mercoledì 27 febbraio 2008

IL NUOVO NUMERO DI MICROMEGA NELLE EDICOLE DA VENERDI 29 CONTIENE:

IL NUOVO NUMERO DI MICROMEGA NELLE EDICOLE DA VENERDI 29 CONTIENE:

Il papa oscurantista. Contro le donne, contro la scienza” è l'inequivocabile titolo del quaderno speciale di MicroMega, che sarà in edicola da venerdì 29 febbraio. Il volume è composto da due parti. La prima risponde con puntualità scientifica e con indignata moralità alla crociata oscurantista che vuole criminalizzare la libertà delle donne e portare diritti civili e laicità indietro di mezzo secolo. Il volume è aperto dall'appello lanciato lo scorso 14 febbraio da 13 autorevolissime donne (Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini, Valeria Parrella, Lidia Ravera, Rossana Rossanda ed Elisabetta Visalberghi) e che on-line (www.firmiamo.it/liberadonna) ha già ottenuto oltre 40 mila firme. Una delle proposte dell'appello – l'abolizione dell'obiezione di coscienza sull'aborto - è ripresa da un articolo di Carlo Flamigni, che propone che i reparti di ginecologia non assumano più medici obiettori. Il neonatologo del Meyer di Firenze, Gianpaolo Donzelli, spiega perché le cure intensive sui nati molto prematuri siano nella stragrande maggioranza dei casi accanimento terapeutico. E poi interventi di don Enzo Mazzi (che condanna il ritorno del sacro come fonte primaria di violenza), Carlo Alberto Redi (che descrive i paradossi di una Chiesa che “difende la vita” solo a parole), Bruno Brambati (che spiega perché una riproduzione libera e responsabile non c'entra niente con l'eugenetica), Valeria Parrella (che, sulla scorta di un'esperienza diretta, riflette sulle recenti polemiche sulla rianimazione dei nati ultraprematuri).
La seconda parte del volume riporta tutti, ma proprio tutti, i materiali del noto caso Ratzinger/Sapienza: una cinquantina di editoriali e commenti delle principali testate, le lettere che hanno dato il via alle polemiche, i discorsi del papa, di Veltroni e di Mussi per l'inaugurazione dell'anno accademico. Il tutto inquadrato in una dettagliatissima cronologia dei fatti e con un commento inedito di Luca e Francesco Cavalli Sforza, che sottolineano la piena legittimità della protesta dei 67 professori di fisica.

guarda la copertina su www.micromega.net

SOMMARIO

LETTERA APERTA
Simona Argentieri / Natalia Aspesi / Adriana Cavarero / Cristina Comencini / Isabella Ferrari / Sabina Guzzanti Margherita Hack / Fiorella Mannoia / Dacia Maraini / Valeria Parrella / Lidia Ravera / Rossana Rossanda / Elisabetta Visalberghi
Liberadonna

ICEBERG 1
sacre libertà

Carlo Flamigni
Contro le donne, ovvero la crociata del terzo millennio

Margherita Hack
Ingerenze e condiscendenze

Carlo Alberto Redi
La Chiesa contro la vita

don Enzo Mazzi
Horror fondamentalista

ICEBERG 2
liberadonna

Gianpaolo Donzelli
Accanimenti bigotti

Valeria Parrella
Chi gioca a dadi sui corpi delle donne

Cinzia Sciuto
Sulla propria pelle

Bruno Brambati
L’eugenetica non c’entra

Marilisa D’Amico
Persone, diritti, embrioni

Eduard Verhagen
È uccidere o prendersi cura?

Roberta De Monticelli
Ecco perché non firmo

LAICAMENTE

Felice Mill Colorni
Logiche conseguenze

Carlo Flamigni
Aborto, basta obiezione (in appendice: Paolo Flores d’Arcais Aborto, aboliamo l’obiezione per i medici)

ICEBERG 3
verità di fatto

Luca e Francesco Cavalli Sforza
Un papa senza Sapienza

a cura di Emilio Carnevali
I fatti

Francesco Raparelli
Gli studenti del dissenso

Emilio Carnevali
Il caso Maiani

SCRIPTA MANENT
Marcello Cini / Pierluigi Battista/ Alberto Asor Rosa / Ernesto Galli Della Loggia / Giancarlo Ruocco / Giulio Anselmi / Antonio Zichichi / Dario Fo / Adriano Sofri Massimo Cacciari / Paolo Flores d’Arcais Bruno Bertolini / Giorgio Napolitano / mons. Rino Fisichella / Rocco Buttiglione Rosy Bindi / Fabio Mussi / Carlo Bernardini / Paolo Franchi / don Enzo Mazzi / Gianfranco Pasquino / Giovanni Sabatucci Ezio Mauro / Carlo Azeglio Ciampi / Gian Enrico Rusconi / Riccardo Di Segni Franco Piperno / Carlo Cardia / Daniele Garrone / Giorgio Parisi / Giovanni Maria Vian / card. Camillo Ruini Marcello Pera / Joaquín Navarro-Valls/ card. Carlo Caffarra / Roberta De Monticelli Giuliano Ferrara / Pietro Greco /Sergio Givone / David Bidussa / Barbara Spinelli / Massimo Boldi / Gianni Vattimo / Eugenio Scalfari / card. Angelo Bagnasco / Benedetto XVI / Francesco De Martini / Pietro Ingrao / Stefano Rodotà / Walter Tocci / Guido Barbujani / Arturo Romer / Redazione di Confronti / Pietro Stefani
L’affaire Sapienza: commenti (e menzogne)

MEMORIA
Walter Veltroni / Fabio Mussi / Benedetto XVI
I discorsi della Sapienza

SCHERZO

Ennio Cavalli
Dio e la casa sull’albero

Carlo Cornaglia
In versi

Le religioni non amano le donne

Corriere della Sera 27.2.08
Saggi La tesi nel libro della «femminilista» Vittoria Haziel
Le religioni non amano le donne
di Marisa Fumagalli

Un'idea per lo slogan del prossimo 8 marzo? «Non da sola».
Fa a pugni, certo, con le anticaglie del femminismo separatista che non c'è più. Ben s'accorda, invece, con il nuovo «femminilismo », sostantivo coniato dalla scrittrice Vittoria Haziel. Sue, infatti, sono le tre parole-manifesto, contenute nell'ultima riga del saggio E dio negò la donna.
Sottotitolo: Come la legge dei padri perseguita da sempre l'universo femminile (Sperling & Kupfer, pp. 154, e 18). Il richiamo alla nuova battaglia di liberazione, che richiede lo sforzo comune dei due sessi, è la missione dichiarata del libro. Che, tuttavia, pone al centro il j'accuse, esplicito e testimoniato da storie vere a tinte forti, contro le violenze di ieri e di oggi, inflitte alle donne di tutto il mondo, nel nome delle tre grandi religioni monoteiste. Ebraismo, cristianesimo, islamismo. Excursus storico, corredato da riflessioni personali e annotazioni che rimandano ad altre analisi, impresse con il tratto deciso di una matita rossoblù. Nel mirino, dunque, ci sono le religioni dei padri. Mai «aggiornate», nonostante tutto. L'autrice, citando testi sacri, encicliche papali, discorsi, dimostra la sua tesi: il razzismo divino consumato ai danni delle donne.
Il fondamentalismo religioso (e non solo quello islamico di cui si parla molto, di questi tempi), che fa rima con maschilismo, umilia e colpisce tutto il genere femminile. Si può ancora sperare, allora? Si può. Il filo rosso che lega il variegato «documentario » (la Haziel è anche regista e sceneggiatrice), percorso da fughe nel sogno, ravvivato da sorprendenti artifici linguistici (si veda la sostituzione della parola dio con io, in alcune frasi), rivela un fine ambizioso: unire ciò che apparentemente è diviso e contrapposto. È questa, infatti, la missione dei «pontefici» (coloro che costruiscono ponti), a cominciare da lei: pacificare i due sessi, attraverso una nuova alleanza che offra dignità piena all'uomo e alla donna. «Non da sola », quindi. Gli uomini nuovi ci sono, basta trovarli, discutere e confrontarsi. In appendice al saggio, ecco l'elenco di gruppi maschili e misti, sparsi sul territorio nazionale e «accomunati dall'obiettivo di cambiare una Storia logora e sterile».
La «femminilista» Vittoria Haziel ha deciso anche di lanciare il nuovo fiore della «ricorrenza »: l'8 marzo, niente mimose. Al loro posto, tanti non-ti-scordar- di-me, simbolo di quel ponte d'amore tra femminile e maschile. Con la proposta di un'iniziativa forte: l'istituzione della «Giornata della memoria» (delle donne) «per ricordare il genocidio e la violenza che nella storia e nel mondo fanno ogni giorno milioni di vittime, più di qualsiasi olocausto».

lunedì 18 febbraio 2008

Bruciano i libri, università indifese

Bruciano i libri, università indifese

Il Riformista del 17 novembre 2006, pag. 7

di Gabriele Carchella

Alcuni liberati, altri torturati e uc­cisi. Il destino ha separato le strade degli ostaggi rapiti nel blitz di mar­tedì in un edificio del ministero del­l'Istruzione: una settantina di loro è tornata ieri in libertà, un'ottantina resta nelle mani degli aguzzini. Am­messo che siano ancora vivi, perché -raccontano i sopravvissuti - un nu­mero imprecisato di ostaggi sono stati eliminati, mentre tutti avrebbe­ro subito torture e maltrattamenti. Molti i punti oscuri della vicenda. In primis, non è chiaro chi siano gli ele­menti del commando che ha com­piuto l'operazione. Secondo alcuni testimoni oculari, i rapitori hanno agito con indosso le uniformi della polizia. La circostanza, non nuova, suggerisce possibili connivenze con l'apparato statale. Le milizie parami­litari, secondo molti osservatori, agi­scono per portare a termine vendet­te trasversali all'interno dello stesso governo. Il ministro dell'Istruzione Abed Dhiab al-Ujaili appartiene al­la comunità sunnita, in minoranza nell'esecutivo diretto dal premier sciita Nuri Al Maliki. Il rapimento di massa di dipendenti e visitatori del ministero è visto come un colpo alla rappresentanza sunnita nel governo. La rivalità tra le comunità irachene, del resto, assomiglia sempre di più a una guerra totale in cui il gioco del­le vendette incrociate rende difficile qualsiasi lettura. «Mi dimetto fino a quando qualcuno non si deciderà a fare qualcosa di concreto», ha an­nunciato il ministro Ujaili. «Bisognerebbe indagare sulle forze di po­lizia e mettere le persone giuste al posto giusto. Non c'è un governo ef­ficace e penso di poter dire che siamo nell'anarchia». Parlando ai mi­crofoni della tv Al Iraqiya, il mini­stro ha poi rivelato di aver chiesto 800 guardie a protezione di tutte le università irachene poco prima del sequestro. Ma la richiesta non è sta­ta approvata. Il messaggio ai vertici del governo appare chiaro.



