più libero e in fondo più gioioso. Per chiedersi (siamo umani e curiosi) se questa non sia un'autobiografia. Domanda a cui l'autrice risponde, sorridendo: «Magari».
Il diario-confessione
Dice la protagonista: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio»

giovedì 28 agosto 2008

I Rotoli del Mar Morto presto consultabili su Internet

l’Unità 28.8.08
Israele. I papiri, vecchi di duemila anni, furono rinvenuti nel 1947
I Rotoli del Mar Morto presto consultabili su Internet

Ci vorranno ancora alcuni anni ma, a progetto concluso, una banca dati permetterà a tutto il mondo di accedere in internet ai Rotoli del Mar Morto, fotografati ad altissima risoluzione, e alla documentazione relativa. Il progetto, presentato ieri Gerusalemme dall’Autorità per le Antichità di Israele, ha tra i suoi obiettivi anche la conservazione e il monitoraggio delle condizioni dei preziosi rotoli che, ha sottolineato Pnina Shor, capo del dipartimento per la cura e la conservazione dei reperti, «sono un patrimonio dell’Umanità». I Rotoli, che furono scritti alla fine del III secolo a.C. e in gran parte tra il I a.C. e il I secolo d.C., furono scoperti da un beduino in una grotta del Mar Morto nel 1947. Comprendono il più antico testo scritto esistente del Vecchio Testamento (ad eccezione del Libro di Ester), oltre a salmi, inni e testi apocrifi. I Rotoli, che hanno enorme importanza storica, religiosa e culturale, aiutano a far luce su un periodo di grandi sconvolgimenti nella storia del popolo ebraico alla fine del Secondo Tempio e sulla storia del primo Cristianesimo. Per 35 anni un gruppo di soli dieci studiosi aveva monopolizzato la pubblicazione dei testi. A parte pochi lunghi Rotoli, tutti gli altri consistono in circa 12 mila frammenti - conservati nel Museo di Israele - che i ricercatori hanno raccolto con certosina pazienza in circa 1200 lastre.

martedì 26 agosto 2008

SICILIA - L'Atlante della Sicilia che segnalava i templi

SICILIA - L'Atlante della Sicilia che segnalava i templi
MARIO DI CARO
la Repubblica (Palermo) 12/08/2008

MOLTI anni prima dei voli charter e dei tour operator, l´antenata delle guide turistiche segnalava ai viaggiatori del Settecento le castagne dell´Etna, "rinomate per la loro grassezza". E non solo. La carta-atlante di Giovan Battista Ghisi, datata 1779 ed esposta a Ustica dalla Fondazione Banco di Sicilia, focalizza alcune tappe peculiari del viaggio in Sicilia, allora così di moda tra gli aristocratici e gli intellettuali del Nord Europa.Infatti la carta dedica una serie di finestrelle al porto di Augusta, ai templi della Concordia e di Ercole a Girgenti, al porto e alla fortezza di Messina, alle vedute di Trapani e del già citato monte Etna. Proprio come fanno oggi le guide turistiche illustrate che focalizzano i luoghi di particolare interesse con fotografie eloquenti.
Erano gli anni in cui la Sicilia catalizzava l´interesse dei viaggiatori illustri, da Wolfgang Goethe a Jean Houel, autore, guarda caso, nel 1782, di un prezioso "Voyage pittoresque de Sicilie, de Malta et de Lipari", in possesso del Museo Mormino di Palermo e anch´esso esposto al Vecchio Municipio di Ustica nella mostra realizzata in collaborazione con il Centro studi dell´isola. Anni in cui i diari e i disegni di questi grandi viaggiatori raccontavano di una Sicilia esotica che profumava ancora di cultura classica, di tradizioni arcaiche, di folclore autentico.
«I viaggiatori del grand tour partivano con itinerari già pronti, preparati sulla base delle indicazioni delle carte geografiche del Settecento - spiega Francesco Bucchieri, direttore del Museo Mormino della Fondazione Banco di Sicilia, a cui appartiene il patrimonio di carte e volumi esposto a Ustica - Venivano in Sicilia, come nel meridione d´Italia, a cominciare da Pompei, attirati dal richiamo della cultura classica. Consideriamo che in quel periodo la Grecia era sotto il dominio dell´impero ottomano e quindi pressoché inaccessibile».
Ma la carte del Ghisi, oltre alla straordinaria grafica, riserva un´altra sorpresa che la rende più simile a un´enciclopedia geografica che a una semplice carta geografica. Alla base del disegno, infatti, sono elencate le produzioni caratteristiche dell´Isola, un piccolo trattato di scienze naturali che dà conto dei minerali, dei crostacei, delle piante e delle erbe marine, delle saline, delle pietre, dei metalli, dei marmi, ma anche dei fossili, delle piante erbacee del faro di Messina, delle solfatare, dei bagni, fino alle piantagioni di carrubo, pistacchio, manna e seta. Insomma, una vera e propria rivoluzione della cartografia tradizionale, attenta, allora, alla divisione del territorio siciliano nelle tre province istituzionali, Val di Mazara, nella parte occidentale, Valdemone, a est, e Val di Noto, sud est. In quella Sicilia del 1779 che vedeva sul trono Ferdinando IV di Borbone, la carta del Ghisi, figlia del vento illuminista che soffiava dalla Francia, poteva considerarsi una vera e propria piccola enciclopedia geografica, fisica e politica, capace di fornire un surplus di informazioni al viaggiatore colto. «Non era una carta portatile perché difficilmente sarebbe stata nel bagaglio dei viaggiatori però permetteva di conoscere, a chi doveva intraprendere un viaggio, non solo la costa ma anche l´interno della Sicilia - continua Bucchieri - Diciamo che era un prodromo di quelle carte prodotte successivamente che si potevano piegare in 32 o 64 fogli, tra la fine del Settecento e i primi dell´Ottocento e che potevano agevolmente far parte del bagaglio. È una carta che rappresenta un punto di svolta tra il rilievo cartografico e la conoscenza del territorio e possiamo considerarla come un´antenata delle guide odierne».
La mostra di Ustica racconta anche del primo atlante sul regno di Sicilia, stampato a Bologna nel 1620 e curato da Giovanni Antonio Magini, mentre risale al 1781 un altro "Voyage pittoresque de Sicilie", a firma, questo, di Richard Saint Son, che fa il paio con il volume di Houel.
Il viaggio in Sicilia attraverso stampe e incisioni di carte geografiche si spinge fino al Cinquecento, quando nasce una serie di carte detta "veteris typus", che terrà banco fino al Settecento: le fonti da cui attingono i cartografi dell´epoca sono le opere degli storici siciliani, come il "De situ insulae Siciliae" di Mario Arezzo, stampato a Messina e a Palermo nel 1537, il "De rebus siculis decades duae" di Tommaso Fazello (Palermo 1558) e più tardi il "Sicilia antiqua" di Filippo Cluverio (1619) che conteneva la più accurata descrizione geografica dell´Isola e la topografia di tutte le città. Col passare degli anni e con l´incremento dei commerci marittimi nascono nuove esigenze di documentazione cartografica sulle coste del Mediterraneo che mettono in moto una produzione particolareggiata sulle isole, meno approssimativa di quella precedente attenta a indicare rotte e approdi piuttosto che soffermarsi sull´esatta configurazione. Editori e cartografi danno vita, così, al genere degli isolari, pubblicazioni con carte geografiche destinate esclusivamente ad illustrare le isole attraverso disegni aggiornati rispetto ai rilievi elaborati sulla base delle fonti tolemaiche. E così nel 1528 vengono stampati a Venezia gli isolari di Benedetto Bordone, poi quello di Leandro Alberti che si aggiunge alla "Descrittione di tutta Italia" con le incisioni sulla Sicilia e su tutte le isole d´Italia, fino alle "Isole più famose del mondo" di Thomaso Porcacchi con le illustrazioni di Girolamo Porro.
Si avverte il fascino esotico di terra remota da queste stampe vecchie di tre-quattro secoli: e infatti, nonostante il convergere di interessi politici, la Sicilia rimane un´isola poco conosciuta sino alla prima metà del Settecento come testimoniano le inesattezze contenute dalle carte. Persino Diderot e D´Alembert nello loro "Encyclopedie" riportarono indicazioni sbagliate alla voce "Palermo".

