martedì 29 aprile 2008

Il neurologo-scrittore indaga il rapporto tra mente e musica e parla del nuovo libro

Corriere della Sera 29.4.08
Il neurologo-scrittore indaga il rapporto tra mente e musica e parla del nuovo libro
Sacks: c'è un'orchestra nel cervello
Smemorati che suonano tutto Bach, medici che riconoscono solo la Marsigliese
di Livia Manera

Il nuovo libro di Oliver Sacks Musicofilia (in libreria da domani per Adelphi, traduzione di Isabella Blum, pp. 434, e 23) comincia un giorno del 1994 in cui un chirurgo americano di nome Tony Cicoria entra in una cabina telefonica durante un forte temporale e viene trafitto da un fulmine. Cicoria stramazza, è sbalzato all'indietro, ha il tempo di dire a se stesso «Oh, merda, sono morto», entra in un tunnel di velocità estatica in cui rivede tutta la propria vita, poi «Slam!», torna in sé, e da quel momento è un altro uomo. Nel senso che il suo cervello si riempie d'ora in poi di un desiderio irresistibile di musica. Soprattutto Chopin. A quel punto Cicoria si mette a studiare il piano da solo e nel giro di tre mesi non fa più quasi nient'altro che suonare e comporre. «Mi alzavo alle quattro del mattino e suonavo fino al momento di andare al lavoro», racconta al neurologo-scrittore Oliver Sacks. «E poi quando tornavo a casa rimanevo al piano tutta la sera. Mia moglie non era molto contenta. Ero posseduto ».
Sacks sorride versandosi il tè: «Ricordo il primo genio musicale che ho incontrato, era un uomo ritardato che conosceva a memoria duemila opere». Stiamo facendo la prima colazione in un albergo che l'autore di Risvegli sceglie sempre quando va a Londra, perché è vicino a una piscina, e lui ci tiene a nuotare ogni mattina alle sei. «Aveva preso la meningite da piccolo ed era incapacitato in molte cose, eppure aveva questa memoria musicale prodigiosa. Mi ha sempre colpito come la musica s'insinui nel nostro cervello: come un brano musicale ci insegni la sua struttura e i suoi segreti anche quando non ci accorgiamo di avergli prestato ascolto. Forse perché sono cresciuto in una famiglia in cui le forze dominanti erano la musica e la scienza. Mia madre faceva fatica a ricordare un brano musicale, ma mio padre sembrava avesse un'intera orchestra nel cervello».
Se non fossimo soli nella sala da pranzo di quest'albergo, daremmo sicuramente nell'occhio. Perché se nei modi Sacks ha conservato la timidezza di un adolescente malgrado i settantacinque anni, nell'aspetto sembra un astronauta in tenuta tecnica o un architetto molto alla moda, vestito com'è con una maglietta nera a maniche lunghe e pantaloni neri e modernissime scarpe da ginnastica bianche. I capelli e la barba sono bianchi anche loro, e l'accento è rimasto quello dell'Inghilterra in cui è cresciuto, malgrado quarant'anni passati a lavorare nell'ospedale psichiatrico di New York, nel Bronx, prima di approdare lo scorso autunno alla Columbia University, dove gli hanno confezionato due corsi su misura, uno di neuropsichiatria e l'altro di scrittura creativa.
Musicofilia è dunque il suo ultimo libro ed è una raccolta di ventinove saggi in cui Sacks esplora il rapporto tra la musica e la mente concentrandosi su casi neurologici che sono in parte nuovi e in parte derivati da libri precedenti come L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. C'è quello del musicologo inglese Clive Wearing a cui un'infezione cerebrale azzera continuamente la memoria, il quale ogni volta che vede sua moglie la saluta come se fosse il loro primo incontro, ma se si siede al piano riesce a suonare un intero preludio di Bach. Ci sono malati di Alzheimer o persone affette da sindrome di Tourette che trovano pace solo quando suonano o ascoltano brani musicali. Ci sono persone torturate dalla musica come Schumann che da vecchio era tormentato da allucinazioni musicali che degeneravano in una singola nota prolungata. E altre che vengono prese dalle convulsioni come la moglie di un compositore moderno che ha una crisi epilettica ogni qual volta sente una musica simile a quella del marito — e qui magari Freud, anche se era insensibile alla musica, avrebbe qualcosa da dire. Sacks si diletta parecchio con i casi di «amusia». Cita quello di Nabokov, per cui l'alfabeto era colorato come un arcobaleno, ma che pativa qualunque melodia come «una successione arbitraria di suoni più o meno irritanti». E quello di un neurologo francese che di qualsiasi brano musicale gli confessa di saper dire soltanto se sia o non sia la Marsigliese.
«Mio padre si fece un dovere di darci un'istruzione musicale fin da quando eravamo piccoli — sta raccontando Sacks — e ci trovò un insegnante molto focoso, alla Toscanini, che picchiava la testa contro il pianoforte. A cinque anni avrei detto che le cose al mondo che preferivo erano il salmone affumicato e Bach ». A differenza di allora, oggi, spiega Sacks, a uno specialista basta una risonanza magnetica per riconoscere il cervello di un musicista. Ma il rapporto tra musica e cervello rimane ancora pieno di misteri. Un caso che lo incuriosisce e gli sfugge allo stesso tempo è quello delle «infezioni musicali», quei motivetti che improvvisamente ci entrano nella testa e che non riusciamo a scacciare nemmeno se vogliamo. «Mi colpisce moltissimo la frequenza della musica interiore, forse perché c'è sempre un brano che risuona consciamente o inconsciamente nella mia mente. Un anno fa, in occasione della dipartita di un mio fratello, ha cominciato a ronzarmi in testa un capriccio di Bach. Poi pensandoci mi sono accorto che Bach aveva scritto quel brano in occasione della partenza di un suo fratello. Ma aveva diciannove anni, e si trattava di tutt'un altro tipo di viaggio».
Parliamo dell'influenza dell'IPod sulla vita delle persone («A prima vista sembrerebbe una cosa fantastica, se pensa che Darwin doveva viaggiare fino a Londra per sentire un concerto. Ma mi chiedo se questa esposizione costante alla musica non abbia una responsabilità nell'aumento delle allucinazioni musicali»), e parliamo del suo rapporto personale con la musica, oggi. «Per me non esiste una giornata senza musica. Ascolto la radio, vado ai concerti, mi siedo al piano almeno mezz'ora al giorno. Mi piace suonare con la sinistra mentre prendo appunti con la destra. Nietzsche diceva che scrivere ascoltando Bizet lo rendeva un filosofo migliore. Non so se rendo un torto alla musica in questo modo, ma a me è così che piace scrivere le mie cose. Mi aiuta a concentrarmi ».

lunedì 28 aprile 2008

La verità storica su Elena di Troia

La verità storica su Elena di Troia
BARBARA BRIGANTI
MERCOLEDÌ, 25 LUGLIO 2007 LA REPUBBLICA Cultura

UN SAGGIO RICOSTRUISCE IL PERSONAGGIO DELL´ILIADE

oggi possiamo immaginare come visse la Regina di sparta
L´autrice è divulgatrice culturale della bbc

Una delle immagini più celebri dell´Iliade raffigura Elena che, coperta da un velo scintillante, dall´alto delle Porte Scee fa planare lo sguardo sul campo di battaglia, stranamente ordinato e silenzioso. Achei e Troiani hanno deposto gli scudi, piantato le lance nel terreno e attendono severi ed incerti, incrociando le braccia. Una tregua nella decennale, tremenda carneficina, lascia il passo al duello tra i due uomini che si contendono la donna più bella del mondo. Sappiamo come andò a finire. È una visione quasi cinematografica: una panoramica a volo d´uccello sull´immenso esercito greco, il campo, le navi arenate sulla spiaggia, completata da rapide zoomate esplicative, ad uso del re Priamo, sugli eroi più famosi: Agamennone dal portamento regale, Ulisse basso, scuro e peloso come un montone, l´immenso Aiace. Di tutti loro sappiamo molto: quale sorte li aspetta al ritorno in patria, come finirà la loro avventura terrena. Conosciamo anche il destino di Troia e dei suoi abitanti. Di Elena invece, stranamente, sappiamo pochissimo e quel poco in maniera molto confusa e contraddittoria. È la storia, o se vogliamo il mito di Elena, principessa micenea del XII secolo a. C. che si è prefissa di raccontare una delle più famose divulgatrici culturali della BBC, Bettany Hughes (Elena di Troia, Dea Principessa, Puttana, Saggiatore, pagg. 511, euro 22).
Il problema di appurare se Elena è mai esistita fisicamente o se invece rappresenta solo un mito legato alla fertilità o alla primavera, è ininfluente. Grazie all´archeologia scientifica e ad una fortunata serie di scoperte fortuite avvenute nel corso del XX secolo, le conoscenze sulla Grecia micenea sono enormemente aumentate, per cui è ormai possibile ricostruire in maniera plausibile lo scenario in cui avrebbe potuto vivere una regina di Sparta.
Una principessa nata ed allevata in una reggia, un palazzo simile a quello di Pilo, un labirinto di edifici arroccati sulle scoscese colline del Peloponneso, con cortili, passaggi e scale che collegavano sale affrescate e scintillanti. Un edificio rigurgitante di tesori e di colori. La lettura delle tavolette in cuneiforme, provenienti da Hattusa, tramanda la portata dei doni che si scambiavano i re nell´Età del Bronzo: forzieri letteralmente pieni d´oro, avorio, vasellame dipinto, armi, tessuti ricamati e pelli di animali. Elena viveva in palazzi dove una folla di schiave, soldati e servi si muoveva continuamente al servizio dei sovrani, dove la regina e le sue ancelle ricoprivano un ruolo non solo di gestione della casa ma anche politico e di rappresentanza. Regina e ancelle erano giovani, quasi bambine. A dodici anni una fanciulla era sessualmente matura e pronta per le nozze, a venticinque poteva già essere nonna, se non era già morta prima stroncata da innumerevoli parti. Hanno al massimo ventisei anni le donne i cui corpi sono stati ritrovati sotto le macerie di Creta e di Thera.
Un´adolescente già in grado di gestire una casa e che spesso era usata come merce di scambio e ostaggio politico. Una quantità imprecisabile di principesse greche venne spedita oltremare nelle corti orientali, presso gli ittiti, gli urriti, gli egizi. Forse alla fonte del mito di Elena c´è una, o molte, storie del genere.
Una fanciulla snella e sinuosa, con folti capelli che faceva crescere solo una volta sposata. E non necessariamente mora. A Thera gli affreschi che documentano la rituale raccolta dello zafferano mostrano anche una ragazza bionda, con occhi chiari. Probabilmente una rarità e per questo tanto più pregiata. Sempre negli affreschi di Thera vediamo gioielli e abiti multicolori. Il peplo, i veli informi e fluttuanti che immaginiamo per abitudine, non erano affatto il costume del periodo. Le donne, pesantemente truccate e ingioiellate, portavano gonne a balze colorate e corpetti attillati che svelavano il seno. I tessuti di lino, lievi e trasparenti erano resi lucidi da numerose immersioni nell´olio d´oliva, i vivaci colori si ottenevano con tinture vegetali, lo zafferano, l´indaco, o da quella porpora che fece la fortuna dei Fenici.
Col tempo, la piccola principessa sarebbe diventata una madre di famiglia potente, come Clitennestra o Penelope, in grado di sostituirsi al re in caso di bisogno; una sacerdotessa, incaricata della gestione degli affari religiosi dello stato. Talvolta - ahimè povera Ifigenia - una vittima sacrificale.
Tutto questo, e molto ancora, fu sicuramente Elena, la donna per cui due mondi entrarono in guerra, la prima inconsapevole causa dell´infinito scontro che da millenni oppone l´oriente e l´occidente.