Oltre alla violenza inter-comunitaria, il rapimento di massa di mar­tedì è stato letto come l'ennesimo crimine contro la classe colta irache­na. Secondo alcune stime, negli ulti­mi tre anni sono quasi 200 gli acca­demici uccisi in Iraq. Tutto fa pensa­re ad azioni pianificate, a una sorta di operazione "tabula rasa" pensata per distruggere il sistema d'istruzione del paese. E impedire così una rinasci­ta che non può prescinde­re dall'istruzione e dalla cultura. La deriva è co­minciata nel 2003. La guerra irachena si è rivela­ta da subito un disastro per una delle culture più antiche del mondo. Due eventi dal forte valore simbolico hanno dato il via alla distruzione: l'incendio e il saccheggio della biblioteca naziona­le e del museo archeologico di Ba­ghdad. Migliaia di manoscritti anti­chissimi sono andati in fumo il 14 aprile del 2003, quando il fuoco è di­vampato nella biblioteca. «Una ca­tastrofe per il patrimonio culturale dell'Iraq», secondo l'Unesco. Poche settimane dopo, gli impiegati della biblioteca, in maggioranza donne con il velo, facevano la fila per ritira­re il salario sociale distri­buito dai militari Usa. Del saccheggio al museo ar­cheologico molto si è det­to e scritto. Si pensa che la maggioranza dei suoi 170mila pezzi siano stati rubati in seguito alla ca­duta della capitale. Nel giardino del museo erano state scavate trincee, ancora fumanti a distanza di giorni. Dopo aver con­statato che le orde di ladroni aveva­no risparmiato il ministero del pe­trolio, ben protetto, la comunità in­ternazionale puntò il dito contro gli Usa. Da allora, la classe media ira­chena è stata smantellata pezzo do­po pezzo. Gli ingegneri e i tecnici so­no rimasti senza lavoro, costretti a vivere di espedienti perché le cen­trali elettriche erano distrutte o fun­zionavano a singhiozzo. La vera ri­costruzione non è mai iniziata e solo di rado ha coinvolto personale loca­le. Per un paese sfiancato da anni di embargo è stato il colpo di grazia. Le uccisioni mirate di professori e scienziati hanno fatto il resto.



Gli intellettuali ancora vivi medi­tano di andarsene all'estero. Il sogno di un paese che potesse risorgere su­bito dalle proprie ceneri è durato poche settimane. Un sogno che può sintetizzarsi in un'immagine. Nei pri­mi giorni del cosiddetto dopoguerra, il mercatino dei libri sotto i portici adiacenti all'antica università Mu-stansiriya, aveva ripreso le sue attività: volumi usati, cartine geografi­che ingiallite, quaderni e penne in vendita sui banchi tra cartacce e pol­vere. Quell'angolo di Baghdad face­va pensare a un ritorno alla norma­lità. Poco dopo, il sorgere della guer­riglia irachena avrebbe riportato gli iracheni alla cruda realtà.

TIMBUKTU: LE SCIENZE PERDUTE SONO TRA LE SABBIE

Tst 13 feb. ’08

TIMBUKTU: LE SCIENZE PERDUTE SONO TRA LE SABBIE

Corsa per salvare la biblioteca di "Leggeremo manoscritti di mille armi fa"
Tra Medioevo e computer
La storia di una fetta di mondo è sul punto di essere buttata via e riscritta da
capo, ma prima bisogna sporcarsi le mani con i dollari del presidente
sudafricano Thabo Mbeki: dare la caccia alle termiti e ai topi, togliere
tonnellate di polvere, rimuovere la sabbia che sfigura le parole come una
grattugia: Si devono rimettere assieme migliaia di pagine sul punto di
sfarinarsi, incollare serie interminabili di testi su strati di carta
giapponese, rilegare quantità indefinite di libri sottosopra come cubi di Rubik.
E poi si scannerizzerà riga dopo riga e, mentre milioni di frasi e di versi
verranno depositati, ancora convalescenti, prima nelle memorie elettroniche e
poi in scatole sigillate, si comincerà a leggere, tradurre e interpretare,
cercando di non farsi soffocare dall'attesa rivelazione. Ecco che cosa succede
quando si affondano le mani nella Alessandria d'Egitto dell'Africa Nera e si
tenta di rianimare i messaggi di una labirintica biblioteca che si disfa un po'
ogni giorno e vanta tesori antichi anche un migliaio di anni. A Timbuktu, in
Mali, tutti conoscono luci e ombre della sceneggiatura: ai turisti si fanno
vedere malinconici depositi in disordine, dalle fondazioni europee e americane
si pretendono finanziamenti, ai ricercatori volenterosi si affidano mucchi
instabili, come le carte che entro fine anno saranno ordinate nel nuovo centro
voluto dal governo di Pretoria vie!no alla moschea Sankoré e all'ancora più
fotografato minareto piramidale. E si ripete sempre lo stesso mantra: prima o
poi la verità verrà fuori, come un forziere dalle dune, e la storia sarà da
rivedere, quella africana, quella del Medio Oriente, quella dell'Islam e quella
europea. Risentiremo finalmente le mille voci di un'Africa inaspettata, che tra
il Medioevo e il Rinascimento dei bianchi è stata uno dei forzieri del sapere
universale.
Questo - è evidente - non è il cuore di tenebra di Conrad o il fumettone di
Tarzan. E' il continente dei grandi imperi - Ghana, Mali e Songhai, fioriti tra
l’VIII e il XVI secolo e poi inabissatisi - e delle fantastiche ricchezze d'oro,
d'avorio e di schiavi, delle autostrade commerciali lungo il deserto del Sahara
e il fiume Niger, delle università e degli intellettuali e soprattutto dei 100
mila manoscritti (probabilmente di più), che giacciono, sopravvivendo a stento o
già in decomposizione, in una delle città-simbolo del passato, la Timbuktu
trasfigurata dalle leggende e riscoperta nel 1828 da un esausto francese, René
Caillé. Lui si dichiarò sconvolto dalla miseria e soprattutto dalla spaventosa
sporcizia. Oggi a stupire è semmai la persistenza di una tradizione di
tolleranza, che cerca ossigeno nei soldi dei turisti e nelle donazioni di
associazioni e governi, come gli otto milioni garantiti da Mbeki.
II presidente li ha messi insieme dopo un'illuminazione: la commossa visita
all'KAhmed Baba Institute», una delle 20 biblioteche private che per generazio
ni hanno raccolto spasmodicamente libri e che da oltre quattro secoli, dopo il
declino seguito all'invasione marocchina del 1591, tentano di tramandarne i
resti. Lì ce ne sono 30 mila. «E' tra i tesori più importanti di tutta
l'Africa», ha detto Mbeki e il team rapidamente mobilitato ha cominciato a
trasferire su computer i testi. «Vogliamo creare una libreria virtuale, a
disposizione degli studiosi del mondo», spiega con entusiasmo uno dei
ricercatori, Muhammad Diagayete, lui stesso preso alla gola da tanta abbondanza.
Vergati in arabo e in diverse lingue africane (gli esperti parlano di Hijazi,
Maghribi, Sudani, Suqi, Naskh e altre ancora), i manoscritti coprono ogni
disciplina immaginabile, dalla storia alla medicina, dalla legge penale ai
diritti di proprietà, dall'astronomia alla filosofia, dalla matematica alla
letteratura, dalla botanica alla religione (non solo islamica), a cui si
aggiungono le liste di registrazioni che fanno felici gli storici: nascite e
morti, transazioni e contratti, processi e condanne, confessioni private e
disposizioni ufficiali. Tramandata su diversi tipi di carta, su pelli di
gazzella e su cortecce d'albero, questa babelica enciclopedia distrugge lo
stereotipo ottocentesco di un'Africa primitiva, senza parola e senza scrittura,
popolata di «selvaggi» anziché di dinastie reali e di scienziati. Mentre svela
un Islam curioso di sé e del mondo, modernamente multiculturale, spalanca anche
le porte a un orgoglio continentale fondato sugli stessi primati culturali
dell'Europa. Se uno dei primi a rivendicarlo è stato Henry Louis Gates, lo
storico afroamericano della Harvard University diventato una celebrità negli
Anni 90, ora comincia a sentirsi un benefico effetto-valanga: ci si impegna, per
esempio, nel salvataggio del «Fondo Kati Bibliothèque», fenomenale per le
avventure che l'hanno creato. Molti testi furono impacchettati a ime XII e XIII
secolo dagli antenati del proprietario, Ismael Haidara, quando lasciarono
l'Andalusia e dopo un epico viaggio nel deserto si fermarono a Timbuktu. E
intanto continua l'opera di restauro alla «Mama Haidara Library», dove grazie ai
dollari spediti dagli Usa si sta digitalizzando la collezione di 9 mila opere e
costruendo spazi per studiosi e turisti, accanto all'indispensabile Internet
café.
Molte biblioteche infatti si autopromuovono in Rete (lo si vede all’indìrizzo
http://www.sum.uio.no/research/mali/timbuktu/privates/mamma/index.html) e
tentano di farsi concorrenza, come accadeva mezzo millennio fa. AL volante di
auto scassate, in groppa ai cammelli e incastrati su piccole canoe, gli inviati
dell'«Ahmed Baba Institute» battono i villaggi alla ricerca di libri preziosi,
in cambio di soldi o capre. E altri «cacciatori», quando si riesce a
persuaderli, tracciano mappe di innumerevoli tesori. A Ber, a due ore da
Timbuktu, ce ne sarebbero tantissimi, sepolti sotto la sabbia. I proprietari,
anche se spesso analfabeti, tengono le bocche cucite. Non vogliono profanatori
nella loro città sotterranea di parole e numeri.