domenica 3 agosto 2008

Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo

La Repubblica 1.8.08
Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo
Jaspers di fronte al dio di Nietzsche
L´autore di "Così parlò Zaratustra" svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un vuoto che nessuno saprà come riempire
di Sergio Givone

Tramonta l´idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sarà un´apparizione grandiosa. Ma non è la dottrina dell´eterno ritorno o l´idea del superuomo a spiegare il caso-Nietzsche. I concetti che caratterizzano il suo pensiero sono per lo più iperboli filosofiche. Possono voler dire tutto, ma in realtà non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguità e contraddizioni l´opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un vuoto che nessuno saprà come riempire.
È quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pagg. 141, euro 14). Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo è la nostra provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di ciò che ne resta e di ciò che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario. E affermare, per esempio: la verità è una sola, quella della scienza, dunque la fede non ha più ragion d´essere.
Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l´autentico anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente «scrollarselo di dosso».
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a Ivan Karamazov, «fratello di sangue») Nietzsche ha imparato che la battaglia contro il cristianesimo dev´essere condotta con armi cristiane. Solo chi è intellettualmente onesto può permettersi di dichiarare che la fede non è più credibile. Ma è stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel particolare tipo di morale che consiste nel volere la verità a tutti i costi.
La verità incondizionata, assoluta, non una parvenza di verità, e tanto meno una verità buona a consolare ma non a convincere. In un´ottica cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, così premurosi e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la verità su di lui.
Per un verso Nietzsche usa i toni più duri e sprezzanti: «A chi oggi mi risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c´è un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto». Per l´altro parla di una tensione spirituale la cui origine è cristiana: «Anche noi che oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco dall´incendio scatenato da una fede millenaria». Con Goethe Nietzsche ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel cristianesimo che costringe l´uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia più grande di qualsiasi tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La risposta di Nietzsche è netta, inequivocabile: non resta più niente. O se si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui vastità non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i più, che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente è possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato con sé. Tra di essi c´è per l´appunto la dottrina dell´eterno ritorno e l´idea del superuomo. Ma c´è anche la sostituzione del dio cristiano con Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d´un certo eroismo sublime, che dice sì alla vita così com´è, col suo carico di gioia e di sofferenza e indifferente al bene e al male. Cui segue però da parte di Nietzsche la confessione: «Sono l´opposto d´una natura eroica», immediatamente affiancata dal riconoscimento d´una certa affinità con Gesù, il mite predicatore delle beatitudini. Fino all´identificazione con la più improbabile delle divinità: Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando il mondo si sarà liberato dal cristianesimo. Per sé egli riserva la parte della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non è lui il primo a sapere che la stella da cui viene un´ultima luce sul mondo è una stella ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed è che Nietzsche lancia «un grido micidiale» a coloro che si lasciano sedurre da lui e pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi cristiani: «A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia sapienza! Cavagli gli occhi!»

sabato 26 luglio 2008

Turista per belle biblioteche. Oxford, Dublino, Belfast, Parigi "Luoghi freschi e pieni di amici libri"

Turista per belle biblioteche. Oxford, Dublino, Belfast, Parigi "Luoghi freschi e pieni di amici libri"
LUIGI BOLOGNINI
VENERDÌ, 25 LUGLIO 2008 LA REPUBBLICA - Milano

L´itinerario di vacanza ideale del filosofo Giulio Giorello passa per magnifici scaffali e dotte letture Più qualche passeggiata e una pinta al pub
Hanno i muri spessi per conservare al meglio i volumi e chi li legge. E spesso fuori dalle finestre parchi con scoiattoli