Un unico progetto per le due Piramidi. La prova: i raggi del Sole al tramonto

Corriere della Sera 15.12.07
Un unico progetto per le due Piramidi. La prova: i raggi del Sole al tramonto
Volute da Cheope e Chepren nel 2.500 a.C., sorgono a Giza, luogo sacro del popolo egizio legato alla creazione
di Giulio Magli, Politecnico di Milano

Un nuovo studio condotto sulle basi dell'archeoastronomia getta una luce inedita sull'unica delle «sette meraviglie » dell'antichità giunta fino a noi: le piramidi di Giza, in Egitto. Le due grandi architetture abitualmente attribuite a Cheope e a suo figlio Chepren, costruite attorno al 2500 a.C., appartengono a un unico, grandioso progetto architettonico e non a due progetti concepiti successivamente, come invece finora si è sempre pensato. Le prove di questa tesi che non contraddice nulla di quanto è appurato già dagli egittologi, sono sia di ordine tecnico che simbolico. Esse sono connesse alle relazioni esistenti tra la geometria del complesso architettonico della Piana di Giza e i suoi allineamenti astronomici.
Le piramidi sono orientate ai punti cardinali quasi perfettamente, ma con una lieve differenza da attribuirsi alla tecnica con cui le stelle venivano osservate per determinare il nord, e che mostra come la «seconda piramide» sia stata progettata per prima. Oltre a legarsi alle «stelle imperiture » (come dicevano gli Egizi) del nord, Cheope però voleva dimostrare di essere «Figlio del Sole», quindi destinato alla vita eterna. E quale modo migliore per dimostrarlo se non farlo «dire» al Sole stesso? Accade infatti che le due grandi piramidi, se osservate dalla zona della Sfinge, il giorno del solstizio d'estate diano vita a un fenomeno spettacolare. Il Sole tramonta al centro tra i due monumenti formando e ricostruendo l'immagine del geroglifico Akhet (orizzonte), che raffigura appunto il disco solare tra due montagne, simboleggiando la continuità della vita dopo la morte, destino del faraone sepolto nella piramide. Un effetto, però, che necessita anche della seconda piramide, quella del figlio di Cheope, Chepren, per realizzarsi. Dunque solo alla morte del padre questo faraone si sarebbe attribuito una parte del complesso raffigurante l'orizzonte di Cheope.
Un altro indizio che suffraga la nuova tesi è il fatto che il terreno in cui sorge la seconda piramide sia in posizione migliore rispetto a quello in cui sorge la prima, segno che, nella mente del progettista, lo spazio prima o poi sarebbe dovuto essere occupato da una struttura simile e complementare. Questa complementarità è confermata, ancora, dallo studio archeo- astronomico: infatti il giorno del solstizio d'inverno, il sole tramonta in allineamento dietro la seconda piramide se visto dalla zona del tempio alla base della prima.
C'è, infine, un altro elemento nuovo che gioca un ruolo fondamentale nella tesi. Esso riguarda l'interpretazione della skyline della piana di Giza, cioè ciò che si vede al-l'orizzonte della Piana se la si guarda dal sito in cui sorgeva Heliopo-lis, un importantissimo centro religioso solare ora inglobato nei sobborghi del Cairo. Accade infatti un fenomeno visivo curioso e spettacolare, sicuramente voluto: avvicinandosi ad Heliopolis le piramidi di Giza si sovrappongono alla vista l'una con l'altra, e alla fine la pur enorme mole della seconda piramide non risulta piu' visibile, perché coperta interamente dalla prima.
Perché, dunque, Chepren dovrebbe aver voluto che la sua piramide fosse invisibile dal luogo sacro al Sole? È più logico pensare che sia stato Cheope a voler realizzare questo «miraggio» in segno di rispetto per il tempio del sole di Heliopolis, considerato un vero e proprio ombelico del mondo egizio, un luogo associato alla creazione e alla cosmologia.

«Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento»

il manifesto 19.12.07
Una via di fuga sulle orme dei «classici»
«Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento», un saggio di Mariapaola Fimiani. La resistenza alla società del controllo e l'azione tesa a definire la soggettività politica
di Sandro Chignola

In un testo che nel 1977 Gilles Deleuze affida a François Ewald perché questi lo rimetta a Foucault - un testo dalla particolare intonazione confidenziale, intima, che può essere letto in traduzione italiana nella raccolta di saggi deleuziani curata da Ubaldo Fadini per ombre corte (Desiderio e piacere, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori) - viene evidenziato quello che a Deleuze appare il problema davanti al quale si trova Foucault nel punto di svolta tra Sorvegliare e punire e La volontà di sapere. L'idea, cioè, che «dispositivi di potere» e «resistenze» si fronteggino nel piano di immanenza del campo sociale sembra infatti a Deleuze rischiare di restaurare, da un lato, le funzioni unificatorie del principio di contraddizione e dall'altro evitare la vera questione che dovrebbe essere pensata: se le «linee di fuga» che il potere cerca di imbrigliare - il movimento delle migrazioni, quello delle donne, la circolazione della moneta, le insorgenze del desiderio, il puro disordine che fa scappare da tutte le parti l'«oggetto» del controllo, la nozione stessa di «campo sociale» - «non sono necessariamente rivoluzionarie».
Che cos'è, si chiede Deleuze, che fa di un evento un punto strategico di resistenza piuttosto che un'indecidibile traiettoria di non-tenuta, una pura deterritorializzazione? In termini molto più radicali: quali sono le condizioni di produzione etica e politica di un nuovo soggetto nel partage, nella separazione, che si spalanca tra dispositivi di potere e contropotere; tra il Potere e i poteri, plurali, singolari, puntuali, ai quali si incardinano le resistenze?

Il divenire del soggetto
Questione filosofica decisiva, si dirà. Alla sua elaborazione Michel Foucault prende a lavorare negli anni seguenti, e ad essa deve essere ricondotta la sua intera produzione della maturità. Il Foucault dell'Uso dei piaceri, de La cura di sé, de L'ermeneutica del soggetto, il teorico della biopolitica, non come colui che ripropone un'inaudita, e per molti versi sorprendente, centralità del soggetto, ma come colui che prende davvero sul serio la questione cruciale che gli pone il suo amico Deleuze.
È questo Foucault, un Foucault filosofo, che pensa, come egli ebbe del resto a dire, con i classici sui quali non scrive, ma nella cui traccia egli lavora (Heidegger, certo. Nietzsche, passione condivisa con Deleuze, ovviamente. Ma anche Kant e soprattutto Hegel, al quale Foucault dedica un inedito mémoire giovanile), quello preso in considerazione da un importante saggio di Mariapaola Fimiani (Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, ombre corte, euro 13,50).
Il soggetto e il suo sporgere sul mondo a partire dalla piegatura riflessiva del vivente, nella quale l'accadere si altera e si dispiega la contraddizione tra la coscienza e l'oggetto, è il quadro in cui Foucault pensa il ciclo dell'ermeneutica del soggetto.
L'apertura e la chiusura del Cours del 1981-1982 sono dunque poste sotto l'egida hegeliana della «spiritualità». Il legame circolare tra il «soggetto» e la «verità». A partire da ciò, l'idea del soggetto come di un divenire. Elaborazione della differenza e ritorno del sé al sé. E ancora: l'appello perché il pensiero raccolga di nuovo la sfida del mondo classico alla filosofia occidentale, quella di pensare un soggetto di esperienza capace di fare del proprio mondo il luogo di una prova.
Apprendere il proprio mondo come «appartenenza» e come un «compito» è ciò che marca, per Foucault, la specificità dell'ethos filosofico. Tagliare l'ordine delle cose per tenere assieme ontologia dell'attualità e potenza di trasformazione, il gesto che gli permette di pensare con Kant, Nietzsche, Weber. E soprattutto con Hegel. L'Erotica che chiude L'uso dei piaceri - il «duplice rapporto con la verità» che in essa si dischiude: «rapporto con il proprio desiderio interrogato nel suo essere», e «rapporto con l'oggetto del desiderio come vero essere» - come esplicita e diretta «riscrittura» della Fenomenologia dello Spirito e della logica hegeliana del riconoscimento.
È questa la tesi di Fimiani. Il farsi spirituale del vivente e il movimento della vita presa nel proprio sapere; l'attivazione del circolo che lega il soggetto alla verità in una trasformazione che è trasformazione attuale dell'uno e dell'altra; il farsi esistenza del divenire. Un'ontologia della forza in cui si intrecciano vita e soggettivazione e che Foucault pensa nel testo di Hegel.
Di qui una sorta di radicalizzazione del lavoro filosofico foucaultiano. Ciò che per lui è in questione non è più (soltanto) l'analisi dei sistemi di verità e il loro archivio, l'archeologia del sapere indagata nella ritmica di costruzione e decostruzione, ma l'istantaneità dell'atto di verità che chiede di essere imputato al soggetto agente in stretta coniugazione con la sua inserzione al mondo. L'etica della vita si lega così alla politica.
La «piegatura» in cui la vita si riflette attraverso il sapere che produce di sé, si fa linea di articolazione singolare tra etica e politica, tra la «cura sui» e il sistema degli effetti che la trasformazione in cui il soggetto è catturato determina sulla costituzione intersoggetiva del mondo e la tramatura dei poteri che la sottende.