I 700 LUOGHI DELLA STORIA E DELLE LEGGENDE - UNA MAPPA SULL´ISOLA DEL MITO

I 700 LUOGHI DELLA STORIA E DELLE LEGGENDE - UNA MAPPA SULL´ISOLA DEL MITO
PAOLA NICITA
MERCOLEDÌ, 13 FEBBRAIO 2008 LA SICILIA - Palermo

Una mappa che riscrive la geografia dell´Isola, seguendo sentieri che passano dal mito, dalla storia, dal racconto e anche dal gusto, tra colori e sapori. La Carta regionale dei luoghi dell´identità e della memoria, realizzata dal Centro regionale per la progettazione e il restauro con il coordinamento di Guido Meli e Roberto Garufi, presentata ieri dal direttore del Centro e dall´assessore regionale ai Beni culturali, Lino Leanza, propone dunque una serie di nuovi itinerari, strutturati e sviluppati intorno a sette temi: leggende, sacro, eventi storici, personalità della cultura, luoghi del lavoro, del gusto, del racconto letterario, televisivo e filmico. Circa settecento i luoghi rintracciati in questa particolare mappa. «Ma attenzione - dice Guido Meli - non si vuole ibernare l´Isola in un teatro della memoria, quanto piuttosto delineare indicazioni idonee per impedire che i processi fisiologici di trasformazione del territorio possano cancellare o stravolgere un patrimonio insostituibile di identità e memoria culturale. È la naturale evoluzione della Carta del rischio, spostando l´attenzione dal patrimonio monumentale e storico artistico alla dimensione del paesaggio».
Il progetto - realizzato con un Por Sicilia 2007-2013 - prevede una serie di attività episodiche legate ai percorsi, insieme alla realizzazione di iniziative durature, come centri di documentazione, musei, attività editoriali. Legata al progetto è la volontà di diversificare l´offerta turistica e culturale, spostando anche l´attenzione dalle aree più note a quelle meno conosciute, valorizzando così le peculiarità delle comunità locali, i piccoli centri, alcuni percorsi naturalistici. Saranno coinvolte anche le scuole ed entro l´anno verrà realizzato un navigatore satellitare che possa agevolare la fruizione dei percorsi in auto.
Tra le sette aree tematiche, se ne evidenzia una, in particolare, legata al mito e alle leggende: un itinerario che rintraccia il mito di Venere, tra Pantelleria e Erice, passa dai giganti di Siracusa, Aci e Messina e fa scoprire il Genius loci della città di Palermo, con le sue statue con la corona e la serpe al collo disseminate tra piazza Rivoluzione, Villa Giulia, piazza Garraffo, la Cappella Palatina. Se la Gorgone alloggia tra i banchi corallini di Trapani, le Sirene nello Stretto, e le Ninfe tra Capo Peloro, Passero e Lilibero, i Ciclopi si muovono monocoli tra Aci Trezza, Bronte e Vulcano. Ulisse invece potrà essere rintracciato con una passeggiata tra la Torre di Ligny di Trapani e la grotta di Polifemo a Messina. Per i fantasmi, la lista dei luoghi passa dalla rupe di Maletto a Catania, prosegue tra le torri del castello dell´ammiraglio Nelson a Bronte, passa dalla «pellegrina» di Siracusa e a Palermo sceglie come fantasma quello della suora del Teatro Massimo, edificato dove sorgeva un convento. Chi volesse avventurarsi in una caccia al tesoro, avrà una mappa con i castelli della Zisa e quello di Gresti ad Enna, senza dimenticare il cocchio d´oro all´Ipogeo di Agrigento e la leggenda delle sette porte di ferro a Randazzo. Mostri, serpenti e giganti, sono invece divisi tra Caltanissetta, Contessa Entellina e Catania.
La sacralità e le feste religiose segnano un filo rosso tra i più caratteristici: ecco i celebri riti di Pasqua con i Misteri di Trapani, il rito dell´Aurora a Castelvetrano, gli Archi di San Biagio Platani, la Real Maestranza di Caltanissetta. C´è poi il rito bizantino a Piana degli Albanesi, Palazzo Adriano, Santa Cristina Gela, le feste delle sante patrone, i luoghi cristologici con gli alberi sacri, come il Signore dell´Olmo a Caltanissetta e il Cristo dei Rifesi a Burgio, con un miracolo accaduto durante un temporale. Girando pagina, sono tante le tracce degli eventi storici, dai più antichi ai più recenti: da scoprire il medioevo, con il castello di Caccamo, la chiesa di Santo Spirito, la Torre campanaria del Duomo sul colle della Capperina a Messina, il Castello di Sperlinga e quello di Caltabellotta per la celebre «pace» dopo la guerra dei novant´anni. Per eventi più recenti, Cassibile con la firma dell´armistizio della Seconda Guerra Mondiale, mentre a Randazzo - Cesarò si ricorda una pagina di ribellione al femminile con Maria Occhipinti e i moti delle donne ragusane. Lunga, purtroppo, la via crucis dei delitti e delle stragi di mafia, dal sindacalista Giovanni Orcel ucciso nel 1920 in corso Vittorio Emanuele, al giornalista Beppe Alfano, ammazzato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1993.
Le personalità della storia e della cultura si dividono tra architettura, musica, scrittura, e se al fotografo Wilhelm von Gloeden si deve l´aver celebrato Taormina e i suoi giovinetti, si deve certamente a Leonardo Sciascia la conoscenza di contrada Noce a Racalmuto e a Ignazio Florio senior la notorietà di Favignana con la sua tonnara. Il gusto, infine: pane, vino, grano, mandorle, capperi, pistacchi, ma anche particolarità come la manna delle Madonie, il fagiolo «badda» di Polizzi, le lenticchie di Ustica, le susine bianche di Monreale, le fragoline di Ribera, il melone «cartucciaro» di Paceco, il limone Interdonato di Messina: qui basta farsi guidare da vista e olfatto per scoprire un´altra Isola.

«La Certosa di Parma», scritto in meno di due mesi, è uno dei romanzi più prodigiosi

Corriere della Sera 18.2.08
I 53 giorni che ispirarono Stendhal
«La Certosa di Parma», scritto in meno di due mesi, è uno dei romanzi più prodigiosi
di Alessandro Piperno

Maestri. Una prosa disinvolta destinata a servire i fatti e le idee senza celebrare se stessa. E tutti i personaggi diventano una proiezione dell'autore

Se la morte dura appena un secondo, perché darle tutta quest'importanza?
La narrazione
La grande esperienza umana della delusione viene resa in un modo allo stesso tempo concreto e sublime Henri Beyle detto Stendhal (17831842).