Dove può andare in vacanza uno che vive circondato dai libri? Su un´isola tropicale? In un eremo montano di alta quota? No, tra i libri. E così Giulio Giorello, uno dei più noti filosofi italiani, docente di Filosofia della Scienza alla Statale, non pago di tre stagioni su quattro trascorse a casa e nel suo ufficio all´università tra libri alle pareti, pile di libri sui tavoli e libri da scrivere e da curare in prima persona, vive la bella stagione zingarando da una biblioteca all´altra. Con una netta predilezione per quelle anglosassoni. «Oxford, Dublino, Belfast, ma anche Stoccolma e Parigi. Questa sì che è vita. Anzitutto le biblioteche sono fresche: hanno i muri spessi per conservare i volumi, e chi li legge, meglio che si può. E poi sono posti meravigliosi, dove si apprende sempre qualcosa di nuovo, popolati di gente che ama la cultura».
La sua biblioteca preferita?
«Ho dei ricordi bellissimi della Bodleian Library, di Oxford. C´è un punto dove amo sedermi ed è sotto un affresco che dice "Deus illuminatio mea". Ha 12 milioni di volumi, è la cosa più simile alla Biblioteca di Babele inventata da Borges. Se si guarda fuori dalle finestre c´è un parco con gli scoiattoli che zampettano allegri, e al pub più vicino servono delle eccellenti birre, ovviamente inglesi quindi ale, quelle ad alta fermentazione, complesse e ricche di aromi, le mie preferite. Insomma, quasi il paradiso».
Altre biblioteche?
«Le due irlandesi, quella del Trinity College di Dublino, e quella di linen Hall a Belfast, magnifiche per maestosità e tradizione culturale. Quella della Citè universitaire di Parigi, dove spesso trovo le documentazioni necessarie per i miei libri, quella di Stoccolma. Tante, tante davvero».
Come mai sceglie i libri anche d´estate?
«Per due motivi. Il primo è che certi libri sono meglio di certi uomini. Il secondo è che io non concepisco il riposo come inerzia, per me deve esserci comunque movimento, del corpo e della mente. Non riesco a concepire una vacanza vacanza, così come non riesco mai a staccare davvero».
Avrà fatto qualche vacanza di tutto riposo, almeno da piccolo, no?
«Certo. Quando ero bambino avevamo una casa di campagna nella alta Val Bormida. Mi pareva un palazzo incantato, aveva anche gli affreschi alle pareti, era ben diverso dal trilocale dove abitavo a Milano. Vacanze bellissime, a parte una intorno ai 10 anni in cui in pochi giorni mi infilzai un chiodo a pochi millimetri da un occhio, mi venne la pertosse e morì il mio cane. Poi a Bormio, le cosiddette vacanze igieniche, per respirare l´aria buona. Ma non mi piaceva: era un paese pieno di turisti borghesotti arricchiti, dove sentivo cantare Giovinezza un po´ troppe volte per i miei gusti».
Libri a parte come sceglie dove andare?
«Mi faccio guidare dal caso e dalle esigenze del momento. Mi è anche capitato di passare l´estate a Milano, per lavorare».
E com´è? Tutti lodano la città in questa stagione, dicono che diventa bella e vivibile.
«Io no. O meglio, dico che è meno peggio del previsto. Ma l´ho sempre fatto per motivi pratici e non certo estetici, dovevo completare un libro di meccanica quantistica. Oltretutto io non guido, quindi che ci sia il parcheggio facile non mi importa un fico secco. Comunque un grande evviva ai ristoranti di cucina araba e nordafricana, che sono sempre aperti, ti fanno mangiare bene e ti trattano in modo civile, cosa che non sempre capita. Io ne ho due dove mi rifugio d´estate, si chiamo Le arcate e I Mori, nella mia zona, città studi».
Ma quindi Milano d´estate proprio non le piace?
«Mettiamola così, quando uno alza gli occhi al cielo estivo della città e vede la luna rossastra e il cielo nero, ecco, quello per me è un momento struggente. Nel senso che mi struggo dalla voglia di essere altrove».

venerdì 25 luglio 2008

Un saggio sull’amore nel ‘700

La Repubblica 25.7.08
Un saggio sull’amore nel ‘700
Cicisbei. Lui, lei e il cavalier servente
di Benedetta Craveri

Accompagnare assiduamente una donna sposata era una pratica diffusa. Specchio di un costume e di una morale
Un prodotto della società d’Antico Regime, che scompare nell’800
Un’indagine che investe il tema dell’identità nazionale italiana
Parini, Goldoni e Alfieri criticano aspramente il fenomeno

«Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento?
A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi.
Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata.
Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione.
Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani.
Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina.
La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti.
Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro.
Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento.

giovedì 24 luglio 2008

La vera storia dei templari

La Repubblica 24.7.08
La vera storia dei templari
Un saggio di simonetta Cerrini mette a confronto diverse fonti
Monaci, guerrieri e un po' maghi
di Susanna Nierenstein

La loro fu una rivoluzione: cavalieri antieroici frati antiascetici tolsero ai chierici il monopolio del sacro. Usarono la lingua volgare per aprire al popolo, non disdegnarono strani riti
La liturgia del giovedì santo: versato sull´altare del vino, poi veniva leccato
Non costruirono una memoria collettiva: e questo permise il nascere della leggenda