Etica della rivoluzione
«Rileggo i Greci - avrebbe affermato Foucault - perché la Rivoluzione sarà etica». Non c'è resistenza alle pratiche di assoggettamento se non nella reinvenzione del rapporto in cui singolarità della soggettivazione e vita politica sono viecendevolmente costrette ad una decisiva rimodulazione dell'una e dell'altra. Ancora Hegel, probabilmente, colui che lavora nella lettura foucaultiana dello stoicismo. Ma ben prima dello stoicismo - e della pastorale cristiana che ne ritrascrive i codici in forma impolitica e disciplinare - l'Alcibiade di Platone: la conversione dello sguardo che trasforma la semplicità del processo vitale in esperienza soggettiva, potenza singolare radicata nella pienezza del piacere e non fondata sulla mancanza del desiderio, atto di verità che trasforma il mondo e il sistema di rapporti etici che lo fa mondo comune.
«Sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare sé stesso», ebbe a scrivere Wittgenstein. Coniugare il rapporto tra il reinventarsi vita singolare e il divenire della vita in comune, e quindi gettare una sfida permanente ai meccanismi pastorali del biopotere: è questo il compito etico e politico cui ci introduce Michel Foucault.

domenica 27 aprile 2008

Che vita inquinata tra antenne e cemento

Che vita inquinata tra antenne e cemento
Stefano Miliani
L’Unità 26/4/2008

Due libri, uno di Paolo Rognini, l'altro di Francesca Bottari, ci spiegano cosa succede alle nostre città

Non ci rovina la vita solo l'aria inquinata. Inquinano, e fanno soffrire e peggiorano la vita, anche pubblicità giganti e onnipresenti nelle città come lungo le strade di campagna, l'edilizia selvaggia nelle periferie, gli ecomostri, una disattenzione - di matrice innanzi tutto politica - alle cure del territorio. Dal Veneto al Salento alla Campania, intere zone campestri sono sparite sotto il cemento e i capannoni. Però oggi forse non sono i soliti pochi di qualche decennio fa a non sopportarlo più. Cresce la sensibilità? Lo suggeriscono forse più segnali. Da un lato la ricorrente partecipazione ai luoghi d'arte che associazioni come il Fondo per l'ambiente italiano aprono ogni anno, dall'altro, ora, l'uscita di due volumi in fondo complementari.
Il primo è La vista offesa. Inquinamento visivo e qualità della vita in Italia (Franco Angeli editore, 224 pagine a 19,50 euro), una raccolta di testi a più firme e di più discipline curato dal docente di ecologia urbana e sociale a Pisa, Paolo Rognini; l'altro ha un titolo più piano, I beni culturali e il paesaggio. Le leggi, la storia, le responsabilità, a cura della storica dell'arte Francesca Bottari e del professore di filosofia Fabio Pizzicannella (Zanichelli, 351 pagine, 32,50 euro). La vista offesa è un pamphlet. Stima «che nella seconda metà del secolo scorso gli spazi edificati siano aumentati mediamente del 400 per cento, cioè 20 volte più della popolazione». E constata che il cosiddetto Belpaese tanto bello non lo è più. Tra i casi scandalo riepiloga ristoranti su pezzi un tempo intatti di costa tirrenica in Toscana, la rete stradale che ad Agrigento ha mortificato la Tomba del tiranno Tirane, del V secolo a. C, riducendola a triste «birillo spartitraffico», cortine edilizie tirate su scriteriatamente, le foreste urbane di antenne paraboliche. E mentre in periferia proliferano i centri commerciali, accusa il libro, «estetizziamo» i centri storici, magari per compensare un senso di passato distrutto ne facciamo bomboniere staccate dalla quotidianità, «la soluzione più ingannevole e pericolosa perché illude». Per quanto in queste pagine filtri anche una tesi legittima ma discutibile: le centrali eoliche inquinerebbero visivamente il paesaggio. Spagnoli o danesi sarebbero degli scriteriati perché producono energia con il vento in alternativa ad altri sistemi inquinanti? A parte questo La vista offesa è un pamphlet prezioso, utile e appassionato che ha coinvolto agronomi e psicologi, architetti, l'editorialista del nostro giornale Vittorio Emiliani e uno storico dell'arte come Antonio Paolucci. Il volume Zanichelli su beni culturali e paesaggio vuole divulgare il passato e il presente. In forma di schede riassume chiaramente chi e come e perché ha iniziato a prendersi cura dell'arte e del paesaggio, da Raffaello e Canova approda all'oggi, fino a strutture odierne come il ministero, il Vaticano, la cornice legislativa dall'Italia unita a ora. Parte da un presupposto: per difendere qualcosa o saperlo gestire bene è essenziale conoscere, a cominciare dagli studenti delle scuole superiori, e quindi prendere coscienza di quadri, colline e monumenti. Un limite hanno i due volumi, la qualità non eccelsa delle foto, certo per contenere i costi editoriali.

sabato 26 aprile 2008

Germania. Sì dagli ebrei torna "Mein Kampf"

La Repubblica 26.4.08
Germania. Sì dagli ebrei torna "Mein Kampf"

BERLINO - Il Consiglio centrale degli ebrei di Germania si è espresso ieri in favore di una ristampa del libro di Adolf Hitler "Mein Kampf", il manifesto dell´ideologia nazista. «Sono favorevole ad una riedizione, magari con l´aggiunta di commenti, e sulla diffusione via Internet», ha detto il presidente del Consiglio degli ebrei, Stephan Kramer. Il Consiglio si è detto disponibile a collaborare nella redazione dei commenti al libro e ad intercedere presso il governo della Baviera, titolare dei diritti d´autore del libro fino al 2015, per far autorizzare la pubblicazione. "Mein Kampf´", scritto da Hitler tra il ‘23 e il ‘24, è vietato in Germania dalla fine della II guerra mondiale.

giovedì 24 aprile 2008

Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture

Corriere della Sera 24.4.08
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora

È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l'autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul
corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l'effetto insensatamente contraddittorio dell'invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista
già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso — ed esso soltanto — contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che — oltre a rappresentare un'ulteriore petitio principii — per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione — e quindi la lettera — del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.

Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all'università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.

martedì 22 aprile 2008

«Le parole e le cose»: Foucault diventa una collana

Corriere della Sera 22.4.08
Editoria. Un'iniziativa della Sellerio, curata da Gianni Puglisi, indaga i nuovi saperi
«Le parole e le cose»: Foucault diventa una collana
di Pierluigi Panza

Dalla più teoretica tra le opera del filosofo francese Michel Foucault, Le parole e le cose (un'analisi epistemologica del sapere nell'età classica che mostra il dominio del linguaggio sull'individuo) prende nome e spunto una collana di saggi della casa editrice Sellerio, curata da Gianni Puglisi, rettore dello Iulm.
La collana, viene presentata oggi a Milano (ore 18, libreria Feltrinelli di piazza del Duomo, con Daniel-Henri Pageaux dell'Università Paris III e Luca Maria Scarantino dell'Ecole des Hautes Etudes di Parigi) nell'occasione di due nuove uscite:
Il grado zero dell'immagine. Rispecchiamenti dell'io nell'Altro di Puglisi e Paolo Proietti (pagine 68, e 12) e Specchi del Letterario: l'imagologia di Proietti (pp. 168, e 14).
La collana si prefigge di tratteggiare statuti disciplinari di materie tradizionali e di nuove «scienze umane» che vanno definendosi, come la «narratologia», la «imagologia» o la «tematologia» in un quadro di sapere interdisciplinare che va dagli studi sociologici a quelli della comunicazione.
Tra tutti questi argomenti accenniamo a due aspetti. Nel libro di Puglisi-Proietti emerge l'idea di conoscenza come performance, ovvero oggi ogni sapere è — come già in Richard Rorty ( Le conseguenze del pragmatismo) — costruzione di un modello che resiste al tempo in ragione della sua efficacia. In un altro testo della collana, Addio all'estetica di Jean-Marie Schaeffer (pp. 84, e 12) si mette sotto accusa il pan-estetismo, ovvero l'estendere all'infinito il campo d'indagine di questa disciplina fondata a metà Settecento da Baumgarten, transitata da un piano gnoseologico inferiore e di indagine artistica a quella di una soggettivazione di ogni fenomeno mondano.

domenica 20 aprile 2008

I misteri di Shakespeare. Thriller, biografie, saggi: così il Bardo è tornato a far parlare di sé

Corriere della Sera 20.4.08
Personaggi Bill Bryson ricostruisce le (poche) certezze e demolisce le (molte) leggende: il viaggio in Italia, la fede cattolica, la mano di Marlowe
I misteri di Shakespeare. Thriller, biografie, saggi: così il Bardo è tornato a far parlare di sé
di Ranieri Polese