Non credere nell'ispirazione è diventato un esercizio noioso. Avviata da scrittori del calibro di Poe, Baudelaire, Valéry, nel frattempo, la polemica contro l'ispirazione ha perso freschezza. Dal più imberbe scrittore al più eminente ce ne fosse uno che, interrogato sulla faccenda, non si schermisca civettuolo dietro a formule rituali: «Non so neppure cosa sia l'ispirazione ».
Ha davvero senso negare l'esistenza di ciò che taluni libri testimoniano quasi a ogni capoverso?
Chiamatela necessità, o più pudicamente intensità. Ma, Dio santo, non negatela per principio e per snobismo. Per me è questione di precisione. La Certosa di Parma è uno dei libri più ispirati di ogni tempo in virtù della sua soprannaturale perizia. Come se qualcuno l'avesse dettata a Stendhal così com'è. La leggi e dici: «Non poteva essere altrimenti».
Michel Crouzet, nella sua monumentale biografia stendhaliana, dovendo affrontare il momento in cui Stendhal, il 4 novembre 1838, si barrica in casa per scrivere in appena 53 giorni la Certosa, commenta: «Qui lo storico di Stendhal si scontra con un mito». Un mito talmente infrangibile che perfino Mariella Di Maio, stendhaliana di fama internazionale, tiene a comunicarci che la Certosa — sia per «la rapidità della sua creazione» sia per «il mistero della sua origine » — è «un libro prodigio».
D'altra parte sbaglia chi crede che l'ispirazione sia prerogativa dell'«artista da giovane». Di solito essa si concede all'artista canuto, nel momento in cui questi, raggiunta una sufficiente fiducia nelle proprie capacità tecniche e una sfiducia per tutto il resto, avverte che nulla gli è precluso. Ecco perché gli ultimi due capitoli dell'Educazione sentimentale di Flaubert o i passi meno didascalici di Resurrezione di Tolstoj, per non dire delle pagine proustiane sull'Oblio e degli anfratti più misteriosi del Castello kafkiano, ci appaiono di una scabrezza che sembra aver abolito ogni artificio retorico.
Siamo di fronte ad exploit artistici che testimoniano una consapevolezza espressiva degna della Pietà Rondanini o dell'ultimo Tiziano: quando la forma si piega all'interiorità, e non più l'interiorità alla forma. È allora che questi artisti ci parlano della vita con il distacco venato di nostalgia di chi scrive dall'aldilà. Proust chiamava tale fosca vivacità la «frivolezza dei morituri». Per Bergson era la «visione panoramica» cui ogni individuo ha diritto un attimo prima di crepare. Parole diverse per esprimere concetti analoghi, che molto hanno a che fare con la lucidità dell'uomo alla fine. Rileggendo la Certosa — nella preziosa versione di Maurizio Cucchi che porta a compimento il progetto monumentale dell'intera traduzione della narrativa stendhaliana nei Meridiani Mondadori — hai davvero il sospetto che l'essenza di quell'universo spirituale chiamato «beylismo» (da Henri Beyle, vero nome di Stendhal) abbia raggiunto la sua espressione somma.
Stendhal era un poveruomo con la mente ingolfata di patacche romantiche. Un ragazzone di Grenoble in preda a un delirio immaginativo: viaggi, avventure, musica, donne affascinanti e crudeli, intrighi, atti eroici. C'era qualcosa di deteriore (quasi bovaristico) nel suo sentimentalismo romantico. È formidabile come nella Certosa sia riuscito a distillare l'essenza prelibata di quelle fantasticherie adolescenziali, pulendole da qualsiasi stucchevolezza. Celebrandole sì, ma senza più crederci, rendendole vive come tutte le cose che abbiamo perso. Come ogni uomo ispirato e vicino alla morte Stendhal si tuffa in se stesso: facendo fruttare il suo proverbiale egotismo, inventa personaggi che lo rappresentano pienamente ma allo stesso tempo che appaiono la proiezione di ciò che lui avrebbe voluto essere: Fabrizio Del Dongo ha tutta la sua nobiltà di sentimenti, ma in più possiede una posizione sociale invidiabile e un'avvenenza romantica. La Sanseverina ha rubato a Stendhal il temperamento melodrammatico di una Fedra minore, ma esibisce una morbidezza di incarnato degna del Correggio. Per non dire del Conte Mosca che ha il tatto del suo creatore, e anche l'ironia, la corpulenza, l'età avanzata, la capacità di amare quasi incondizionatamente ma è anche l'uomo potentissimo che Stendhal non riuscì a diventare. Solo Dio sa quanto avrebbe amato vivere — lui, proverbialmente sfortunato con le donne — l'avventura amorosa che regala a Clelia e a Fabrizio: il gioco di occhi tra un galeotto e la figlia del suo carceriere che Stendhal trascina per pagine e pagine con virtuosismo shakespeariano.
Forse è proprio questo gusto per l'improbabilità, per il mito, per lo stravolgimento, per l'iperbole ad aver spinto la critica (sin dai tempi lontani di Thibaudet) a sottolineare soprattutto gli aspetti iper-romanzeschi della Certosa. Molti hanno indicato nell'Ariosto l'ispiratore occulto di questo romanzo d'avventura. Giudizio critico ineccepibile ma anche un po' meschino, perché svaluta l'implicita tragicità di questo capolavoro.
No, la Certosa non è solo un'esplosione di fantasie libresche. Come ogni grande romanzo del XIX secolo (come L'educazione sentimentale, Le illusioni perdute, Anna Karenina), è un libro con gli artigli piantati in terra e la testa tra le nuvole. Non importa che lo sconforto stendhaliano abbia un'aria trasognata e fuori dal tempo. Non importa che lui, al contrario del sarcastico Flaubert, tratti i suoi personaggi con affetto. Ciò che conta è che la grande esperienza umana della delusione venga resa in un modo allo stesso tempo concreto e sublime.
Come per altro comprese Balzac, uno dei primi entusiasti recensori della Certosa. Non stupisce che Balzac fosse pazzo dei personaggi. Sorprende piuttosto che rimproverasse a Stendhal uno stile non abbastanza rotondo. E che la sua perplessità si spingesse al punto da invitare il recensito a rileggersi Chateaubriand. Consiglio che Stendhal rispedì al mittente. «Il bello stile di Chateaubriand mi è parso ridicolo fin dal 1802». Una notazione che ci aiuta a comprendere come la scrittura sciatta, disinvolta, incalzante della Certosa fosse intenzionalmente destinata a servire i fatti e le idee, e non a celebrare se stessa. E come il «difetto di lavorazione» (l'espressione è di Balzac) di quello stile fosse un errore deliberato e felice. A Stendhal non interessava l'impeccabilità della sua opera proprio perché perseguiva una precisione assai più importante.
Valga per tutti il più clamoroso difetto della Certosa,
quello su cui lungamente la critica si è interrogata: il finale. Perché, dopo aver instancabilmente accompagnato i suoi eroi in ogni avventura, alla fine Stendhal dedica alla loro morte solo un paio di righe conclusive? Che senso ha quest'aberrazione strutturale?
Personalmente la considero l'ultimo colpo di genio: un modo implicito per dare conto della gratuita estemporaneità della morte.

sabato 16 febbraio 2008

Heidegger. Finalmente tradotti i "Contributi alla filosofia"

La Stampa Tuttolibri 16.2.08
Heidegger. Finalmente tradotti i "Contributi alla filosofia", testi degli anni 1936-38che segnarono la svolta del suo pensiero
Qui si assiste a un vero evento
di Marco Vozza

Nel 1989, l'anno della caduta delmurodiBerlino, uscìun libro postumo di Heidegger, uno dei più influenti e controversi filosofi del secolo scorso. L'attesa di una traduzione italiana è stata piuttosto lunga ma ora disponiamo di un volume di straordinaria densità teoretica e semantica (a cura di Franco Volpi) che presenta ben due titoli: uno pubblico e generico: Contributi allafilosofia ed uno più essenziale che mira all'identità stessa dell'essere: Dall'evento.
Dopo una «lunga esitazione», Heidegger concepì questo work in progress tra il 1936 eil 1938, anni segnati dal dominio europeo del nazionalsocialismo, successivi al fallimento dell'impegno politico del filosofo-rettore; la crisi non era soltanto di ordine sociopolitico («ovunque dilaga lo sradicamento») poiché coinvolgeva anche il ruolo della scienza (criticata da Husserl) e l'avvenire stesso della sua filosofia, ormai lontana dall'antropologia esistenzialista di Essere e tempo e avviata verso un problematico superamento dell'orizzonte metafisico di pensiero,sfociato nel nichilismo.
NELLA RADURA DELL’ESSERE
Dall'evento è l'esito più compiuto della «svolta» di cui Heidegger si fa testimone, del passaggio dall'analitica dell'esserci all'evento dell'essere, pur in una sostanziale unità tematica con l'opera del 1927. La svolta comporta un cambiamento radicale di direzione -o forse basta una «semplice spinta»- che permetta di giungere, attraverso vertiginosi tornanti, in quella «radura» in cui si svela e si insedia il senso o la verità dell'essere. Svoltare significa innanzitutto abbandonare il linguaggio tradizionale della filosofia e cercare di attingereall'essere senza avvalersi di determinazioni concettuali che lo renderebbero nuovamente imperscrutabile.
Entro tale discontinuità andrebbero però notati alcuni presupposti comuni tra Essere e tempo e Dall'evento: a) la filosofia è sempre ricerca del senso dell'essere; b) l'esserci è quell'ente che si rapporta all'essere in un rapporto di coappropriazione; c) il primato del futuro sul presente, del possibile sul reale; d) la verità è un orizzonte o radura che trascende gli enunciati conformi alvero; e) la finalità del pensiero è la salvaguardia della differenza ontologica; f) il presupposto di ogni svolta è la decostruzione rammemorante della storia della metafisica.
La meditazione sull'Evento porta a compimento dunque le questioni relative alla temporalità dell'essere e alla mortalità dell'Esserci in una prospettiva emendata dai limiti soggettivistici riscontrati nell'opera giovanile. La svolta non è tanto interna al pensiero di Heidegger quanto nella modalità di un salto che trasferisce i venturi nell'altro inizio.
L'ambizionedel filosofo tedesco è proprio quella di concepire e alludere per cenni all'altro inizio, dopo quello greco che ha dato origine alla filosofia: a decidere èl'Essere stesso attraverso una nuova donazione o manifestazione; il filosofo si limita a corrispondere a tale appello, lasciando avvertire l'eco della differenza ontologica per la quale mentre «l'ente è, l'essere permane» e disponendosi ad un ascolto rammemorante delle varie epoche della storia dell'essere. Sottratto al suo occultamento metafisico, l'essere riceve nella baluginante radura il suo carattere di Evento. Sgomento, ritegno e pudore sono gli stati d'animo fondamentali tra i quali oscilla il pensiero dell'altro inizio: una vibrazione che equivale ad unpresagio.
Evento è il termine meno compromesso con la metafisica tra i nomi con i quali designare l'Essere nel suo gioco di appropriazione espropriante con l'esserci. Pur attingendo al lessico kierkegaardiano (salto, ripetizione, aut-aut), Heidegger appronta un linguaggio di prodigiosa metaforicità (un dire trasformato difficilmente traducibile, talvolta enigmatico) che trasforma quasi la filosofia in un genere poetico e mantiene significative affinità con la teologia mistica, contrapponendosi alle finalità e allo stile propri della scienza, vituperato esito nichilistico che presiede all'epoca del calcolo imperante, nella cui rete metafisica sarebbe rimasto impigliato lo stesso Nietzsche.
«Rendersi intelligibili è il suicidio della filosofia»: questo il presupposto di un pensiero poetante ostile alla scienza e ad ogni teoria della conoscenza, di una versione moderna della teologia negativa che istituisce un regime di doppia verità, la quale corrisponde ai due inizi: quello greco, segnato dall'abbandono dell'essere a favore dell'ente, e quello preannunciato da Hölderlin, il guardiano dell'Essere «venuto in anticipo», il poeta nella cui opera si alternano apparizioni ed eclissi del divino, celebrato e custodito nella sacralità del poeta repensante. Accogliere l'evento è attendere «il lampo di Dio», la vibrazione di una epifanìa inconfigurabile.
STREGATI DALLA TECNICA
Quelledi Heidegger non sono parole così vaghe, seppur desuete: il progressivo oblìo dell'essere ha indotto l'umanità ad essere stregata dalla tecnica e dal suo effimero progresso; viviamo in una desolazione scambiata per concretezza che ha cancellato ogni traccia della domanda sul senso della nostra esperienza, ormai completamente assorbita in un regime di mobilitazione generale in vista della macchinazione tecnica, per la quale il denaro è l’equivalente universaledi ogni ente, di ogni prodotto destinato al consumo.
A tale contesto fa riscontro una filosofia che ricorre ai fatti come maschera della «vera realtà». Laricerca orientata al senso dell'essere richiederebbe invece un rifiuto di tale paradigma calcolante in nome della dis-misura, della gratuità del dono e di una sovranità senza potere. Ma a questo eventuale azzardo speculativo corrisponde la solitudine del «grande silenzio».
A testimonianza del persistente fascino esercitato dall'esistenzialismo -e non solo da quell otedesco ma anche da quello francese -sono comparsi i volumi quinto e sesto della collana di inediti sartriani presso Christian Marinotti.
Il primo, curato da Nestore Pirillo, contiene un importante scritto sul libero arbitrio pubblicato poco dopo la conclusione della Seconda GuerraMondiale: La liberté cartesienne. Dialogo sul libero arbitrio (pp.176,€15). Al secondo, Novelle e racconti. Pensieri e progetti degli Écrits de jeunesse (pp.402,€29), curato da Gabriella Farina, sono affidati gli scritti letterari del giovane Sartre, risalenti agli anni 1922-1927, all'epoca in cui, studente all'École Normale Supérieure, progettava di guadagnarsi da vivere come professore di filosofia per poter poi avere il tempo di dedicarsi alla letteratura. [F.V.]
Sono disponibili anche le lettere di Heidegger alla moglie Elfride: Amata mia diletta (Il Melangolo, pp.380, €28) curate dalla solerte nipote Gertrud. L'interesse di questa lettura è data sia da qualche aspetto della vita intellettuale: i rapporti con Husserl, Rickert, Gadamer, l'antipatia per Adorno e Grass, la perenne ammirazione per Hölderlin («un'esperienza nuova» già nel 1918), la costante diffidenza nei confronti degli scienziati; ma soprattutto per le rivelazioni sulla vita privata.
Sapevamo già tutto o quasi della relazione con Hannah Arendt ma da questo carteggio emergono altre figure di donne sedotte dall'amministratore delegato dell'essere, il quale - pur rendendosi conto del dolore arrecato - cerca di teorizzare ante litteram un modello di coppia aperta, per il quale le amanti costituirebbero un complemento virtuoso al rapporto di coppia con la moglie, «un aiuto più che un ostacolo». Gli amori sono «differenti per destino» ma Elfride, dapprime complice ora depressa, protesta per la fiducia tradita. Heidegger filosofo eticamente indegno? Scopriamo che la moglie - già nel 1920, tre anni dopo le nozze - aveva concepito il figlio Hermann con un altro uomo. Vi è materia per una soap opera! [M. V.]