Monaci con licenza di uccidere nati tra il 1105 e il 1113, cavalieri armati eppure sottoposti al voto di povertà, castità e obbedienza al papa fin dal 1129, anno del Concilio di Troyes, guardiani della Terrasanta travolta dalle Crociate ma diffusi in tutto l´antico continente (in Italia avevano oltre 150 "case"), tanto pauperisti quanto straordinari accumulatori di ricchezze: sono questo e molto altro i Templari, cancellati dalla storia, ma non dalla leggenda, con il processo farsa per eresia che gli fece intentare il re francese Filippo il Bello e il successivo rogo che il 18 marzo 1314, sull´isola della Senna, davanti ai Giardini Reali, arse l´ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, insieme a Geoffroy de Charny, precettore di Normandia. Combattenti mistici e potenti entrati in un mito che li ha visti in possesso del Santo Graal piuttosto che di fantastici segreti sull´Arca della Santa Alleanza con le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè, o ancora custodi di sapienze su alcune verità riguardanti Gesù e di tesori ancora ricercati, piuttosto che detentori di un potere trasversale in grado di dominare il mondo o al contrario di una trasparenza etica diamantina destinata alle Rivoluzioni di tutti i tempi.
La Militia Salomonica Templi (titolo che deriva dalla Spianata del Tempio di Salomone, dove Baldovino II destinò a Gerusalemme la dimora dei Templari), al di là del templarismo nato e prosperato dal XIV secolo ai giorni nostri, ha però una storia vera. Ed è sulle loro origini reali che Simonetta Cerrini vuole indagare, mettendo sotto il microscopio e comparando i testi fondatori dell´ordine e della regola, nove manoscritti in latino e lingua d´oïl, tra cui uno rintracciato a Praga e studiato per la prima volta. Ne è nato un libro La rivoluzione dei templari. Una storia perduta del XII secolo (Mondadori, pagg. 238, euro 18,50).
Professoressa Cerrini, perché definisce rivoluzionaria l´intuizione di Ugo de Païens da cui nacquero i Templari?
«Perché la società del dodicesimo secolo, era divisa in una classe di oratores (la struttura ecclesiastica che gestiva il potere spirituale), in una di bellatores, laici e combattenti (che in un contesto guerriero come quello medievale erano l´equivalente dell´autorità civile, ovvero imperatori, re, nobiltà) e i laboratores, laici che costituivano il popolo senza diritti né autorità, dunque artigiani, servi, contadini. I Templari distruggono questo quadro».
In che senso?
«Sostengono da laici di essere anche chierici, laici combattenti con un´autonomia sul sacro. Alle origini, la Chiesa cristiana non prevedeva una divisione così forte come quella del XII secolo. Pensi agli imperatori, erano laici con una evidente autorità religiosa: Carlo Magno arrivò a cambiare la formulazione del "Credo". Più in generale la liturgia, le scelte teologiche e pastorali non erano affidate solo alla gerarchia ecclesiastica. Poi invece, con la Riforma gregoriana, i chierici si costituiscono parte a sé e si appropriano dell´intero potere spirituale, escludendone imperatore, re, nobili e scegliendo anche una maggior devozione e purezza, come col celibato, che fino ad allora non c´era. Dall´altra parte, il monopolio della guerra è dei laici, che diventano ben poca cosa rispetto a prima, e sono il mero braccio armato del potere spirituale. Ugo de Païens nella sua lettera manifesto rivoluziona ogni concetto e dice: noi Templari non siamo il braccio armato della Chiesa, siamo i suoi piedi, sorreggiamo il suo intero corpo ("Pes tangit terram, sed totum corpus portat") e ne facciamo parte».
E qual è il significato che lei vede in questa definizione?
«Significa che Ugo seppe uscire dallo stato di inferiorità in cui l´alto clero aveva messo il laico bellator, rivendicando la condizione più bassa, quella dei laboratores, dei poveri, uno stato attraverso cui passeranno anche religiosi come San Francesco d´Assisi e i suoi frati minori, e donne come Giovanna d´Arco».
Sembra palese anche il desiderio di tornare a un passato pregregoriano, senza separazione tra poteri spirituali e laici.
«In parte, ma Ugo non guarda a imperatori e re, quanto alla piccola nobiltà. In un certo senso "proletarizza" la regalità sacra. Ugo rivendica il valore degli umili. E apre anche alle donne. Crea una società intera dove trovavano posto mogli, suore, frati sposati o a termine, una società religiosa più ampia, dove il laico non è totalmente assoggettato al chierico».
Quali sono le circostanze storiche che generano i Templari?
«Dopo l´anno 1000, il mondo riprende a muoversi e vede nascere, come racconta splendidamente Le Goff, quello delle città, delle università, delle grandi cattedrali. Si assiste a un movimento popolare che esce dalla passività delle paure millenaristiche. In questo contesto non vedo le Crociate come guerre di conquista: lo dimostra il fatto che, dopo la vittoria, i combattenti tornano a casa e lasciano così sguarnito il territorio, che perciò ha bisogno di guardie armate: è da questa necessità che prendono vita i Templari».
Era più forte la loro natura religiosa o militare?
«Quella religiosa. Un dato che cambiò anche le regole militari: prima non esistevano eserciti fissi, mentre l´input monastico fece nascere la prima armata permanente. Anche la disciplina rigorosa copiò quella dell´ordine religioso».
Lei sottolinea l´importanza della lingua scelta per molti dei loro documenti, il francese antico, non il latino. Ci vuole spiegare meglio?
«Sì. Scelgono la lingua parlata, non esattamente langue d´oïl, perché ricca di apporti catalani, inglesi, fiamminghi, tedeschi, ungheresi. Una decisione importante perché fino ad allora alla spiritualità era riservato il latino, non esistevano trattati teologici in lingua volgare. Ugo così volle dare un accesso molto più largo a testi sacri importanti».
Chi furono i primi templari, nobili diseredati, religiosi fanatici?
«Né diseredati, né fanatici. Piccola nobiltà, ma nei Templari troviamo anche signori di rango, come nel 1125 il conte di Champagne, un altro Ugo, nei cui territori si svolgerà il Concilio di Troyes che ratificò l´ordine. Ma l´entrata dei grandi aristocratici non cambiava il livello di vita o i poteri della confraternita, che del resto non fu un luogo di upgrading sociale, almeno finché non divenne ricca e potente».
Antieroismo e antiascetismo qualificano i doveri del Templare: questo è quanto le è risultato dalla lettura dei manoscritti. Il contrario dell´immagine di guerriero sacro che ce ne siamo fatti.
«Me ne sono sorpresa anch´io. Ma il gruppo poneva binari attenti all´individuo che entrava: i laici novelli monaci tendevano a rendere eccessiva la tensione spirituale, cercavano l´ascesi, l´eremitaggio, il digiuno... ed ecco che la regola imponeva il riposo, e il mangiare a due a due sullo stesso piatto perché vi fosse un controllo reciproco. In quanto all´antieroismo, era vietata ogni forma di largesse e di vanteria: non a caso non esistono memorie delle loro gesta».
Lei individua una formula per la guarigione dei cavalli leggendo un foglio con la lampada di Wood (raggi ultravioletti). Qui sì che sembra di essere in un film sui Templari: eccoci all´uso di pratiche magico religiose. Fino a che punto si estendeva quest´aspetto inquietante e misterioso?
«Non ho trovato solo quella. Descrivo anche la liturgia del giovedì santo, dove veniva versato del vino sull´altare e poi leccato: si trova negli statuti dei templari, e, come mi ha fatto notare Barbara Frale, era una pratica seguita a Cipro dai cristiani orientali. Oppure potrei citare le reliquie con le teste di santi che possedevano. Il fatto è che in Terra Santa c´era una vita religiosa che altrove sarebbe stata giudicata eretica, abitudini e credo condivisi da religioni diverse, come il pellegrinaggio al convento greco-melchita di Nostra Signora di Saydnaya, vicino a Damasco, fatto da pellegrini cristiani, Templari ed anche musulmani».
Dunque niente eresie?
«Ma no! Il processo voluto da Filippo il Bello fu costruito su un castello di accuse di magia e eresia preparate in realtà per Bonifacio VIII: Clemente V scelse di insabbiarle e sacrificare l´ordine del Tempio».
Perché i Templari sono diventati un mito?
«Resta un mistero: certo, l´eredità ideale del Tempio non era rivendicata da nessuno; dopo la loro scomparsa era libera e i Templari non avevano neppure costruito una memoria collettiva con cui fare i conti. Comunque le recenti scoperte storiche e filologiche ci stanno restituendo dei Templari curiosamente simili ai Templari della leggenda. Templari laici, ma religiosi; Templari colti che desiderano divulgare testi escatologici facendoli tradurre in lingua volgare; Templari che praticano riti magico-religiosi; Templari che frequentano intellettuali; Templari che sono pronti a condividere liturgie e devozioni religiose con i cristiani d´Oriente (lo scisma con la Chiesa latina è del 1054), ma anche con i musulmani. La vera storia dei Templari si sta rivelando interessante come la leggenda».