Un thriller (W di Jennifer Lee Carrell), la biografia ipotetica di Anne Hathaway ( Shakespeare's Wife di Germaine Greer), la ricostruzione romanzesca di un episodio minore della vita del drammaturgo ( The Lodger di Charles Nicholl): sono i casi più recenti di quell'industria di congetture legata al nome e ai misteri del Bardo di Stratford upon Avon. Il primo indaga su un'opera teatrale perduta, il Cardenio, ispirato al Chisciotte di Cervantes; il secondo immagina tutto quello che non sappiamo della donna che sposò Shakespeare nel 1582, gli dette tre figli, restò vedova nel 1616 (ottenendo nel testamento solo «the second best bed», nemmeno il letto matrimoniale!) e morì nel 1623; il terzo estrapola i possibili retroscena del fatto che Shakespeare, nel 1604, vivesse in affitto in una casa della City, proprietà di Christopher Mountjoy, un ugonotto francese stimato fabbricante di cappelli per signora. La sua presenza in quella casa è attestata dagli atti di un processo del 1612, quando il drammaturgo fu chiamato a testimoniare nella causa intentata dal genero di Mountjoy contro il suocero che non gli aveva corrisposto la dote promessa.
Con una vita densa di opere (38 drammi, 154 sonetti, due lunghi poemi e due altri componimenti in versi) e poverissima di fatti documentati, Shakespeare (1564-1616) non ha mai cessato di ispirare ogni genere di supposizioni. Su di lui, peraltro, ogni anno escono mediamente quattromila studi: è un soggetto inesauribile per ogni genere di indagine. Anche quelle più bizzarre, come «Mal d'orecchi e omicidio nell'Amleto» o «Shakespeare e la nazione del Quebec». Ma cosa possiamo dire di sapere veramente su di lui? A questa esigenza di semplificazione e di ripulitura risponde il lavoro di Bill Bryson, lo scrittore americano autore di brillanti libri di viaggio (Notizie da un'isoletta, America perduta)
e di una divertente miscellanea su tutto quello che non sappiamo della scienza ( Breve storia di — quasi — tutto). Pubblicato nella collana di Atlas Books (HarperCollins) dedicata alle biografie, Shakespeare: The World as a Stage, esce a fine mese in traduzione italiana da Guanda, con il titolo Il mondo è un teatro. La vita e l'opera di William Shakespeare (traduzione Stefano Bortolussi, pp. 246, e 15).
Troppe congetture
Secondo un esperto citato da Bryson «ogni biografia di Shakespeare è formata al 5 per cento di fatti e al 95 per cento di congetture». In caccia di fatti, molti studiosi, pertanto, si dedicano alle ricerche di archivio, nella speranza di trovare il nome del poeta in qualche carta. Lo spoglio sistematico dei documenti d'archivio era cominciato ufficialmente agli inizi del '900, quando una coppia di americani (Charles e Hulda Wallace) passò lunghi periodi in Inghilterra esaminando milioni di documenti dell'epoca. A loro si deve la scoperta della testimonianza resa da Shakespeare nel processo contro Mountjoy (1612, con firma dello stesso poeta). Deluso per i mancati riconoscimenti, Charles Wallace se ne tornò in America, dove fece fortuna come proprietario di pozzi di petrolio. Da allora la ricerca prosegue; potrebbe ancora dare dei frutti anche se, nota Bryson, da queste indagini escono solo atti legali e certificati di proprietà. Sulla personalità del poeta, i suoi affetti, i suoi interessi culturali gli archivi tacciono.
Le critiche e il sarcasmo di Bryson, però, si appuntano soprattutto sui fabbricanti di congetture, che nei loro lavori passano con grande disinvoltura dalle ipotesi alla certezza assoluta. Per esempio, nel caso dei cosiddetti Lost Years, gli anni perduti (1585-1592), il periodo in cui Shakespeare lascia moglie e tre figli a Stratford per trasferirsi a Londra e cominciare a lavorare in teatro e di cui non sappiamo niente. Partendo dal fatto che Shakespeare produce diversi drammi di ambiente italiano, molti studiosi hanno sostenuto che in quegli anni il giovane William visitò l'Italia. Illazione non proprio lecita, dice Bryson, oltretutto perché i drammi italiani di Shakespeare offrono solo informazioni confuse, inverosimili (per esempio, nella Tempesta e nei Due gentiluomini di Verona, per raggiungere rispettivamente Milano e Verona si va per mare) che tutto provano fuori che una conoscenza diretta del Paese. Più complessa l'altra ipotesi secondo la quale Shakespeare in quegli anni avrebbe prestato servizio come tutore presso una famiglia di nobili cattolici del Nord dell'Inghilterra. Quella di uno Shakespeare segretamente cattolico è una teoria che ha affascinato molti, ma le prove addotte sono poco consistenti. Si dice, per esempio, che fra gli insegnanti della Grammar School presumibilmente frequentata dal giovane William (ma i registri sono perduti) c'era il fratello di un missionario cattolico scoperto e messo a morte nel 1582. Poi si aggiunge la notizia del ritrovamento verso la fine del '700, durante dei lavori nella casa di Shakespeare, del «testamento spirituale» del padre di William, John, che si dichiarava cattolico. Peccato, scrive Bryson, che quel testamento fu perduto poco dopo, e che quindi non si possa valutare la sua autenticità. Peggio di tutti, comunque, sempre secondo Bryson, si comportano quegli studiosi che passano dall'esame dei testi (frequenza di certe parole, uso di determinate espressioni, ecc.) per arrivare a conclusioni assolutamente ingiustificabili. Fra gli altri, quelli che da due sonetti (37 e 89) deducono che Shakespeare zoppicava; o quelli che si immaginano uno Shakespeare marinaio (addirittura insieme a Sir Francis Drake) vista la frequenza di termini marini.
William chi?
La controversia sulla vera identità di Shakespeare (una sorta di Questione omerica per il più grande poeta dell'età moderna) nasce relativamente tardi. Nel 1857, quando un'americana, Delia Bacon, pubblica The Philosophy of the Plays of Shakespeare Unfolded (La filosofia delle opere di S. rivelata). Lì si sostiene che a scrivere i drammi del Bardo fu il filosofo Francis Bacon. La Bacon basava la sua argomentazione sul fatto che le opere di Shakespeare mostrano conoscenze fuori dal comune per un provinciale venuto a Londra per fare l'attore; ma aggiungeva di essere arrivata alla verità grazie alle sue particolari doti intuitive. (Tornata in America nel 1859, la poverina finì i suoi giorni in un manicomio). Il partito dei «baconiani» riscosse subito grande successo, fra l'altro ottenne l'adesione di Henry James e Mark Twain.
Comune a tutti i cosiddetti «antistratfordiani», quelli cioè che non riconoscono la paternità dei drammi all'uomo di Stratford, c'è il pregiudizio di uno Shakespeare troppo rozzo e senza cultura per poter scrivere le opere che vanno sotto il suo nome. Così, nel 1918 si volle «dimostrare» che l'autore vero di drammi, poemi e sonetti era Edward de Vere, conte di Oxford, colto e raffinato uomo di mondo, protettore di una compagnia teatrale e ammirato dalla regina Elisabetta. Peccato — nota Bryson — che Oxford muore nel 1604, quando ancora dovevano nascere molti capolavori shakespeariani. Un altro candidato, inevitabile, è Christopher Marlowe: molti sostengono che non morì nella rissa alla taverna di Deptford nel 1593, ma sotto copertura continuò a scrivere. Anche una donna appare nella lista dei pretendenti, Mary Sidney, sorella del poeta Philip Sidney. Infine — ed è la tesi ripresa dal thriller W di Jennifer Lee Carrell — c'è anche l'idea che dietro il nome di Shakespeare si celassero molti personaggi, fra cui lo stesso Philip Sidney e Walter Raleigh. Ma che valore hanno tutte queste supposizioni? Per Bryson nessuno, sono solo fantasie romanzesche più vicine alle teorie dei complotti che non a seri studi. Ai cultori di questa mania moderna (curiosamente, per circa 200 anni, nessuno mise mai in dubbio l'identità del poeta), ossessionati dal fatto che di un genio così grande si conosca così poco, Bryson ricorda che dei poeti e drammaturghi contemporanei di Shakespeare si conosce molto meno. E ci sono rimaste molte meno opere.

martedì 15 aprile 2008

La civiltà dei barbari

La Repubblica 15.4.08
Un saggio dello storico Modzelewski
La civiltà dei barbari
di Adriano Prosperi

Un´indagine sui rapporti tra le culture europee nel passaggio dal paganesimo , mai del tutto veramente estinto, all´affermarsi del cristianesimo
È molto fragile il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra diffuso dai nazisti
Il dominio dei Longobardi in Italia fu costruito come una monarchia