giovedì 7 febbraio 2008

LA QUERCIA SACRA FA FELICE CONTE

La Stampa, Tuttolibri, 06-01-1996, pag.2
BARBERI SQUAROTTI GIORGIO
LA QUERCIA SACRA FA FELICE CONTE
Un prefetto romano scopre la magia druidica

CON molta tenacia e con vivo impegno Giuseppe Conte continua a perseguire il genere romanzesco, lui che e' per natura e vocazione soprattutto un poeta in versi: e cosi' ha tentato il romanzo lirico e contemplativo e quello di compatta e tradizionale struttura con, dentro, storia e societa' secondo le originarie regole del genere. Ora, con L'im pero e l'incanto, sperimenta forme e strutture ancora diverse, mescolando la storia (quella del tardo impero romano dopo Costantino e l'avvento del cristianesimo) e invenzione magica e fantastica, con un risultato che e' alternamente suasivo e contraddittorio. Il protagonista e' un funzionario imperiale, Adamo di Genova, di famiglia tradizionalmente inserita nell'apparato burocratico dello Stato, rimasto pagano, ma con molta prudenza, in tempi di intollerante diffusione del cristianesimo. Genovese vive un'esistenza quieta nella sua citta', dopo che ha abbandonato la passione della giovinezza, le corse dei carri nel circo. Quando muore il padre, si trova abbastanza ricco e con la nomina a prefetto di Burdigala, in Aquitania, citta' lontana si', quasi sull'Atlantico, ma con la suggestione del luogo del tutto diverso da conoscere, del viaggio avventuroso, dei nuovi paesaggi da contemplare. Il viaggio esattamente programmato finisce quasi subito in una tempesta nel mare Ligure, la nave affonda, e soltanto il protagonista si salva fortunosamente, gettato dal mare sulla spiaggia di Antipolis (Antibes). E qui iniziano le esperienze alquanto spiacevoli del naufrago, che ha salvato i denari, ma sprovvedutamente lascia intendere all'oste dove va ad alloggiare di essere ricco, e cosi' viene prima pelato con un conto molto salato, poi assalito per la via, salvandosi soltanto per la prontezza di spirito di buttare per terra parte delle monete, onde il rapinatore si getta a raccoglierle, e sopraggiungono altri viaggiatori che lo mettono in fuga. Qui l'avventura ha un brusco cambiamento di indirizzo. Il prefetto designato si stacca dalla strada verso Occidente e si volge verso il Nord, perche' ha sentito parlare di montagne coperte di boschi dove i romani non sono mai penetrati e dove, forse, durano ancora i riti druidici degli antichi Celti. La magia ha sempre interessato Adamo: ed ecco che subito e' accontentato nella sua curiosita' di conosscere e sperimentare una religione alternativa in gran parte anche rispetto al suo PAGANESIMO, fra rocce, alberi, torrenti, sorgenti, con vecchi artigiani e i pochi guerrieri rimasti a Re Cigno, e una misteriosa ragazza, Azenor, che si scopre appartenere al popolo di sotterra, misterioso e inavvicinabile nelle sue abitazioni e nei suoi costumi. Adamo da Genova conosce un contatto con la natura assoluto, primordiale, esaltante. Viene iniziato al culto druidico, avverte la felicita' spontanea e assoluta, senza complicazioni intellettuali e morali, inondarlo mentre siede sotto la quercia sacra o incontra Azenor (che scompare non appena fa buio); e ha anche la rivelazione del Popolo di Sotto, cioe' di un'altra dimensione della realta' e della vita, che si apre oltre il mondo dei propri sensi. I luoghi hanno nomi poetici, la capacita' visionaria di Adamo si acuisce, apprende altri miti, altri dei, altre narrazioni favolose ed esemplari; ma tale ritorno all'indietro e nella primitivita' dei riti naturali si spezza di colpo quando arrivano i Romani accompagnati da un vescovo, che in breve hanno ragione dei guerrieri di Re Cigno e degli altri Celti. Adamo scampa, e si ritrova di colpo lungo un'autostrada, nei tempi attuali; e con ironia e distacco si adatta ai costumi moderni, conservando, pero', la nostalgia per l'esperienza dei boschi primordiali, delle loro magie, di Azenor. Il romanzo e' scritto con due toni molto diversi. C'e', da un lato, il ritratto di Adamo funzionario imperiale col racconto delle sue vicende condotto con un tono lieve, ilare, autoironico, e con la grandiosa pagina della navigazione, della tempesta e del naufragio, e c'e' la parte dedicata ai druidi, ai boschi, al culto degli dei della natura, alle presenze fantastiche, ai sogni che sottraggono chi li sogna alle costrizioni dello spazio e del tempo per lasciarlo padrone di una liberta' infinita di esperienze, che si prolungano nel passato, ma rendono anche capace Adamo di continuare a vivere, dopo, nel futuro. La sezione che arieggia il romanzo storico, pur sapientemente prendendone le distanze con l'ironia, e godendo delle argute trovate intorno allo scontro fra i vecchi culti pagani e il cristianesimo trionfante, e' decisamente la migliore. Invece, convince di meno la celebrazione degli antichi culti celti, della vita magica nei boschi e a contatto con la natura, del mondo di presenze magiche e misteriose che popola il luogo isolato e ancora intatto dalla ragione e dalla scienza. Che si tratti di un'utopia di felicita' e' piu' volte detto, ma non viene fuori dalla narrazione. E' una presa di posizione assoluta, e basta. E, inoltre, c'e' troppa volonta' di fare nei nomi dei luoghi e delle stagioni e nell'evocazione di leggende, c'e' troppa idealizzazione astratta. E' vero che il genere puramente fantastico a me e' sempre sembrato minore, intrinsecamente incapace di grandi risultati: se si vuole caricarlo di alte responsabilita' concettuali e religiose, allora e' necessario lasciarne da parte gli orpelli per l'intrattenimento, e giocare qualche carta di piu' elevato valore di pensiero, come fece il Leopardi nella celebrazione delle del mondo pagano.
Giorgio Barberi Squarotti

Giuseppe Conte
L'impero e l'incanto
Rizzoli

mercoledì 6 febbraio 2008

Giordano Bruno: per favore ripartiamo dal filosofo

EVENTI Da oggi un convegno a Roma per ricordare il pensatore "eretico" a quattrocento anni dal rogo. Intervista con Anacleto Verrecchia
Giordano Bruno: per favore ripartiamo dal filosofo
"Tra le sue disgrazie postume, gli storici revisionisti. Per fargli giustizia, leggiamo cio' che scrisse"

EVENTI
Da oggi un convegno a Roma per ricordare il pensatore "eretico" a quattrocento anni dal rogo. Intervista con Anacleto Verrecchia Giordano Bruno: per favore ripartiamo dal filosofo "Tra le sue disgrazie postume, gli storici revisionisti. Per fargli giustizia, leggiamo cio' che scrisse" "Lo si ricorda piu' come una vittima dell' Inquisizione che non come uno dei piu' grandi geni dello storia Eppure, Galileo e Keplero saccheggiarono le sue opere"