domenica 22 giugno 2008

Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale

Il Sole 24 Ore Domenica 22.6.08
Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale
Tullio Gregory ricostruisce le elaborazioni filosofiche sul concetto di «natura» nell'Alto Medioevo. Una corrente di pensiero che sarà in crisi nel Seicento con la «caduta del sacro»
di Michele Ciliberto

Speculum naturale si intitola, suggestivamente, questo libro: e va detto che nel titolo esso tematizza con efficacia il nodo di problemi sui quali Tullio Gregory si concentra, svolgendo il filo di una riflessione assai compatta e organica. Quello che gli interessa, in questo volume, è analizzare anzitutto la "rivoluzione scientifica" (è una sua espressione) che si compie tra XII e XIII secolo in Occidente proprio intorno alla concezione della natura, con un netto - e progressivo - distanziamento dalle concezioni di carattere simbolico e allegorico elaborate, sulla scia della patristica, nei secoli dell'Alto medioevo (e a questo proposito Gregory scrive pagine assai efficaci sul tema del "libro" e sul suo complesso - e interessantissimo - modificarsi).
Indicando con precisione la connessione di questo nuovo approccio con fenomeni di ampia portata di ordine sociale ed economico, il volume mostra con acutezza l'emergere e l'imporsi di una nuova concezione della natura - strettamente connessa alla traduzione dei testi di Aristotele e degli arabi che durerà, come egli sottolinea più volte, fino al XVI e XVII secolo, quando essa sarà messa defmitivamente in crisi. È con una lunga spanna della storia del pensiero europeo che questo libro dunque si concentra, con una serie di osservazioni assai fini, tra le quali spiccano quelle sul significato assunto, lungo quei secoli, dall'astrologia nella concezione della natura, dell'uomo e della storia. Credo che sia qui uno dei contributi più importanti del volume. Gregory non si limita, infatti, a sottolineare il peso decisivo delle Meteore aristoteliche ma mostra l'effetto del «generale presupposto della causalità celeste» su ogni piano della realtà, compresa naturalmente la riflessione teologica: «i modi della creazione e gli scenari escatologici, la provvidenza e la libertà umana, la dottrina della conoscenza naturale e profetica, il problema dei temperamenti delle inclinazioni e delle passioni umane, la riflessione sulla storia, sulla successione degli imperi e delle religioni, l'attesa escatologica della Riforma della Chiesa e del trionfo della cristianità alla fine del tempo». L'astrologia - ribadisce Gregory più volte - in questo mondo si configura come una vera e propria "ermeneutica storica", che dà conto di tutti gli aspetti della realtà, sia nel suo corso ordinario che nei momenti di crisi e di trasformazione radicale illuminati, questi ultimi, attraverso la teoria delle "grandi congiunzioni" con cui vengono spiegate nascita e morte delle grandi religioni - da quella ebraica a quella pagana fino a quella cristiana. È una "fonte" significativa, ed è importante averla individuata: Gregory, però - e questo è uno dei punti più interessanti suo lavoro - si preoccupa di illustrare come queste concezioni intrise di necessitarismo si siano variamente, e fecondarnente, intrecciate con posizioni proprie della tradizione cristiana le quali rischiavano di affievolirsi fino a sparire alla luce della nuova concezione dei cieli, e del rapporto tra cieli, tempo e storia. Un solo esempio: secondo Albumasar dopo il cristianesimo (corrispondente alla lex mercurialis), sarebbe sopravvenuta una nuova, e ultima lex, la lex lunae, la quale «significat dubitationem ... ac expoliationem a fide»; ma è proprio questo schema che Ruggero Bacone corregge inserende la figura dell'Anticristo recuperando, da un lato, la "tensione escatologica" e impedendo dall'altro, «la riproposizione della eterna clicità degli eventi, dottrina che pur circolava nel secolo XIII negli ambienti del più rigoroso aristotelismo, come attestano Sigieri di Brabante e la condanna del 1277».
Sono battute del saggio I cieli, il tempo storia, uno dei più belli del volume, nel quale spiccano anche i contributi sullo Spazio come geografia del sacro, sulla Fenomenologia del cadavere e sui rapporti tra Cosmologia biblica e cosmologia cristiana - oltre a quello su Nani sulle spalle di giganti - veramente notevole per erudizione e sapienza espositiva, sulle traduzioni e sul ritorno degli antichi nel Medioevo latino. Sono tutti lavori che mirano a delineare in modi nuovi i «percorsi del pensiero medievale», come recita il sottotitolo del volume. Gregory si sofferma però anche su due altri temi importanti: il rapporto tra pensiero medievale e modernità e la storiografia filosofica sul medioevo tra ottocento e novecento. Sul primo punto è netto: la modernità non si identifica con un processo di secolarizzazione, ma con una "caduta del sacro", a tutti i livelli: dalla concezione dell'uomo (sottratto a ogni forma di primato) a quella della religione (ridotta a impostura), dalla visione della società (colta attraverso lo specchio degli spiriti animali) alla funzione dell'Europa (messa in crisi dalla scoperta del Nuovo mondo e dall'esperienza del "diverso"), fino alla interpretazione dello stesso testo sacro (criticato alla luce della filologia umanistica). Sul secondo tema è altrettanto chiaro: non si può parlare di filosofia medievale, ma di molte filosofie, non di una teologia, ma di molte teologie, tanto da preferire all'uso del termine filosofia quello di "pensiero medievale", anche sotto l'impulso fecondo di Paul Vignaux. Si tratta di una preziosa lezione di metodo, ben applicata nei saggi che costituiscono questo volume, che colpiscono per più ragioni: anzitutto per la salda continuità di una riflessione, come appare chiaro a chi conosce i lavori di Gregory sul platonismo medievale pubblicati negli anni Cinquanta. E poi per l'incessante lavoro di approfondimento al quale continua a sottoporre temi e problemi con cui si è incontrato, per la prima volta,oltre cinquanta anni fa.