Barbaro: una parola greca, nata per fare il verso col suo balbettìo inarticolato (bar-bar) a quelli di cui non si capiva la lingua. Al riso dei greci seguì il severo spirito ordinatore e la volontà di conquista dei romani: la parola servì per distinguere la civiltà come patrimonio dei «cives romani» da chi ancora non la possedeva. Certo, poteva già allora accendersi il gioco di specchi che ha reso celebre l´osservazione di Michel de Montaigne davanti ai selvaggi americani: ognuno definisce barbari gli usi diversi dai propri. Quando Ovidio fu esiliato a Soci tra le popolazioni del Mar Nero si rese conto che i ruoli potevano rovesciarsi e che il più raffinato cittadino romano poteva diventare il barbaro di chi non capiva la sua lingua. Col crollo dell´impero romano la storia dei barbari è diventata la storia d´Europa. Ma chi erano coloro che travolsero i confini romani e dilagarono in occidente? Su di loro gli storici dell´800 proiettarono i confini degli stati nazionali: la divisione tra popoli germanici, baltici e slavi apparve allora obbligatoria. Oggi una importante opera dello storico polacco Karol Modzelewski affronta l´impegnativo compito di ridefinire la carta dell´Europa alto-medievale in una fase in cui non c´è solo da cancellare gli anacronismi del nazionalismo (L´Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri, pagg.481, euro 40). La discussione sulle radici culturali cristiane dell´Europa che si è accesa intorno al preambolo della costituzione europea impone a chi affronta il tema da storico un compito imponente: quello di fare un bilancio storico - non politico, non religioso - del rapporto tra culture pagane e cristianità romana. Karol Modzelewski non si è sottratto all´impegno. Il suo libro affronta la questione dei rapporti tra le culture europee su di un arco temporale che va dalle invasioni barbariche alle radici sopravviventi di un mondo pagano che «non morì completamente». E´ proprio con questa citazione oraziana che il libro si conclude.
Che cosa non è morto? Per esempio il fondamento religioso germanico della regola dell´unanimità del verdetto dei giurati, oggi indiscusso pilastro del sistema giudiziario statunitense: oppure l´archetipo del legame di sangue tra i membri della tribù che è rimasto nella definizione della guerra civile come «lotta fratricida». Certo, gli antichi dèi furono sconfitti: lo riconobbero gli abitanti di Stettino quando, davanti al ludibrio che i missionari cristiani facevano dei loro idoli, si sentirono non più protetti e si rassegnarono al battesimo con parole non diverse da quelle che secoli dopo furono pronunziate in America dagli aztechi sconfitti da Cortès. Quel mondo pagano crollò come l´albero altissimo che impediva al cielo di cadere sulla testa degli uomini (chi non ricorda Asterix?). I Sassoni adoravano un grande tronco di albero, che chiamavano «colonna universale»: così racconta Rudolf di Fulda. I missionari cristiani tagliarono l´albero, fecero trascinare via gli idoli, frantumarono i recinti sacri delle assemblee. Si ripeteva il trauma della fine del paganesimo antico simboleggiata dalla morte del dio Pan. Ma la morte delle culture non è come quella degli esseri umani: di quella barbarica sopravvissero forme nascoste e profonde, che il volume di Modzelewski decifra seguendo percorsi inconsueti e ricostruendo processi storici complessi su di uno scenario di grande ampiezza spaziale e cronologica e dominando una straordinaria ricchezza di fonti. Lo storico ha dovuto lavorare in condizioni di speciale difficoltà, che è facile immaginare se si pensa che ha avuto a disposizione tracce incerte, nell´assenza spesso quasi completa di documenti scritti, e dovendo per di più fare i conti con rappresentazioni tenaci quanto infondate. Facciamo un solo esempio per intenderci.
Il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra e per l´obbedienza ha ricevuto diritto di presenza nel passato quando storici filonazisti elaborarono la costruzione di un ipotetico gruppo sociale - i cosiddetti «liberi del re» soggetti solo al sovrano e dediti esclusivamente alla guerra - che sarebbe stato tipico dei popoli germanici.
Quella costruzione aveva basi fragilissime e oggi appare a pezzi, nota Karol Modzelewski. Ma questo non le ha impedito di resistere a lungo. Prova - se ce ne fosse bisogno - della verità dell´osservazione che su di un piano generale Modzelewski propone al lettore: «Ogni riflessione sul passato si accompagna a un certo modo di valutare e di comprendere il mondo contemporaneo». Alle realtà politiche del mondo contemporaneo Karol Modzelewski ha partecipato personalmente militando nell´opposizione da sinistra al regime filosovietico in Polonia dove è stato tra i fondatori del sindacato Solidarnosc. Ma, a differenza di altri intellettuali polacchi, per lui l´impegno politico non è diventato una professione: ha continuato a fare il mestiere di insegnante e di storico conservando di quella esperienza di impegno politico una vigile attenzione al rapporto tra presente e passato. Oggi, con questo robusto e affascinante volume, offre il suo contributo per rispondere alla domanda se ci siano e quali siano le basi comuni della cultura europea derivate dalla tradizione dei barbari. Questa Europa barbarica venne integrata nell´ambito della cultura dominata dalla Roma pagana e poi cristiana durante una vicenda lunga tredici secoli, dalla guerra gallica di Cesare fino alle campagne dei cavalieri teutonici. Si svolse allora il confronto e il conflitto tra le culture tribali germaniche, slave e baltiche e la cultura romano-cristiana. Questo è il tema del libro. I confini abbracciati dalla ricerca di Modzelewski comprendono territori e popoli oggi divisi da identità nazionali fortemente consapevoli delle proprie diversità e spesso reciprocamente risentite. Per ricostruirne i tratti culturali comuni c´è voluto un esercizio straordinario di microanalisi associata a una capacità di mettere in relazione testimonianze di natura diversa e di epoche lontane fra di loro.
Facciamo anche qui un solo esempio: nel 1030 un missionario cristiano di nome Volfred giunto dall´Inghilterra in Svezia fu messo a morte per aver fatto a pezzi l´idolo del dio Thor. Il suo corpo dilaniato fu gettato nella palude. Così racconta Adamo di Brema. Ora, che il rito dell´esecuzione capitale germanico prevedesse l´affogamento di certi tipi di condannati nel fango delle paludi era stato scritto nella Germania di Tacito, un´opera che riemerse nella cultura dotta solo nel 1455 da un unico manoscritto trovato in monastero tedesco. Forse Adamo di Brema aveva letto l´opera di Tacito o quella di un altro autore che aveva utilizzato Tacito? Questo poteva accadere; in altri casi accadde. La grande affidabilità e acutezza dell´inchiesta antropologica di Tacito trova continue conferme nello studio di Modzelewski che in molti punti si può quasi considerare un omaggio al grande storico romano. Ma nel caso di Adamo di Brema le analogie fra i due testi non si spiegano ricorrendo alla trasmissione di un motivo letterario. Qui Modzelewski apre un ampio spiraglio sulla realtà medievale delle sopravvivenze pagane tra i popoli barbari e ne mostra gli scontri e gli accomodamenti col cristianesimo e con la cultura latina: intanto le leggi consuetudinarie di popoli «barbari» - i Burgundi (inizi del VI secolo), i Frisoni (norma codificata nell´803) - attestano la pena capitale dell´affogamento nel fango. La pena aveva un carattere religioso, di espiazione per offese agli dèi. E che venisse praticata lo dimostra una prova materiale: in Danimarca, Olanda, Irlanda gli scavi archeologici e le estrazioni della torba hanno portato al rinvenimento di alcune centinaia di «cadaveri di palude» alcuni dei quali con gli occhi bendati e con segni di torture (i terreni paludosi hanno notoriamente la caratteristica di conservare perfettamente i resti organici).
Questo è solo un piccolo esempio dell´interesse di questa storia: dall´indagine di Karol Modzelewski vengono illuminate pratiche divinatorie pagane solo superficialmente cristianizzate, come quella in uso per scoprire il colpevole in un processo penale. Sono particolarmente interessanti le sue osservazioni sui caratteri sacrali dell´assemblea pubblica (fu necessario un ordine specifico di Carlo Magno per imporre l´obbligo del culto festivo al Dio cristiano a danno di quelle assemblee). Si tenga conto di quanto il terreno di riti e miti dell´antichità germanica sia stato reso un campo minato dalla propaganda nazista e dagli storici tedeschi del III Reich: per reazione gli studiosi hanno poi ecceduto nel metterne in ombra gli aspetti sacrali e le convinzioni religiose soggiacenti. L´analisi di Modzelewski invece è un restauro paziente e accurato di un mondo che ha lasciato tracce nelle leggi, nelle consuetudini e nel linguaggio in un´area che abbraccia popoli germanici, slavi, ugrofinnici e si estende dalla Svezia all´Irlanda, alla Lettonia e a tanti altri paesi. Anche all´Italia: anzi, specialmente all´Italia perché il dominio del Longobardi su parte della penisola fu costruito come una monarchia di conquistatori, senza il concorso delle élite romane che furono invece determinanti nella storia della vicina Gallia. Perciò le leggi longobarde hanno uno speciale valore di prova in questa inchiesta sulle categorie delle culture barbariche. Si pensi allo speciale diritto del re sulle donne del popolo longobardo, che si spiega solo sulla base di una concezione privatistica del sovrano come un grande parente di ogni famiglia.
«C´è voluto un secolo o più di duro lavoro - ha scritto Zygmunt Bauman - ... per convincere i prussiani, i bavaresi, i renani, i turingi o i sassoni... che sono tutti parenti stretti e discendenti dello stesso ceppo germanico» (Le vespe di Panama, Laterza, p.12). Senza ricorrere alla forza militare, con l´intelligenza e lo sguardo dello storico Karol Modzelewski ha raggiunto un risultato di gran lunga maggiore: dimostrare l´appartenenza dei popoli della Scandinavia, della Russia, della Polonia e naturalmente della Germania - cioè di tutte le popolazioni discendenti dai «barbari» - a una stessa cultura originaria, frammentata in seguito dal diverso livello di integrazione con la cultura dell´impero romano e con la religione cristiana ma non cancellata del tutto. La vittoria del cristianesimo fu non uno smantellamento ma una interazione con l´eredità del mondo dei barbari: e l´Europa di oggi reca nella sua cultura le diverse facce delle reciproche influenze - mondo romano, mondo bizantino e retaggio culturale barbarico.

lunedì 14 aprile 2008

«Le scienze cognitive classiche: un panorama»

Corriere della Sera 14.4.08
Dialoghi Lo scienziato italiano e il fondatore della «grammatica generativa» esaminano i nuovi sviluppi delle discipline cognitive
Il cervello non è relativista
Pensiero e genetica, incontro tra Piattelli Palmarini e Noam Chomsky «Esistono componenti biologiche innate nella mente e nel linguaggio»
di Massimo Piattelli Palmarini

Piattelli Palmarini insegna Scienze cognitive all'Università dell'Arizona Nato nel 1928, Noam Chomsky è professore emerito di Linguistica al Mit
A livello profondo le strutture logiche mostrano una fondamentale semplicità