TORINO Domani, 17 febbraio, ricorre il quarto centenario della morte di Giordano Bruno. "Eretico pertinace", "con la lingua in giova (soggiogata), per le bruttissime parole che diceva", "preferi' , circondato da secche fascine, venir bruciato vivo da divampante fuoco". Cosi' parlano le carte dell' epoca. E quel rogo del 1600, che simbolicamente segna il massimo tentativo della Chiesa cattolica di esorcizzare il nascente pensiero moderno, ancora divampa nelle menti se, come e' previsto, attorno a quella data, dopo quattro secoli, si affastelleranno convegni, commemorazioni, manifestazioni, tutti con molta passionalita' dentro. Dodici anni complessivi nelle carceri dell' Inquisizione e una fine tanto orrenda che si fa fatica anche a immaginarla, rendono Bruno il simbolo estremo della forza del libero pensiero e parallelamente dell' intolleranza religiosa. In questi giorni pero' la Chiesa ha condannato l' uso del rogo, confermando il suo giudizio sulla figura di Bruno. Chiedere perdono sarebbe stato un gesto di grande valore formale (com' e' gia' avvenuto per Galilei), ma non avrebbe ridotto le ragioni profondissime del conflitto, perche' certamente la Chiesa non potra' intaccare l' armamentario ideologico che in tempi differenti porto' , come logica conseguenza rigorosa, a quella tremenda condanna. Non e' un caso che il Papa quasi in ogni occasione accusi il relativismo come fonte di tutti i mali. E Bruno fu tra i primi veri grandi relativisti. Siamo andati a trovare Anacleto Verrecchia, che di Bruno sa tutto: per un decennio ha ripercorso passo passo le sue tracce in tutt' Europa. Ne e' sortito un volume biografico di piu' di 400 pagine, stampato da una casa editrice austriaca, Boehlau, che presto e' diventato in Europa un testo di riferimento. - In tedesco? "Certo, perche' questo e' un paese impretagliato", sospira il battagliero autore. "Eppoi, c' e' da ricordare che i primi a rivalutarlo furono proprio i tedeschi alla fine del ' 700. Il giudizio piu' profondo l' ha dato Schopenhauer quando ha scritto che tra tutti i filosofi Bruno e' l' unico che si avvicini a Platone". - Anche in Italia Bruno sta conoscendo una crescente rivalutazione. "Si' , se ne parla anche in Italia, e molto, ma tra le disgrazie postume toccate a Bruno c' e' anche quella d' essere finito nella mani dei pedanti e degli accademici, due categorie di persone da lui tanto detestate". - E' uscito ora un volume di Saverio Ricci. "Me le sono lette tutte le 650 pagine. Il libro e' pizzoso e affoga Bruno in un mare di digressioni. Mi fa venire in mente l' aforisma di Lichtenberg contro quelli che sono solo abili a ricavare un libro nuovo da un paio di libri vecchi". - Lo stanno sponsorizzando i Gesuiti e i cardinali. "Lo credo, infatti Ricci intinge la penna nell' acqua santa". - Sarebbe stato auspicabile un "pentimento" del Papa? "Non mi piace vedere la gente in ginocchio, anche se si tratta di gente di Chiesa. Pero' non sarebbe male che il Papa andasse a deporre un mazzo di rose sotto la statua a Campo de' Fiori, e in silenzio". - Anche se forse fara' riferimento ai roghi, come puo' , il Papa, accettare la cosmogonia di Bruno? "Certamente non lo puo' fare, perche' altrimenti gli cadrebbe tutto addosso. La teoria di Bruno, secondo la quale l' universo e' eterno, esclude l' idea di un Dio creatore, si avvicina semmai al buddismo. Bruno esce completamente dal cristianesimo e dal teismo. E proprio questo gli frutto' il rogo. + da poco che la Chiesa e' diventata cosi' sentimentale. Il peggiore fanatismo infatti e' quello delle religioni monoteiste. E lo si capisce facilmente: un Dio unico e' geloso. Ancora nel secolo scorso in Italia, quando nel 1889 fu inaugurato il monumento a Bruno, il Vaticano non reagi' con stile ed eleganza. Papa Leone XIII, che conferiva con lo Spirito santo e civettava con le Muse vantandosi di conoscere i classici e le opere di Galilei, invio' una lettera d' ammonimento da leggere a tutti fedeli in cui Bruno veniva diffamato in maniera vergognosa. In seguito, il Vaticano arrivo' addirittura a pretendere la distruzione di quel monumento. Ma il capo del governo italiano dell' epoca, Mussolini, rispose picche. Il Papa allora reagi' in modo ancora piu' meschino, proclamando santo il cardinale Bellarmino, uno dei piu' truci ed ottusi giudici di Bruno". - I fatti sono duri come pietre, ma pure per la vicenda di Bruno non mancano storici negazionisti. "Gli storici revisionisti sono preti di complemento, che per me sono ancora peggiori dei chierici veri: come si puo' scrivere che l' Inquisizione non amava versare il sangue e preferiva salvare le anime? Come si puo' occultare che anche quelli che abiuravano finivano quanto meno sulla forca o sul rogo? Al massimo venivano strangolati prima. Che gentilezza da parte di una religione che si spaccia per messaggera d' amore". - Basti pensare al fatto che, se con Bruno s' inauguro' il Giubileo del 1600, nello stesso anno tale Francesco Moreno non resistette alle "pressioni", chiese perdono a Dio e si comunico' "con grande devozione": ciononostante, pochi minuti dopo, fu portato "in Ponte, dove ivi fu appiccato e abrugiato". Simile la fine di Servadio Ebreo, "appiccato" il 25 giugno "a piazza Giudea", solo perche' ebreo. "Bruno fu la vittima piu' illustre ma non l' unica, una moltitudine, prima e dopo di lui, fu sacrificata sull' altare del Dio cristiano. Penso a Vanini, un altro filosofo che fu ucciso in maniera ancora piu' atroce. Spesso mi capita di leggere che la Chiesa fece di tutto per salvare Bruno e che il processo non ebbe nulla d' illegale. Gia' . Che c' e' di legale nel bruciare vivo un filosofo solo perche' aveva il vizio di pensare? Ho l' impressione che negli scritti degli apologisti colti la pazzia vada a braccetto con la malvagita' . Gia' il processo d' eresia in se' e' qualcosa di diabolicamente mostruoso. Nessuno puo' sapere quali sevizie gli siano state inflitte durante i sette anni nel carcere dell' Inquisizione romano, piu' uno nelle carceri veneziane. Che sia stato torturato e' sicuro, perche' affiora da un documento". - Siamo in presenza di un paradosso: l' orrore del rogo colpisce talmente l' immaginazione che oscura lo straordinario valore delle idee di Bruno. "Questo pericolo c' e' . Un' altra disgrazia che e' toccata a Bruno e' d' essere considerato piu' vittima dell' Inquisizione che non filosofo. Dobbiamo renderci conto che ci troviamo di fronte a uno dei piu' grandi pensatori della storia umana. In questi giorni la rivista Sterne und Weltraum del Max Planck Institut dedica un denso saggio di dieci pagine per mettere in risalto le sue strabilianti intuizioni in campo cosmologico". - Si sa che Bruno supero' l' intuizione di Copernico che la Terra non fosse al centro del sistema solare, e arrivo' a capire che lo stesso Sole non era al centro dell' universo. Un filosofo ha detto molto bene che Bruno condensa in se' la non indolore nascita della modernita' . Ma vi sono altri esempi piu' specifici? "Certo, sostenne per primo che le stelle fisse erano dei soli; che dopo Saturno, allora considerato l' ultimo pianeta, ce ne erano altri; che i pianeti si muovono tanto piu' lentamente quanto piu' distano dal Sole; che tutti i corpi celesti ruotano sul proprio asse; che la Terra e' appiattita ai poli. E questo prima di Galilei e senza cannocchiale. Lo sa che Galilei e Keplero saccheggiarono le sue opere senza neppure nominarlo? Vuole altro?". Enzo Marzo emarzo rcs.it a * Il convegno internazionale "Giordano Bruno e la scienza nuova: storia e prospettive" si svolge oggi, domani, venerdi' e sabato a Roma, in Campidoglio, ai Lincei e alla Sapienza. Per informazioni: 06 - 68.32.740.

Marzo Enzo

Pagina 33
(16 febbraio 2000) - Corriere della Sera

17 febbraio 1600: GIORDANO BRUNO L' impenitenza sul rogo

INQUISIZIONE
Quattrocento anni fa veniva bruciato il filosofo di Nola.
Un saggio spiega perche' non volle sottomettersi all' intolleranza religiosa del suo tempo
GIORDANO BRUNO L' impenitenza sul rogo
"Fecero di tutto per salvarlo Ma era troppo orgoglioso per abiurare"