Tullio Gregory, «Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale», Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 254, € 35,00.

giovedì 19 giugno 2008

«La guerra dell'Islam contro le donne»

Corriere del Mezzogiorno 18.6.08
Il prezzo del velo
«La guerra dell'Islam contro le donne» nel libro di Giuliana Sgrena
di Rossella Trabace

E' soltanto un simbolo, il velo. Il segno di una sudditanza morale e materiale difficile da smantellare. Anche se le donne musulmane lottano da anni per affrancarsi. «Ho voluto evidenziare proprio questo. Nei paesi arabi esistono movimenti di donne che si battono per i diritti universali, gli stessi per i quali ci siamo battute noi e che ancora oggi - qui da noi - vengono a volte messi in discussione. Insomma, il femminismo nei paesi musulmani non è un fenomeno importato, ma è un movimento che esiste da molti anni. In Egitto risale addirittura agli inizi del 1900».
Certo, la situazione non è omogenea, esistono molte differenze fra quel che succede in Marocco, in Algeria, Tunisia, rispetto, per esempio, a quanto accade in Serbia, Iraq, Arabia Saudita, Iran, Bosnia-Erzegovina. Anche se resta il filo di quella subalternità femminile presente in tracce anche nei paesi più evoluti, come quelli dell'Africa settentrionale. E quello di Giuliana Sgrena è proprio un reportage a tutto campo, che tiene conto anche della situazione nei paesi occidentali nei quali la ricerca dell'integrazione è ormai una necessità. Tutto questo è finito fra le centosessanta pagine di Il prezzo del velo, sottotitolo La guerra dell'Islam contro le donne (Feltrinelli, Milano 2008, euro 13), vincitore del Premio Città di Bari 2008 per la saggistica. Che la stessa autrice verrà oggi a presentare, ospite dell'assessorato comunale alle Culture, nel corso di un incontro che si svolgerà nel pomeriggio (ore 19.30) sulla terrazza superiore del Fortino Sant'Antonio, dove la giornalista del Manifesto dialogherà con l'assessore Nicola Laforgia, con la semiolinguista Patrizia Calefato e con Rosina Basso Lobello, docente di Storia e Filosofia, in un dibattito moderato da Giusi Giannelli, del Centro cultura e documentazione delle donne di Bari.
Lei, la Sgrena, nella redazione esteri del Manifesto si è sempre interessata del mondo arabo, affacciandosi nei teatri di guerra per documentare l'impatto dei conflitti sulla vita della gente comune. E' così che ha conosciuto tante donne, in Algeria come in Marocco, in Afghanistan come in Iraq. E' così che ha scelto di raccontarne la condizione e le battaglie, volendo scalfire prima di ogni cosa quello che definisce il «relativismo culturale» radicato nei paesi europei e soprattutto in Italia, dove il dibattito, dice, è piuttosto «arretrato».
Quali le posizioni?
«C'è una destra che considera tutto quello che succede nel mondo musulmano espressione di una cultura arretrata, quasi selvaggia, e una sinistra per molti versi reticente, che ritiene di valorizzare quelle realtà, quelle culture, senza entrare nel merito, accettando tutto quello che avviene e finendo per giustificare non soltanto l'uso del velo, ma anche altri comportamenti e altre forme di oppressione».
Non è la prima volta che si occupa di questi temi, anni fa aveva già firmato un libro. Qualcosa è cambiato da allora ad oggi?
«Ci sono paesi nei quali non è cambiato nulla. Penso all'Arabia Saudita, dove proprio non c'è traccia di miglioramenti. Lì le donne addirittura non possono guidare, uscire da sole, né decidere alcunché. In altri paesi la situazione è peggiorata notevolmente: in Iraq a causa della guerra, in Palestina per il diffondersi del fondamentalismo... Mentre in Algeria, per esempio, c'e stata una revisione del codice della famiglia. Certo, non sono state accettate tutte le richieste dei movimenti femminili, ma sono state eliminate molte restrizioni. Il paese più avanzato, dal punto di vista dell'uguaglianza fra uomo e donna, è certamente la Tunisia, anche se molte conquiste restano ancora sulla carta».
Mentre è recente, per esempio, il divieto di infibulazione in Egitto.
«Come dicevo, in Egitto c'è una tradizione consolidata di battaglie femministe. Basti pensare che lì hanno avuto la prima donna ministro nel 1956... Da noi Tina Anselmi è stata nominata nel 1976, ben vent'anni dopo».
Se il velo è il simbolo della condizione femminile nei paesi arabi. esiste un velo anche per le donne occidentali?
«Eviterei questo paragone, posso dire però che ci sono due facce della stessa medaglia: nei paesi musulmani il corpo della donna viene nascosto, velato, per evitare ogni provocazione; in Occidente, invece il corpo dela donna viene spogliato. Sono due modi diversi, opposti, di trattare la donna come un oggetto».

sabato 14 giugno 2008

Da Pericle all'Ellenismo Incontri e contaminazioni nel Mediterraneo

La Stampa Tuttolibri 14.6.08
E i bizantini...
Pure i greci non furono mai "puri"
Da Pericle all'Ellenismo Incontri e contaminazioni nel Mediterraneo
di Claudio Franzoni