Sono appena usciti, negli Stati Uniti, due eccellenti dvd destinati ai corsi universitari, a cura del noto psicologo della Harvard University Howard Gardner. Uno è intitolato La mente di Noam Chomsky, l'altro Noam Chomsky: linguaggio e pensiero (www.classroommedia.
com). Osannato da alcuni come il Galileo delle scienze cognitive e il Copernico della linguistica, detestato da altri come un arido riduzionista delle squisite sottigliezze del linguaggio e della mente, una recente ricerca statistica ha rivelato che Chomsky, oggi ottantenne e sempre attivissimo, è l'intellettuale vivente più citato al mondo. Inoltre è stato il più noto e uno dei più inflessibili avversari della guerra in Vietnam, militanza che gli ha anche procurato brevi detenzioni nelle patrie galere. Le sue posizioni politiche di matrice anarchica sono ben note e non mi ci soffermerò qui. La lista di autori, di articoli e di libri anti chomskiani sarebbe molto lunga, ma bastino due recenti esempi: nel 2006, la psicologa inglese Margaret Boden pretendeva di smascherare «dieci miti su Chomsky». Dello stesso tenore, e con simili fraintendimenti ed errori, è un articolo appena pubblicato su Libero (martedì 1 aprile) a firma Lucio d'Arcangelo, intitolato «Vacilla il mito del linguista più scientifico del mondo».
Chomsky ha pazientemente e molto dettagliatamente, nel corso di decenni, ribattuto alle critiche e messo in evidenza gli errori e i fraintendimenti. Prima di dargli la parola in un'intervista in esclusiva sulle scienze cognitive, vorrei citare solo alcuni dati di fatto. Da molti anni leggo i lavori di grammatica generativa (così si chiama esattamente il filone di linguistica inaugurato da Chomsky intorno alla metà degli Anni Cinquanta), ho a suo tempo seguito dieci interi corsi semestrali di Chomsky al Mit e circa altri dieci di linguisti suoi colleghi e collaboratori. Ciò nonostante, non ho problemi ad ammettere che molti dettagli tecnici ancora mi sfuggono.
Il messaggio, qui, è che si tratta di una scienza immensamente complessa e profonda e che ogni ritocco a un'ipotesi, a una teoria, riverbera con inevitabili ritocchi su molte altre ipotesi e teorie e su dati già noti per varie lingue. Sbalordisco quando vedo criticata con sicumera la grammatica generativa da chi, con ogni evidenza, ne sa poco o niente. Un altro dato, diciamo, demografico: hanno contribuito a questa scienza, nel corso di mezzo secolo, circa duemila studiosi, in vari Paesi. Importanti ricadute della teoria e notevoli conferme sono venute anche da altri campi come la genetica, le neuroscienze, le simulazioni su calcolatori, le patologie del linguaggio, la psicologia animale. Formidabile è stato il potere di attrattiva di questa scienza su menti di straordinario calibro, su studiosi di matematica, fisica, ingegneria, scienze di calcolo e biologia. Questa comunità ha offerto, offre e continuerà a offrire una grande diversità di teorie, di ipotesi e di indirizzi, non di rado in aspra polemica, anche con lo stesso Chomsky, come è naturale che sia in una scienza viva e in incessante progresso. Vengo ora alla mia intervista.
Piattelli Palmarini — Se dovesse scegliere un'idea, un evento, un'ipotesi o un campo di ricerca che ritiene essere il più importante per la nascita delle scienze cognitive, quale sarebbe?
Chomsky — Penso che l'evento centrale sia stato riconoscere come i fenomeni mentali possano e debbano essere studiati come gli altri fenomeni naturali, non attraverso metodi per manipolare il comportamento, né osservandoli superficialmente, ma indagandone i meccanismi interni, quelli che sono alla base dei comportamenti e spiegano i dati osservabili.
Piattelli Palmarini — Ritiene giustificata l'espressione «rivoluzione cognitiva»?
Chomsky — C'è stato un cambiamento importante di prospettiva a partire dagli Anni Cinquanta. Sostanzialmente si è trattato di un recupero di intuizioni e riflessioni che risalivano al XVII e al XVIII secolo, ma che furono spinte in direzioni nuove. Non amo troppo il termine «rivoluzione», e ho sempre ritenuto che, se proprio lo si vuole adottare, quello che è successo negli Anni Cinquanta sia una seconda rivoluzione cognitiva.
Piattelli Palmarini — È d'accordo con me che due componenti sono state centrali: l'importanza e la complessità dei processi detti
bottom-up (cioè che procedono dal basso in alto, dai dati dei sensi al pensiero) e la modularità della mente, cioè la suddivisione della mente e del cervello in molte unità relativamente autonome?
Chomsky — Sì, ma mi chiedo se non siano conseguenze dell'aver adottato con successo un approccio biologico alla cognizione. Speculando un po', ho il sospetto che tra un secolo, guardando indietro verso il presente, si concluderà che la componente veramente centrale è stata la scoperta di un livello profondo. I processi mentali superiori mostrano, a questo livello, una fondamentale semplicità, forse il risultato di un'evoluzione biologica relativamente improvvisa e recente.
Piattelli Palmarini — Il titolo del mio libro usa l'aggettivo «classiche» per distinguere le scienze cognitive dal ritorno odierno di tendenze del passato, cioè modelli che vogliono ritornare a un'analisi generica, superficiale, statistica. Che ne pensa?
Chomsky — È certo che c'è, oggi, una pressione possente verso un ritorno allo studio dei fenomeni mentali in superficie, enfatizzando le differenze culturali, le stranezze, le frequenze statistiche. Perfino la fisica, fino a circa un secolo fa, era soprattutto basata su misure di fenomeni osservabili. Uno scienziato del calibro di Henri Poincaré riteneva che avessimo adottato l'ipotesi della natura molecolare dei gas solo perché ci sono familiari i rimpalli delle biglie, delle bocce e delle palle da biliardo. I principi della chimica erano ritenuti dai massimi studiosi essere solo utili semplificazioni di calcolo, senza una vera realtà fisica. C'è, quindi, una certa somiglianza con l'assurdo dogma che i processi mentali, se reali, debbano essere accessibili alla nostra coscienza (Chomsky ha polemizzato su questo per anni con il famoso filosofo americano John Searle, nda). Cercare, per i processi mentali superiori, teorie che siano genuinamente esplicative e non solo superficialmente descrittive rappresenta, con ogni evidenza, uno sforzo psicologico. Ci è difficile ammettere che ciò che sentiamo e pensiamo è il prodotto di meccanismi invisibili e di principi astratti, inaccessibili, se ci limitiamo a semplici induzioni e a piatte generalizzazioni.
Piattelli Palmarini — Le critiche anti chomskiane di Margaret Boden e del giornalista di Libero, tra gli altri, rivelano una forte resistenza ad ammettere che esiste una grammatica universale e delle forti componenti biologiche nel linguaggio e nel pensiero. Come mai le tendenze al relativismo e al generalismo cognitivo sono così diffuse e possenti?
Chomsky — Ho risposto recentemente in dettaglio a Margaret Boden e nel corso degli anni a tanti altri critici. Esiste, purtroppo, una forte tentazione a essere dualisti, cioè a ritenere che il mondo dei fenomeni naturali e il mondo della mente siano due settori distinti e separati. Anche coloro che non lo ammettono fino in fondo, cioè anche quando non sono dualisti in senso metafisico, lo sono in senso metodologico. Cioè non ammettono che gli stessi standard razionali di indagine delle normali scienze e gli stessi metodi di ricerca delle scienze possano essere applicati anche allo studio della mente. Sarebbe interessante capire perché il dualismo sia ancora oggi tanto diffuso. C'è un'assurdità nel rifiutare la grammatica universale, cioè nel rifiutarsi di ammettere che esiste una componente genetica della facoltà di linguaggio. Come ho cercato di mostrare in dettaglio per molti anni, se così fosse davvero, cioè se non esistesse questa componente innata, l'acquisizione del linguaggio nel bambino diventerebbe un miracolo.

Baldini Castoldi Dalai ha appena pubblicato il libro di Chomsky «Regole e rappresentazioni. Sei lezioni sul linguaggio» (pp. 542, e 18,50)
«Le scienze cognitive classiche: un panorama» è il titolo del saggio più recente di Piattelli Palmarini, uscito da Einaudi (pagine 534, e 23,50), a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini

sabato 12 aprile 2008

La bellezza è libertà: e Heidegger annunciò la scoperta di Schiller

Corriere della Sera 12.4.08
Documenti Recuperate le prime lezioni del filosofo sull'arte
La bellezza è libertà: e Heidegger annunciò la scoperta di Schiller
di Armando Torno