Quattrocento anni fa veniva bruciato il filosofo di Nola. Un saggio spiega perche' non volle sottomettersi all' intolleranza religiosa del suo tempo GIORDANO BRUNO L' impenitenza sul rogo "Fecero di tutto per salvarlo Ma era troppo orgoglioso per abiurare" Giovedi' 17 febbraio 1600: questi giorni, quattro secoli fa. A Roma, in Campo de' Fiori, si brucia un uomo. "piccolo, scarno, con un pocco di barba nera, di eta' de circa quaranta anni". Tutt' intorno, c' era, anche allora, un grande Giubileo. In una citta' splendidamente rinnovata, milioni di pellegrini visitavano chiese e monumenti: l' eta' della Chiesa primitiva riaffiorava dal mondo sotterraneo delle catacombe da poco scoperte, quella del rinnovamento tridentino risplendeva nei santi recenti, fondatori di grandi ordini e combattenti della fede. Era stato indetto un "anno di remissione e di perdono, di vera indulgenza e di spirituale allegrezza". Ma non ci fu perdono per Giordano Bruno. Perche' ? Cerchiamo la risposta nel robustamente documentato e pur leggibilissimo volume che Saverio Ricci, eccellente conoscitore di Giordano Bruno, ha dato alle stampe in questi giorni, "Giordano Bruno nell' Europa del Cinquecento": frutto maturo di una grande tradizione di studi, l' opera spicca al di sopra di un panorama librario affollato e disuguale perche' non ha niente di occasionale o di frettoloso. Il classico ma invecchiato lavoro di Vincenzo Spampanato ha trovato finalmente chi lo puo' degnamente rimpiazzare. Quando la polvere dell' anno giubilare e delle sue polemiche si sara' posata, questo libro continuera' a conquistare i lettori. Attraverso le sue pagine, seguiamo la vicenda di Giordano Bruno su quello scenario europeo dove il nome del suo luogo d' origine - Nola - fu portato da lui con protagonistica fierezza, convinto assertore com' era delle virtu' magiche dei nomi e dei luoghi. Lo straordinario e orgoglioso senso di se' dell' uomo emerge dal modo in cui, nelle sue avventure intellettuali, cerco' il confronto con le piu' grandi corti e universita' di Marburgo e di Wittenberg, la magica Praga di Rodolfo II, Tubinga, Francoforte. Il ritorno in Italia avvenne per la porta di quella Venezia a cui tanti guardavano come unico Stato italiano libero dall' egemonia spagnola e papale e che fu, invece, per Giordano Bruno, la porta infida su di una lunga prigionia, conclusa tragicamente. Quel percorso europeo fu una serie ininterrotta di conflitti con i circoli intellettuali e religiosi dominanti. Arrivato a Ginevra non per diventarvi calvinista ma per "viver libero et essere sicuro", come dichiaro' al napoletano Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, interpreto' in modo aggressivo la sua liberta' criticando per iscritto un professore dell' Accademia. Fu processato dal tribunale del concistoro e condannato. Dovette chiedere perdono. Alla corte di Elisabetta I non ando' molto meglio. Anche qui, l' intolleranza filosofica e religiosa - in un contesto politico e culturale illuminato finemente da Ricci - si dettero la mano: la pretesa di Bruno di sostenere la tesi copernicana fin dalla prima lezione che tenne a Oxford suscito' reazioni violente, lazzi e derisioni. Un testimone riferi' : "Tentava di far stare in piedi l' opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in verita' , era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo". Ma le radici dello scontro non erano solo nel conservatorismo delle universita' inglesi. Il fatto e' che Bruno rifiutava radicalmente la severa idea puritana della predestinazione. Rifiutava il principio d' autorita' : "Lui non vedea per gli occhi di Copernico, ne' di Ptolomeo, ma per i proprii"; criticava l' evento che piu' inorgogliva la boria europea dell' epoca, cioe' la scoperta dell' America, in cui vedeva solo una tragedia di sopraffazioni; vedeva nell' intera Riforma protestante il trionfo di una "poltronesca setta di pedanti". Il panorama europeo, visto attraverso l' esperienza che ne fece Giordano Bruno, appare dunque chiuso e intollerante. Eppure, di tutte le accuse, le vicende giudiziarie e le disavventure in cui questo scomodissimo, geniale e turbolento frate si ando' a cacciare, l' unica a cui non sopravvisse la incontro' non in terra straniera e protestante ma proprio in quella Italia cattolica dalla quale era meno intellettualmente lontano. D' altronde, va detto che il processo d' Inquisizione (e l' esecuzione capitale che ne segui' ) non ebbero niente di eccezionale, niente di illegale, niente di gratuitamente crudele. Giordano Bruno ebbe un lungo, accuratissimo processo, nel rispetto piu' accurato di regole severe. Se ne occuparono teologi e giuristi preparati, di non banale spessore intellettuale. Basti citare il nome del gesuita Roberto Bellarmino, che era stato capace di sfidare l' irritazione del papa con la sua negazione del potere papale diretto sulle materie temporali. Lo avrebbero santificato, ben presto: e prima di morire, fece in tempo a porre le premesse del processo a Galileo. Tra i potenti personaggi che giudicarono il Nolano, c' era il cardinale Borghese, che doveva diventare papa Paolo V e costringere nei secoli i cattolici a venerare il nome della sua famiglia inciso nel bel mezzo della facciata della basilica vaticana. Quel tribunale che governava dal vertice la vita della Chiesa non amava versare il sangue: preferiva salvare le anime. Chiedeva solo una cerimonia di abiura. Nei secoli, la stragrande maggioranza di chi passo' davanti al tribunale trovo' accettabile questa soluzione. Pochissimi la rifiutarono. Tra questi, Giordano Bruno. Il tribunale tento' fino alla fine di farlo recedere: furono concesse proroghe, tentate persuasioni. Niente da fare. Pertinace e impenitente, il Nolano incarno' fino alla fine il tipo d' uomo contro il quale il tribunale dell' Inquisizione era sorto: quello dell' individuo che preferisce sbagliare da solo. Era un uomo litigioso, insopportabilmente pieno di se' . Diceva bestemmie, secondo il cristianesimo ufficiale. Marin Mersenne si meravigliava che ci fossero persone "cosi' sciagurate e insensibili alla salvezza della loro anima, che cercano di riposare il loro spirito tra queste empieta". Un uomo come Alberico Gentili trovava le sue idee "false, e assurde e sciocche opinioni". Nessuno poteva immaginare che le idee di quel piccolo uomo presuntuoso avrebbero lasciato cosi' lunga memoria di se' . Ma il problema, in fondo, e' tutto qui: nell' esito mortale del rapporto tra un tribunale ben regolato e ponderato e un piccolo uomo dalle idee stravaganti, che obbediva solo alle "divine leggi" di una moralita' superiore, "inscolpite nel centro del nostro cuore". Oggi, forse, all' ombra di Giordano Bruno gli eredi di quel tribunale chiederanno perdono per quella morte. Un dialogo impossibile, tra sordi, tra assenti: sordo allora Giordano Bruno a chi lo spingeva a domandare perdono e ad abiurare le sue idee, assente oggi e insieme incombente, come possono esserlo solo i morti.
di ADRIANO PROSPERI


I LIBRI Il libro di Saverio Ricci "Giordano Bruno nell' Europa del Cinquecento" (ed. Salerno, pp. 630, L. 58.000) sara' presentato giovedi' 3 febbraio, alle 18, alla Sala delle Conferenze della rivista "Civilta' Cattolica" (Roma, via di Porta Pinciana 1) alla presenza del cardinale Paul Poupard. Il 15 febbraio nei Meridiani Mondadori usciranno i "Dialoghi filosofici italiani" di Giordano Bruno (pp. 1.600, L. 85.000), mentre la Bur pubblica il "Giordano Bruno" di Eugen Drewermann (pp. 306, L. 15.000). Le opere complete di Giordano Bruno sono curate dal Centro internazionale studi bruniani di Napoli (www.giordanobruno.it), in una collana diretta da Nuccio Ordine e Yves Hersant.

Prosperi Adriano

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(27 gennaio 2000) - Corriere della Sera

Celine. Le confidenze private di uno scrittore incandescente

La Repubblica 6.2.08
Celine. Le confidenze private di uno scrittore incandescente
di Daria Galateria

Esce in Francia un volume che raccoglie cinquecento lettere scritte tra il 1936 e il 1960 , in pratica quasi tutta la carriera letteraria, dall´autore di "Morte a credito" alla sua segretaria Marie Canavaggia

Il 16 dicembre 1945, l´edicolante di una Copenhagen glaciale - lo stretto tra la Danimarca e la Svezia era gelato - segnalò alla polizia il signore senza cappotto che parlava francese, e si mostrava tanto nostalgico della patria. «Sono come uno scafandro immerso nell´acqua dell´esilio e con un piccolo tubo», «vivo solo delle vostre lettere», scriveva in ottobre Céline alla segretaria, la devota Marie Canavaggia: lei ormai potrà smettere però di mandargli giornali francesi, arriva tutto - su Le Monde Céline legge anzi le prime testimonianze sui campi di concentramento, e comincia a parlarne con sbalordimento: «Credo che niente di tanto mostruoso nessun fanatismo tanto rabbioso si sia mai abbattuto su una genia di uomini, né ebrei né cristiani».
Intanto con la sua più bella lingua tutta di imprecazioni e tenerezze, e ininterrottamente inventiva a forza di non trovare mai, in tutto il francese esistente, la misura espressiva della sua indignazione, descrive il mondo nuovo dei vincitori, privo di mezze tinte: «E´ curioso come il mondo è arrivato a essere composto mirabilmente - da un lato i mostri, i vampiri gli sciacalli i demoni di tutti i vizi, tare, pustole, imbecillità e canaglierie e dall´altro i prodi, gli arcangeli, i liberatori, i doni, tutte le luci! La vita è facile. E idioti quelli che non vanno sempre dalla parte del più forte - automaticamente».
Le Lettres à Marie Canavaggia (1936-1960) sono cinquecento, coprono quasi tutta la carriera letteraria di Céline, e per la prima volta - dopo un´edizione quasi clandestina del 1995 - arrivano al grande pubblico, sempre nella preziosa cura, riveduta e accresciuta, di Jean-Paul Louis (Gallimard, pagg 758, euro 39). C´è tutto Céline, in queste lettere, e sempre alla sua incandescente temperatura d´umore e di scrittura - come nei romanzi.
Il suo lavoro, intanto: «solo medico a bordo» a suturare e incidere feriti tutta una notte di sbieco, su una nave che lentamente sta affondando (e d´improvviso, una nota apre un universo: «il mare dà l´infanzia»). O la rocambolesca fuga raccontata nella Trilogia del Nord dalla Francia in fiamme attraverso le rovine del Reich: «Bébert e i manoscritti» - Bébert, il gatto comperato ai magazzini Samaritaine e portato via nel taschino - «hanno attraversato più obici di quanti ne occorrano per diventare marescialli di Francia». Altissimo sempre il capitolo delle bestie: «Guardate gli animali, maestri nostri in destino - come si tengono saggiamente e pateticamente al loro vecchio tappeto»; bisogna esser scacciati da tutto e dappertutto, spiega Céline, «per tornare molto semplici, molto semplici, per pensare come un cane».
Marie Canavaggia, nel 1936, ha quarant´anni; è figlia di un magistrato corso, traduce. Entrando al servizio, di segretaria e curatrice dei testi di Céline - che ha 42 anni e tutta la fama dannata del Viaggio al termine della notte - si mette subito al livello dello scrittore. Lui corregge le ultime 45 pagine di Mort à crédit, «le più ribelli; bisogna strangolarle una dopo l´altra»; impassibile, lei chiosa i particolari più osceni («sbatterlo, è la parola?»); la minima virgola mi appassiona, le scrive lui. A volte si indovina che Marie ha disturbato Céline con richieste affettive. Lui allora si lamenta, lei lo «intontisce» di isterie e complicazioni sentimentali; chiede a un mutilato di entrambe le braccia di giocare a bocce.
«In altri tempi vi avrei fatto rotolare nelle peggiori sardanapalerie voi ne sareste uscita tutta semplificata, disingelosita, guarita e non meno incantevole e meravigliosamente intelligente come siete».
Naturalmente, la specialità di Céline sono le invettive. Trova Arthur Miller banale, per esempio: un paese che produce bombe atomiche dovrebbe avere autori «cataclomici», e invece veramente non conosce niente di più «ripetuto, arcipontificato» di Miller, la sciatteria convenzionale del Montparnasse americano, «il borghese epatato di Kansans City marcito di letteratura» - quando gli riferiscono che Miller sta mobilitando gli intellettuali americani per una petizione in suo favore, Céline mostra qualche rimorso: «tanto meglio, le mie riflessioni erano tra me e voi».
Nella solitudine di Copenhagen, e poi nelle lettere a matita dal carcere, riaffiorano le geografie dei sentimenti; «ho dappertutto morti in sofferenza». Che Canavaggia non si immagini un «esilio Coblenza», come per gli squisiti émigrés della Rivoluzione francese: un esilio circondato dai fiori dello spirito e dagli incanti carnali di mirabili nordiche. La verità è un´altra, «furtiva, umiliata da vomitare, paria e intoccabili». Una quarantena pesa su lui e la moglie Lucette, mai invitati a un tè «o a un pranzo o niente»; un po´ come un passeggero clandestino tollerato per ragioni umanitarie a condizione che non venga mai a parlare sul ponte.
Céline ha l´ossessione di non crepare su quel suolo incomprensibile - però alla Bibliothèque Royale che incredibile ricchezza di libri francesi! Così, quando gli consentono di lasciare il «frigidaire baltico» e di tornare in Francia («i suoi libri antisemiti hanno fatto pensare che quest´uomo fosse praticamente matto»), Céline non vuole più vedere nessuno; «indietro isterici curiosi viziosi», lui non trova pittoresca la sua miseria. Il quotidiano l´Humanité gli promette la morte al ritorno in Francia? «Prima di crepare, voglio rendere centomila rospi delle Lettere epilettici, tetanici - non mi scoraggeranno facilmente dal rivoluzionare la Letteratura».