Poche epoche sanno, come la nostra, che cosa significhi mobilità delle merci, degli uomini, degli schemi culturali; eppure fenomeni analoghi e di non minore portata si sono verificati già molti secoli fa, e in particolare all'interno del Mediterraneo del primo millennio avanti Cristo. È questo uno dei temi che attraversa i due volumi della Storia d'Europa e del Mediterraneo diretta da Alessandro Barbero (Salerno Editrice) dedicati al mondo greco: Grecia e Mediterraneo dall'VIII sec. a. C. all'età delle guerre persiane (pp. 734, 140) e Grecia e Mediterraneo dall'età delle guerre persiane all'Ellenismo (pp. 740, 140), entrambi curati da Maurizio Giangiulio.
Un gruppo che comprende trentadue studiosi e lo stesso curatore compie un lungo percorso che si snoda, per tutti e due i volumi, in tre grandi sezioni, «Contesti e processi», «Eventi», «Società e cultura»; inserti iconografici a colori e cartine affiancano i saggi, ciascuno corredato da una sintetica bibliografia di riferimento.
Nonostante la ricchissima articolazione delle sezioni, l'opera non abbandona affatto l'idea di un racconto storico attento agli avvenimenti; ecco dunque vicende, figure e luoghi familiari anche a chi non abbia una speciale consuetudine con il mondo classico: la colonizzazione, le guerre persiane, la guerra del Peloponneso; Pisistrato, Pericle, Alessandro Magno; Sparta, Atene, la Macedonia. Un percorso di lettura dell'opera può essere dunque quello tradizionale che segue il filo degli eventi, sennonché il loro dipanarsi tende di continuo ad aprirsi geograficamente, verso un quadro sempre più «internazionale» e sempre meno locale; a questo si deve, per fare un solo esempio, l'attenzione alla formazione dell'«impero» fenicio e al ruolo di Cartagine.
Ma è nella prima parte di ciascun volume «Contesti e processi» che gli orizzonti tendono maggiormente ad allargarsi, obbedendo in definitiva alla cornice «europea» dell'intera serie; nel primo volume ecco entrare in scena il mondo etrusco e i popoli italici, ma anche quelle che per lungo tempo sono state guardate come periferie del mondo greco, l'Asia Minore, la Magna Grecia e la Sicilia; nel secondo volume la stessa sezione si apre anche al mondo romano, con una discussione sulle origini di Roma tema quanto mai presente nella letteratura specialistica degli ultimi anni e con un esame della struttura sociale e politica della città-stato in età repubblicana.
Come accade in quest'ultimo caso, dilatare i confini geografici significa anche aprirsi verso problemi più generali: la formazione della civiltà greca, la nascita della polis e, naturalmente, i meccanismi della democrazia ateniese. Particolarmente interessante, in entrambi i volumi, l'approccio alle aree orientali lo spazio tra Iran e Mare Egeo che viene condotto dal punto di vista degli studiosi di iranistica, ribaltando quindi la direzione del consueto sguardo da Occidente; l'area di contatto tra civiltà così distanti, quella greca e quella dei Medi e Persiani, diventa luogo di scontri, ma anche di scambi e di contaminazioni, di cui è spia evidente la molteplicità degli usi linguistici e la sovrapposizione di esperienze culturali.
In queste zone, per così dire, di interfaccia tra civiltà diverse si tocca quasi con mano l'artificiosità dell'idea di una Grecia «pura» e incontaminata, e perciò potenzialmente esemplare; del resto in pressoché tutti i saggi l'attenzione è rivolta proprio agli elementi dinamici che caratterizzano la storia del Mediterraneo antico, e con coerenza vengono rimarcati i processi di trasformazione e di transizione originati da contatti e da interazioni, processi che possono avvenire tanto all'interno delle grandi aree, quanto entro una singola città-stato.
È nella sezione che chiude i libri «Società e cultura» che la complessa dinamica della vita delle città greche viene osservata anche nelle pratiche culturali, sia che si tratti della vita teatrale, della produzione letteraria o della riflessione filosofica; persino la vasta regione dei miti greci, apparentemente così lontana dalla dimensione della storia, viene ricondotta entro le dinamiche delle società, osservandone il «funzionamento» entro la stessa città greca (dove i miti servono anche a costruire l'identità delle singole comunità) e al di fuori della Grecia stessa (i miti legati ai viaggi dei Greci sul mare).

Due imperi, un unico karma geopolitico. Al rinato interesse per quell'interfaccia tra oriente e occidente che fu l'impero ottomano si affianca una sempre maggiore attenzione per l'impero che lo precedette lungo undici secoli nella stessa area del globo: quello bizantino. Nel libro di Judith Herrin «Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario» (Corbaccio, pp. 470, 22,60) la storia bizantina è letta in chiave attualizzante, come indispensabile per comprendere le complesse radici culturali dell'Europa. Mentre Hartmut Leppin si concentra sulla cristianizzazione dell'impero romano d'oriente nell'attento, rigorosissimo volume dedicato al più controverso dei suoi artefici, «Teodosio il Grande» (Salerno, pp. 350, 26 ). Anche in Italia la bizantinistica si risveglia. Giorgio Ravegnani, nei suoi «Imperatori di Bisanzio» (Il Mulino, pp. 186, 11,50), offre una preziosa, sintetica quanto documentata e aggiornata panoramica dell'intero millennio bizantino. Mentre Mario Gallina, nell'ottimo «Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII) » edito da Carocci (pp. 306, 23,70), si ferma alla vigilia di quella devastante catastrofe che fu la presa crociata di Costantinopoli del 1204. La stessa «Conquista di Costantinopoli» che Geoffroy de Villehardouin narra, non certo imparzialmente, in uno dei più impressionanti documenti storici mai prodotti da un occidentale su Bisanzio (SE, pp. 159, 19). tità di prima linea di difesa per l'Europa». Da allora in poi gli Asburgo mobilitarono sotto le insegne imperiali le risorse di tedeschi, ungheresi, cèchi, croati, slovacchi e italiani, associando veneziani e polacchi, costruendo un impero multietnico e multireligioso, che durerà fino al 1918. Sarà così l'impero asburgico il vero continuatore di quello bizantino: crinale tra oriente e occidente, difensore e insieme ibridatore di popoli e culture, mediatore di forme d'arte, di musica, di letteratura. Erede, nell'era degli stati nazionali, di quella Sehnsucht imperiale, di quel nostalgico, malinconico senso di un dovere storico sempre venato dal presagio di una fine, che aveva pervaso per secoli la civiltà di Bisanzio

L'ossessione della carne nell'amore cristiano

Corriere della Sera 14.6.08
La seconda parte dell'antologia dedicata alla religiosità medievale: grandi Passioni che si esprimono nella contemplazione
L'ossessione della carne nell'amore cristiano
I trattati del XII secolo svelano il desiderio celeste
di Giorgio Montefoschi