Heidegger riserva continuamente sorprese. Una sua ricerca, un viaggio, un corso suggeriscono sempre idee utili alla cultura contemporanea. Così è di un seminario tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1936-37, dedicato alle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo di Schiller, del quale è andato perduto il testo originale e restano soltanto frammentarie annotazioni. Le pagine non figurano nell'edizione tedesca in corso delle opere del filosofo, ma alcuni partecipanti presero appunti. Grazie a uno di essi, il medico attempato Wilhelm Hallwachs (era nato nel 1872 e seguiva il maestro dal 1930), è possibile ricostruire i dodici incontri, tra il 4 novembre 1936 e il 17 febbraio 1937.
Che importanza può avere un seminario su Schiller del pensatore tedesco? Diremo innanzitutto che le pagine, nate in un corso per matricole, affrontano temi di grande portata e riflettono una scelta esistenziale, giacché in quel tempo Heidegger resta appartato. C'è tuttavia qualcosa di più: come ben nota il curatore dell'edizione italiana, Adriano Ardovino, l'Introduzione all'estetica (uscita ora da Carocci) è un documento prezioso in cui si riflette «la definitiva centralità dell'arte all'interno di un pensiero che valorizza sempre più la storicità dell'esistenza umana». La posta in gioco è alta: Heidegger mostra — utilizziamo le conclusioni presenti nell'edizione italiana — come le Lettere di Schiller rappresentino uno dei tentativi più profondi per ritrovare nella riappropriazione estetica della natura sensibile la storia della libertà umana.
Il filosofo si lasciava alle spalle non poche questioni e alla fine del 1935 in una conferenza a Friburgo, ripetuta a Zurigo all'inizio del 1936, esponeva per la prima volta le sue tesi sull'arte, sulle quali si baserà l'opera definitiva L'origine dell'opera d'arte (tradotta dall'editore Marinotti). Quel 1936 fu un anno di studi, di domande, di tristezze. Schiller è anche un rifugio. Cosa racchiudono veramente queste lezioni?
Cominciamo a rispondere, ricordando che nella primavera — sempre del 1936 — il filosofo è invitato a Roma per dieci giorni. È la prima volta che vede il nostro Paese e ne visita la capitale. Il 2 aprile tiene la conferenza Hölderlin e l'essenza della poesia all'Istituto italiano di studi germanici, dove lo accoglie un pubblico entusiasta; l'8 legge alla Biblioteca Hertziana un testo dal titolo L'Europa e la filosofia tedesca. Rivede, tra i molti, il suo allievo Karl Löwith che, fuggito dal Reich, vive a Roma grazie a una borsa di studio ottenuta per interessamento dello stesso Heidegger. Non passerà molto tempo e dovrà riparare in Giappone.
Tornato in patria, ha uno scambio di corrispondenze e di testi con Jaspers. Emergono le difficoltà di entrambi: uno si sente emarginato, l'altro è preoccupato («...mi si blocca la parola! Nell'operosità silenziosa, però, finché è concesso, possiamo trovarci»). Non è difficile, d'altra parte, per Jaspers prevedere tempi difficili: avendo sposato un'ebrea, nel 1937 gli verrà interdetta la possibilità di insegnare e dal 1938 ogni pubblicazione. Anche Heidegger non sa più cosa siano i giorni di gloria: il 14 maggio il partito ordina accertamenti sulla sua attività, il 29 le informazioni raccolte sono inoltrate al Sicherheitsdienst (il servizio di sicurezza del Reich) e viene decisa la sorveglianza del filosofo.
In quei mesi, tuttavia, l'autore di Essere e tempo è come se guardasse altrove; abbandona sempre più quel che gli sembra superfluo e si immerge nelle ricerche, elaborando testi per i corsi. Tiene quello estivo del 1936 sul saggio dedicato da Schelling alla libertà, ed esercitazioni sulla Critica del giudizio di Kant, né dimentica Hölderlin e Nietzsche (pensa in quei giorni alle lezioni su «La volontà di potenza come arte»), mentre medita qualcosa per il Congresso internazionale su Cartesio del 1937 a Parigi, città dove si sarebbe recato nel-l'estate del 1935 per predisporre la strategia dell'evento (non ci andrà, la delegazione tedesca verrà guidata da Hans Heyse). Poi le lezioni su Schiller. Sembrano l'ultima fuga in una dimensione dove abita un'altra luce. Il 20 gennaio 1937 proferisce al seminario la frase: «I popoli si destano al loro inizio con la poesia e con la fuoruscita da essa giungono alla fine»; e sottolinea: «Nel colloquio, noi viviamo nel linguaggio ». Il 10 febbraio, quasi alla conclusione, afferma: «La forma è tutto. L'apparenza è l'essenza dell'arte. La bellezza è libertà del fenomeno. (Lo stato estetico è la prima forma di libertà, ossia ricettività spontanea). Libertà e forma devono essere lo stesso. Che significa libertà? Ciò che si determina da se stesso». Heidegger aveva dunque trovato nella bellezza la libertà, nella poesia il battito del cuore delle civiltà. Per questo poteva ripetere nella lezione del 2 dicembre 1936 con l'amato Schiller: «Le nature volgari pagano con ciò che fanno, quelle nobili con ciò che sono!».

martedì 8 aprile 2008

"Poesia e ritratto nel Rinascimento"

La Repubblica 8.4.08
"Poesia e ritratto nel Rinascimento" di Lina Bolzoni
Quell’amore allo specchio
di Benedetta Craveri

Era stato Petrarca a riaprire il dibattito sui legami tra pittura e scrittura dedicando due sonetti al ritratto di Laura eseguito da Simone Martini

Si racconta che nel 1560 la contessa Caterina Mandella, nuora di Baldassarre Castiglione, scoprì per caso che «un grande e bellissimo specchio», che decorava la parete di una stanza della casa d´Urbino dove un tempo aveva abitato suo suocero, era dotato di un congegno segreto. Esso si apriva a comando e rivelava, custodito nell´incasso del supporto di legno della cornice, «un ritratto di bellissima e principalissima signora, di mano di Rafael Sanzio d´Urbino». Nel nascondiglio erano conservati ugualmente due sonetti composti quarantatré anni prima da Castiglione. È possibile che il ritratto di Raffaello fosse quello di Elisabetta Gonzaga, duchessa d´Urbino, oggi conservato agli Uffizi, e che fosse lei l´oggetto di quell´«amore troppo alto e troppo sublime» che l´autore de Il Cortegiano era costretto a celebrare nel più profondo segreto.
Ben lungi dall´essere solo un semplice accorgimento pratico, l´espediente del nascondiglio dietro lo specchio obbediva a una precisa simbologia amorosa di ascendenza platonica: riflesso nello specchio, il volto dell´amante veniva a sovrapporsi all´effigie dell´amata e le due immagini si congiungevano così in una simbiosi segreta. Ai versi custoditi all´interno del mistico scrigno spettava invece il compito di dar voce al dialogo, altrimenti muto, delle immagini.
È proprio la lettura di questi celebri "Sonetti dello specchio" a costituire il momento culminante del viaggio dotto e appassionante di cui Lina Bolzoni ci illustra l´itinerario nel suo Poesia e Ritratto nel Rinascimento (testi a cura di Federica Pich, Laterza, pagg. 288, euro 38). I due componimenti di Castiglione condensano, infatti, i principali temi di una lunga riflessione poetica incentrata sul rapporto tra la parola e l´immagine, tra l´arte e la natura.
Era stato Francesco Petrarca, un secolo e mezzo prima, a riaprire il dibattito, che già aveva appassionato gli antichi, sulle diverse potenzialità espressive proprie alla scrittura e alla pittura e di cui Orazio aveva proposto la sintesi con la sua celebre formula Ut pictura poesis. Con i due sonetti del Canzoniere, composti tra 1338 e il 1343, in cui Petrarca evocava il ritratto di Laura, da lui stesso commissionato a Simone Martini e purtroppo andato smarrito, aveva infatti inizio una tradizione poetica che, scrive la Bolzoni, prendeva spunto dall´immagine pittorica «per variare e celebrare il lavoro della scrittura letteraria, per trarne materiale che permette di declinare in modo nuovo i topoi tradizionali del linguaggio amoroso». Una tradizione di cui la studiosa, che ha fatto del rapporto tra memoria, letteratura e immagine uno degli assi portanti della sua ricerca, ricostruisce oggi, in questo bel saggio, i momenti più significativi.
Nel primo sonetto Petrarca celebra la natura divina dell´ispirazione del pittore che è salito in cielo per contemplare l´immagine spirituale di Laura, infinitamente più bella della sua incarnazione terrestre: «Ma certo il mio Simon fu in paradiso/ onde questa gentil donna si parte:/ivi la vide, et la ritrasse in carte/ per far fede qua giù del suo bel viso». Quel «qua giù» annuncia, tuttavia, i limiti dell´impresa pittorica e la «incolmabile distanza tra il cielo e la terra», tra la visione della bellezza perfetta e originaria ideata da Dio e la sua impossibile rappresentazione. Come ci dice il secondo sonetto, la straordinaria capacità illusionistica del ritratto di Simone Martini - «benignamente assai par che m´ascolte,/ se risponder savesse a´ detti miei» - rende ancora più acuto il dolore per la perdita della donna amata e lascia intendere, al tempo stesso, come solo la poesia abbia la facoltà di dare voce a questa sofferenza e di commemorarla all´infinito.
Il progressivo diffondersi della pratica del ritratto in strati sempre più ampi della società doveva favorire, nel corso dei due secoli successivi, il confronto tra poesia e pittura, evidenziandone di volta in volta affinità e divergenze. Gli esempi propostici da Lina Bolzoni non potrebbero essere più suggestivi: sono qui Giovanni Della Casa e Tiziano, Castiglione e Raffaello, Niccolò da Correggio e Leonardo, Serafino Aquilano e Pinturicchio, Gian Battista Marino e Caravaggio a dialogare insieme a partire da un modello comune.
Pronta a celebrare la suggestione di ritratti di cui ancora oggi ci è dato di ammirare lo splendore, la poesia trovava un´alleata nella pittura, se ne serviva come fonte di immagini, di metafore e di ispirazione erotica, o ne denunciava le pericolose illusioni, ma non transigeva sulla sua superiorità. Se, come aveva teorizzato Leon Battista Alberti, la pittura possedeva la capacità di «far vedere ai vivi, molti secoli dopo, coloro che sono morti», garantendone così la memoria, la poesia sola si arrogava la facoltà di dare voce alle immagini e penetrare nell´interiorità delle persone ritratte.
A sua volta la pittura rispondeva alla sfida tentando di appropriarsi della parola poetica, ritraendo con sempre maggiore frequenza delle persone con in mano delle lettere o dei libri, o inserendo la scrittura all´interno stesso del quadro. È il caso del ritratto della incantevole Giovanna degli Albizzi Tornabuoni, eseguito da Domenico Ghirlandaio nel 1488, dove spicca sullo sfondo la scritta: «Arte, se potessi rappresentare anche i costumi e l´animo, non esisterebbe in terra quadro più bello». Ed è ancor più il caso dello straordinario ritratto di Laura Battiferri, dipinto intorno al 1560 da Bronzino, dove i rinvii tra pittura e poesia si fanno vertiginosi. Rappresentata di profilo, la poetessa schiva lo sguardo dello spettatore ma tiene invece, con ambo le mani, un libro bene aperto su cui è possibile leggere due sonetti trascritti dal Canzoniere di Petrarca, che diventano parola e anima del ritratto. Il quadro stesso, inoltre, aveva dato luogo a uno scambio di versi tra il Bronzino e la sua modella circa la possibilità di esternare l´interiorità in forme visibili.
Come scrive la Bolzoni, «la parola poetica penetra così nel cuore dell´immagine (...) e crea un complesso circuito di messaggi, ricco di allusioni e di sottintesi, che tuttora mette alla prova le capacità interpretative dei critici».
Per consentire, invece, ai lettori di seguirla più agevolmente nella sua esplorazione erudita, la studiosa ha provveduto a fornire loro, in appendice al suo saggio, l´insieme dei testi a cui ella fa riferimento, affidandoli alle cure di Federica Pich.
Sul filo di questa doppia lettura e delle immagini pittoriche che l´accompagnano ci troveremo al cuore di una civiltà per cui il mito del Parnaso ed il concerto armonioso delle Muse non erano ancora ridotti a stereotipi letterari, ma rispondevano a una concezione interdisciplinare delle arti e dei saperi dagli esiti meravigliosamente fecondi.