martedì 5 febbraio 2008

Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini

La Repubblica 2.2.08
Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini
di Roberto Calasso

Il grande poeta francese raccomandava la lettura dei "Salons" di Diderot a cui si era largamente ispirato

Pubblichiamo il testo letto ieri sera da alla Warburg-Haus di Amburgo, dove ha ricevuto il Premio Warburg

I Salons di Diderot sono l´inizio di ogni critica deambulante, capricciosa, insofferente, umorale, che si rivolge ai quadri come ad altrettante persone, si aggira curiosa fra paesaggi e figure, usa le immagini come trampolini e pretesti per esercizi di metamorfosi a cui si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Se si elimina la parola arte, sempre ingombrante e spesso improvvida, fare un Salon equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di immagini che rappresentano, in ordinati drappelli, i momenti più disparati della vita: dalla mutezza inaccessibile della natura morta sino agli episodi solenni della Bibbia e alle cerimonie grandiloquenti della Storia. Per un uomo come Diderot, dalla mente cangiante e disponibile pressoché a tutto, il Salon diventava l´occasione più adatta per mettere in scena quell´officina turbolenta e perennemente attiva che aveva sede nella sua testa.
Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo febbrile automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua scossa nervosa che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi. Per questo Diderot disse dei Salons: «Non c´è nessuna delle mie opere che mi somigli altrettanto».
Perché i Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all´altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce - e talvolta ci si perde: «E un metodo piuttosto buono per descrivere i quadri, soprattutto campestri, quello di entrare nel luogo della scena da destra o da sinistra, e seguendo nell´avanzare il bordo inferiore descrivere gli oggetti via via che si presentano». (...)
Quando Baudelaire vide per la prima volta il suo nome (allora Baudelaire Dufays) sulla copertina di un esile libro - il Salon de 1845 -, la sua prima aspirazione fu che qualcuno si accorgesse dell´affinità fra quelle pagine e Diderot. A Champfleury spedì questo biglietto: «Se volete fare un articolo scherzoso, fatelo pure, purché non mi faccia troppo male. Ma, se volete farmi piacere, fate qualche riga seria, e parlate dei Salons di Diderot. E forse il meglio sarebbe di avere le DUE COSE insieme».
Champfleury rispettò il desiderio dell´amico e sul Corsaire-Satan di pochi giorni dopo si poteva leggere, in un articolo anonimo: «M. Baudelaire-Dufays è audace come Diderot, senza però il paradosso».
Ma che cosa, in Diderot, attirava Baudelaire? Non certo il «culto della Natura», quella «grande religione» che accomunava Diderot a d´Holbach ed era del tutto aliena a Baudelaire. Piuttosto, l´attrazione era dovuta a un certo passo del pensiero, a una certa capacità di oscillazione psichica, dove - come Baudelaire scrisse di un personaggio teatrale di Diderot - «la sensibilità è unita all´ironia e al cinismo più bizzarro». E poi - non si può forse ascrivere alle coincidenze fatali che proprio Diderot fosse stato uno dei primi francesi a nominare lo spleen? Così aveva scritto a Sophie Volland il 28 ottobre 1760: «Non sapete che cos´è lo spline o vapori inglesi? Non lo sapevo neppure io». Ma il suo amico scozzese Hoop gli avrebbe illustrato quel nuovo flagello.
In tutti i suoi aspetti Diderot era terreno congeniale per Baudelaire, che alla fine non riuscì a trattenersi e svelò le sue carte in un asterisco del Salon de 1846: «Raccomando a coloro che talvolta devono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere la lettura dei Salons di Diderot. In mezzo ad altri esempi di carità ben intesa, vi troveranno che questo grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva famiglia, disse che occorreva abolire o i quadri o la famiglia». Invano è stato cercato il passo corrispondente nei Salons di Diderot. Ma certamente così Baudelaire voleva che Diderot scrivesse.
Nella catena dell´insolenza, dell´improntitudine e dell´immediatezza che collega i Salons di Diderot a quelli di Baudelaire c´è un anello intermedio: l´Histoire de la peinture en Italie di Stendhal. Pubblicato nel 1817 per un pubblico pressoché inesistente, questo libro dovette apparire al giovane Baudelaire come un viatico prezioso. Non tanto per la comprensione dei pittori, che non fu mai il forte di Stendhal, ma per la sua maniera impertinente, sbrigativa, ariosa, come di chi è pronto a tutto ma non ad annoiarsi mentre scrive. Stendhal aveva saccheggiato Lanzi per risparmiarsi certe faticose incombenze (descrizioni, date, dettagli) nella stesura del libro.
Baudelaire invece si appropriò di due passi del libro di Stendhal per devozione, secondo la regola per cui il vero scrittore non prende in prestito ma ruba. E lo fece nel punto più delicato del suo Salon del 1846, là dove parla di Ingres. Tutta la storia della letteratura - quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di scrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi - può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull´ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura. I due passi che Baudelaire prese da Stendhal sono più Baudelaire di Baudelaire e intervengono in un momento cruciale della sua esposizione. Scrivere è ciò che, come l´eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell´io. E ogni stile si forma per successive campagne - con drappelli di incursori o con armate intere - in territori altrui.
Chi volesse dare un esempio del timbro inconfondibile di Baudelaire critico potrebbe persino scegliere alcune sue righe che sono ricalcate da Stendhal: «M. Ingres disegna mirabilmente bene, e disegna con rapidità. Nei suoi abbozzi fa naturalmente l´ideale; il suo disegno, spesso poco carico, non contiene molti tratti; ma ciascuno rende un contorno importante. Avvicinateli a quelli di tutti questi operai della pittura, che spesso sono suoi allievi; - prima di tutto rendono le minuzie, e appunto per questo incantano i volgari, il cui occhio in tutti i generi si apre soltanto per ciò che è piccolo».
C´è poi un altro caso: «Il Bello non è che la promessa della felicità». Baudelaire doveva tenere molto a queste parole, che sono una variazione da Stendhal, se le ha citate tre volte nei suoi scritti. Le aveva trovate in De l´amour, libro che sino allora circolava fra molto pochi degli happy few. Stendhal non si riferiva all´arte, bensì alla bellezza femminile. Che Stendhal intendesse la sua celebre definizione del bello senza insinuarvi implicazioni metafisiche si può desumere da una sua annotazione in Rome, Naples et Florence. Sono le cinque del mattino e Stendhal esce, ancora ammaliato, da un ballo della società dei negozianti di Milano. Annota: «Non ho mai visto in vita mia una riunione di donne altrettanto belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi. Per un Francese, ha un carattere nobile e fosco che fa pensare alla felicità delle passioni ben più che ai piaceri passeggeri di una galanteria vivace e gaia. La bellezza non è mai, mi sembra, che una promessa di felicità». Si avverte subito il brio infantile, il presto di Stendhal.
Baudelaire, sulla base delle sue parole, batterà un´altra strada. Stendhal pensa alla vita - e se ne appaga. Baudelaire non riesce a impedirsi di innervarvi un pensiero, operando uno spostamento decisivo: dirotta le parole di Stendhal verso l´arte e, invece che di «bellezza», parla del «Bello». Ora non si tratta più dell´avvenenza femminile, ma di una categoria platonica. E qui avviene l´urto con la felicità, che la speculazione estetica - persino in Kant - non era ancora riuscita a collegare al Bello. Non solo: ma, con questa lieve e travolgente torsione del discorso, la «promessa» sviluppa un alone escatologico. Quale sarà mai la felicità che si preannuncia nel Bello? Non certo quella celebrata con petulanza nel secolo dei Lumi.
Baudelaire non si sentì mai attratto, per costituzione, a seguire quella via. Ma di quale altra felicità può trattarsi? E come se ora quella promesse du bonheur si riferisse alla vita perfetta. A qualcosa che travalica l´estetico e lo assorbe in sé. E questa - di Baudelaire ben più che di Stendhal - la luce utopica in cui la promesse du bonheur riaffiorerà quasi un secolo più tardi: nei Minima moralia di Adorno.
Nel momento in cui appare la fotografia - e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto - , già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi.
«Questo peccato è il nostro peccato. Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «Sin da giovanissimo, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell´immensità», traboccanti di simulacri.
L´avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d´arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche».
Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d´amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un´opera di trasposizione da un registro all´altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, dimenticando presto che potevano anche essere la descrizione di un acquarello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d´ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
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