«Dio sa bene che in te non ho mai cercato altro che te solo; ho desiderato esclusivamente te», scrive Eloisa ad Abelardo, nella sua lettera più disperata e gonfia d'amore. Più o meno negli stessi anni, in un capitolo della Expositio super Cantica Canticorum, il Cantico dei Cantici, e cioè il libro erotico per eccellenza della Bibbia, con parole che ricordano molto da presso il passo del Fedro in cui Platone descrive la frenetica comunione spirituale e fisica dell'amato e dell'amante, Guglielmo di Saint Thierry così si esprime a proposito del rapporto amoroso dell'anima con Dio: «Lo spirito dell'uomo assapora la dolcezza di un non so che di amato più che pensato, di gustato più che compreso, che rapisce colui che ama. E per un certo tempo, per un'ora, questo non so che penetra l'amante, ne attrae lo slancio, tanto che non più nella speranza, ma quasi nella realtà, gli sembra ormai di vedere con i propri occhi, di tenere e palpare con le proprie mani la sostanza di ciò che si spera riguardo al Verbo della vita». Ed ecco, nel suo sublime I quattro gradi della violenta carità, Riccardo, priore dell'abazia di San Vittore: «Non ti sembra forse di essere colpito al cuore, quando l'infuocato aculeo dell'amore penetra fino in fondo nella mente dell'uomo e trapassa il sentimento, al punto che esso non riesce più in alcun modo a contenere o a dissimulare la vampa del suo desiderio?».
L'anima e il corpo, lo spirito e la carne, partecipando di un legame indissolubile, vengono sì dopo l'amore gratuito di Dio per l'uomo nei Trattati d'amore cristiani del XII secolo (di cui appare in questi giorni il secondo volume, con l'ottima cura di Francesco Zambon, a completare una delle letture più emozionanti che si possano fare nei nostri giorni distratti), ma certamente, e non potrebbe essere altrimenti, proprio in questo rapporto inscindibile, sono al culmine della meditazione vittorina e cistercense che, nell'epoca dei Trovatori e di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra e di Abelardo e Eloisa, volle non escludere le fredde aule dei monasteri e la pace del chiostro dal sentimento che, congiungendo cielo e terra, o rimanendo schiantato sulla terra, sembrava allora dominare l'uomo e il tempo. Semmai, questa meditazione amorosa e mistica fortificò quella pace, temprò l'invisibile fragilità di quelle mura. E produsse testi che sono veri pilastri indistruttibili della cultura cristiana.
Cardinale, nella riflessione cristiana sull'amore — spiega Francesco Zambon — è la dottrina per la quale la creazione dell'uomo è a immagine e somiglianza di Dio, che è Trinità. Tutto parte da lì. Nella mente dell'uomo, o nel suo cuore, o nella sua anima, è impressa una forma che lo rende somigliante a Dio. Carattere fondamentale di questa somiglianza è la libertà: di scegliere fra il bene e il male. Col peccato, l'uomo si è rivolto verso il carnale, il terrestre. Ora, di quella comunione con il suo Creatore, conserva nella memoria un confuso ricordo. Ma, poiché il simile è destinato a tornare al simile, l'uomo vuole ricongiungersi con Dio. Vuole restaurare quella perfetta somiglianza. Vuole di nuovo vedere Dio. Vuole di nuovo essere in Dio, e sentire quella dolce pienezza dalla quale si è distaccato. Vuole sentire, nel suo cuore, l'amore illuminato che esclude ogni altro amore — a cominciare dall'amore carnale: un amore debole, malato, che tuttavia non deve essere soppresso, perché è il primo passo verso la salita all'ultimo grado dell'amore — e non è altro che la carità. «L'amore illuminato — scrive Guglielmo di Saint Thierry — è la carità: la carità è l'amore che viene da Dio, è in Dio e va verso Dio. Anzi, la carità è Dio. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità».
Come fa l'uomo mortale a ricongiungersi a Dio? Nella carità che l'uomo porta impressa nel cuore, scrive ancora Guglielmo, «vi sono due occhi che palpitano sempre in una sorta di naturale tensione dello sguardo per vedere la luce che è Dio: sono l'amore e la ragione». Da sola, la ragione può fare pochissimo: al massimo può vedere Dio soltanto in ciò che non è. Insieme, ragione e amore possono moltissimo. La ragione vivifica l'amore. E l'anima, penetrata da una dolcezza soave, da uno sfinimento che è simile alla morte, a un sonno celeste, è ghermita da un'altra forma di intelligenza che non procede più per immagini o concetti, bensì ha il suo luogo proprio nella spinta amorosa, nella volontà che l'uomo ha di essere attratto da Dio, di conoscere Dio.
Questa conoscenza superiore — già lo scriveva Gregorio di Nissa — è una conoscenza difficile, oscura, avvolta all'inizio nelle tenebre. Anche il luogo in cui avviene, il cuore, è oscuro. «Qualche volta, Signore — scrive Guglielmo — come se io stessi con gli occhi chiusi e la bocca aperta a te, tu mi metti qualcosa nella bocca del cuore: ma non mi è lecito discernere cosa sia. Certo lo deglutisco, qualunque cosa sia, nella speranza della vita eterna. Ma svanisce così in fretta!». Gli fa eco il monaco Ivo: «Il cuore umano è profondo e insondabile: raro è che sia talmente ritirato in sé stesso da riconoscere la parte più intima di sé. Però è lì che i suoi sensi, quando sono rapiti da Dio, stanno meglio con sé stessi: «Proprio quando non sanno dove sono, e intrattengono con Dio un colloquio senza lingua o suono di labbra, da cui ogni estraneo è escluso».
Dio, che ci ha amati per primo e gratuitamente, si deve amare senza misura, e per gradi, dice Bernardo di Chiaravalle. L'ultimo grado dell'amore è quello nel quale, come una goccia si disperde nel vino, come l'aria illuminata diventa luce, l'uomo si annulla in Dio. Prima, però, dovrà accadere che le anime si liberino del tutto dalla nostalgia della carne. E questo potrà avvenire solo quando sarà vinta la morte. «Quando la luce eterna avrà invaso da ogni parte e posto interamente sotto il suo dominio i territori della notte, al punto da far risplendere anche nei corpi la gloria celeste».
Ecco, di nuovo, la carne. E la sua risurrezione: il dilemma che ci tortura fino alla soglia dell'ultimo grado dell'amore. L'ultimo grado nel quale, Riccardo da San Vittore ci fa trovare l'uomo: Dio che si è fatto uomo, il Cristo. Perché, in quell'ultimo grado in cui l'uomo è stato rapito, l'anima è ormai «perfettamente cotta dal fuoco divino», è molle, piegabile come un ferro nel fuoco. E, in quel momento, non le resterà che essere plasmata secondo il modello di Cristo nella sua umiltà.
Nel Cristo che ha assunto la carne, ha patito, è stato servo dell'uomo, e, col suo amore per l'uomo, ha mostrato l'eccellenza dell'amore.