Se i libri bruciano. Dall’antica cina ai nazisti

La Repubblica 8.4.08
Esce "il matematico impenitente" di Piergiorgio Odifreddi
Se i libri bruciano. Dall’antica cina ai nazisti
di Piergiorgio Odifreddi

È l´assolutismo a provocare questa forma di condanna all´inesistenza di qualunque pensiero sgradito ai potenti in ogni parte del mondo
Anche la Chiesa non mancò di condannare alle fiamme le opere sospette di eresia
In Germania gli autori "contrari allo spirito tedesco" vennero sottoposti all´autodafé

Nel saggio La muraglia e i libri, che apre le Altre inquisizioni, Borges ricorda che «l´uomo che ordinò l´edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel primo imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui», e nota che «bruciare libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi: la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala nella quale operò». Oltre alla maestosa duplicità dell´atto, Borges ne rileva anche l´apparente contraddittorietà: la costruzione della muraglia e la distruzione dei libri tendevano infatti, da un lato, a preservare nello spazio l´integrità territoriale dell´impero, e dall´altro, a cancellarne nel tempo la memoria storica. Si può dunque ipotizzare un loro ordine successivo, che a seconda dei casi mostrerebbe l´immagine di un re placato che cominciò col distruggere e poi si rassegnò a conservare, o quella di un re disingannato che finì per attaccare ciò che prima difendeva.
L´episodio cinese, rievocato anche da Elias Canetti in Autodafé, si situa a metà tra il fatto e la leggenda: possiede dunque entrambe le valenze, letterale e metaforica, che la storia e la letteratura hanno finito per associare all´immagine dei libri in fiamme. I quali, com´è noto, bruciano alla temperatura di Farenheit 451, pari a 233 gradi Celsius, che dà il titolo all´utopia negativa del romanzo di Ray Bradbury e all´omonimo film di François Truffaut.
Il più antico rogo di libri che la storia registri è probabilmente quello della biblioteca di Tebe, ordinato nel 1358 p.E.V. dal faraone Akhenaton, marito di Nefertiti e padre di Tutankhamon. Avendo sostituito il culto dei molti dèi egizi con quello del solo disco solare Aton, il primo monoteista della storia incappò immediatamente negli effetti collaterali più tipici delle fedi uniche: da un lato la persecuzione degli eretici e la distruzione delle loro opere, dall´altro la reazione fondamentalista provocata da ogni azione fondamentalista.
Puntualmente, infatti, alla morte di Akhenaton il clero di Tebe ristabilì il culto di Amon e cancellò a sua volta ogni memoria del riformatore. L´esempio del primo imperatore cinese mostra comunque che i roghi dei libri non sono monopolio del clero: è l´assolutismo a provocarli, e quello religioso non è che una delle sue tante forme.
Ma non bisogna confondere il proposito doloso di cancellare sistematicamente una cultura, con le fiamme appiccate più o meno colposamente durante guerre o rivolte, benché sia spesso difficile determinarne le cause e distinguerne gli effetti. L´unica cosa certa sono le ceneri e le rovine sotto le quali, ad esempio, nel 168 p.E.V., i Seleucidi seppellirono la biblioteca ebraica di Gerusalemme, così come nel 48 p.E.V. Cesare e nel 646 gli Arabi distrussero quella greca di Alessandria, nel 980 Almansor quella dei califfi di Córdoba, nel 1176 Saladino quella sciita del Cairo, nel 1204 i Cristiani quella classica di Costantinopoli, nel 1258 i Mongoli quella sunnita di Baghdad, nel 1560 il vescovo Diego de Landa quella maya dello Yucatán e nel 1691 il vescovo Nunez de la Vega quella maya del Chiapas (tra parentesi, per questo motivo oggi rimangono solo tre libri di questa cultura, uno dei quali è il famoso Popul Vuh). Diverso è il caso dei libri bruciati non alla rinfusa, ma in maniera mirata e per decreto di una suprema autorità censoria, deputata a colpirli uno a uno.
L´esempio più tipico di un tale organismo è naturalmente la Congregazione dell´Indice istituita nel 1571 e attiva fino al 1917, anche se l´Indice dei Libri Proibiti da essa gestito era già stato istituito nel 1559 da Paolo IV e fu abolito solo nel 1966 da Paolo VI. La vittima più famosa fu forse Giordano Bruno, le cui opere furono bruciate in piazza San Pietro il 17 febbraio 1600, nello stesso momento in cui l´autore stesso veniva immolato sul rogo a Campo de´ Fiori. (...)
Naturalmente, la Chiesa non aveva atteso l´Inquisizione per mandare al rogo le opere degli eretici: risalendo nel tempo, ce lo ricordano i processi e le sentenze contro Lutero nel 1520, Abelardo nel 1140 e 1121, Fozio nell´870 e Ario nel 325. Ma in realtà il Cristianesimo era nato infetto, perché il virus del fuoco lo si trova già negli Atti degli Apostoli (XIX, 19): in essi infatti si narra che «molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti». Non è dunque un caso che oggi i roghi dei libri e degli uomini si chiamino autodafé, parola che deriva appunto dal portoghese auto de fé e significa «atto di fede».
L´autodafé ufficiale veniva celebrato in pompa magna sulle pubbliche piazze e la cerimonia comprendeva una messa, una processione dei condannati rasati e messi alla gogna, e una lettura delle sentenze: non la tortura, né l´esecuzione, che erano rispettivamente amministrate prima e dopo, in separata sede. A partire dal primo autodafé registrato, nel 1242 a Parigi, queste macabre messe in scena furono eseguite innumerevoli volte e per secoli, in Europa e nelle Americhe: soprattutto in Spagna, tra il 1481 e il 1691. Voltaire le mise alla berlina nel sesto capitolo del Candide, che narra di «come si fece un bell´autodafé per scongiurare i terremoti», con tanto di fustigazione per Candide e di impiccagione per Pangloss: anche se, naturalmente, «lo stesso giorno la terra tremò di nuovo con un fracasso orribile». Ma non fu soltanto la barbara cristianità a bruciare i libri dei suoi eretici: secondo Diogene Laerzio (IX, 52) la stessa sorte toccò anche a Protagora nella raffinata Grecia, nel periodo buio che Atene visse alla fine del quinto secolo p.E.V. (...)
Se così fecero persino i Greci, cosa avremmo potuto aspettarci dai nazisti? Puntualmente, alla mezzanotte del 10 maggio 1933 migliaia di studenti del nascente regime celebrarono l´autodafé dei libri «degenerati», bruciando in varie città universitarie della Germania opere «contrarie allo spirito tedesco»: gli autori comprendevano la triade ebrea di Karl Marx, Sigmund Freud e Albert Einstein, ma spaziavano democraticamente anche fra ariani e stranieri, da Thomas Mann a Marcel Proust. Alla cerimonia sulla piazza dell´Opera di Berlino, il ministro della Propaganda Joseph Goebbels dichiarò soddisfatto: «L´anima del popolo germanico può di nuovo tornare ad esprimersi. Questi roghi non soltanto illuminano la fine di una vecchia era, ma accendono la nuova». Bertolt Brecht, invece, commemorò l´evento nella poesia Il rogo dei libri: «Quando il regime ordinò che fossero arsi in pubblico i libri di contenuto malefico, e per ogni dove i buoi furono costretti a trascinare ai roghi carri di libri, un poeta (uno di quelli al bando, uno dei migliori) scoprì sgomento, studiando l´elenco degli inceneriti, che i suoi libri erano stati dimenticati. Corse al suo scrittoio, alato d´ira, e scrisse ai potenti una lettera: "Bruciatemi", vergò di getto, "bruciatemi! Non fatemi questo torto! Non lasciatemi fuori! Non ho forse sempre testimoniato la verità, nei miei libri? E ora voi mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando: bruciatemi!"».
Ma il mondo non imparò la lezione, e anche nel dopoguerra innumerevoli piromani, letterali o metaforici, si sono scatenati contro i libri e le altre opere dell´ingegno: dal tentativo di cancellare sistematicamente il pensiero «revisionista» messo in opera dalla Rivoluzione culturale cinese negli anni ´60, alla sentenza della Cassazione italiana che il 29 gennaio 1976 ordinò che fossero bruciate tutte le copie del film L´ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, alla fatwa dichiarata dall´ayatollah Khomeini il 14 febbraio 1989 contro i Versi satanici di Salman Rushdie, alle cannonate dei Talebani che nel marzo 2001 hanno distrutto le due statue del Buddha di Bamiyan.
L´ultimo rogo di libri è, per ora, quello che il 14 aprile 2003 ha azzerato a Baghdad la Biblioteca Coranica, la Biblioteca Nazionale e l´Archivio Nazionale, sotto l´occhio connivente dell´esercito statunitense invasore, che aveva già permesso il loro saccheggio per un´intera settimana. La città ha così rivissuto i giorni bui del sacco dei Mongoli di 750 anni prima, ma paradossalmente questa coazione a ripetere della storia conferma il giudizio espresso da Borges in Nathaniel Hawthorne, nelle già citate Altre inquisizioni: «Il proposito di abolire il passato fu già formulato nel passato e, paradossalmente, è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile: prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato».