mercoledì 22 aprile 2009

La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica

il Riformista 22.4.09
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
di Biagio Di Giovanni

L'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica

Che cos'è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell'Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall'umanesimo in poi ha contribuito a fare l'Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica. Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l'Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l'aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali. La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell'Italia nazione secondo l'idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l'unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all'argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte». Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi. Gli straordinari frammenti sulla religione di fra' Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra' Tommaso Campanella, dal carcere dell'inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell'autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana. Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall'interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.

martedì 21 aprile 2009

Scompare Franco Volpi raffinato maestro di filosofia

Terra 16.4.09
Scompare Franco Volpi raffinato maestro di filosofia
di Livia Profeti

Il filosofo italiano Franco Volpi si è spento ieri all’ospedale di Vicenza, dove era ricoverato da martedì dopo essere stato travolto da un’auto mentre era in sella alla sua amata bicicletta. La Procura ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di omicidio colposo nei confronti dell’automobilista che lo ha investito.
Nato a Vicenza nel 1952, ordinario di storia della filosofia all'università di Padova, con la sua prematura scomparsa l’Italia perde uno dei suoi intellettuali più stimati, tra i maggiori studiosi della filosofia tedesca e di quella di Martin Heidegger in particolare, al cui archivio privato, gelosamente custodito dal figlio Hermann, era tra i pochi a poter accedere in qualità di referente per l’Italia. Apprezzato a livello internazionale, era stato Visiting professor nelle università di Quèbec in Canada e di Poitiers e Nizza in Francia, esordendo nel 1976 con una saggio sulla formazione filosofica giovanile di Heidegger, del quale sarebbe poi divenuto anche il principale traduttore italiano. Da allora le sue pubblicazioni non si contano. Tra le più diffuse, per Laterza, un volume della Storia della Filosofia nel 1991 e nel 1997 Guida a Heidegger, strumento imprescindibile per chi vuole accostarsi al pensiero e all’influsso del filosofo tedesco. Per Volpi Heidegger era stato il più grande filosofo dello scorso secolo nonostante si fosse compromesso con il nazismo. Compromissione che lo studioso giustificò sempre sostenendo che le scelte politiche atroci del pensatore tedesco non diminuissero la grandezza della sua filosofia. Tra i più importanti curatori di Adelphi, per questa casa editrice ha tradotto nel 2007 Contributi alla filosofia, l’opera intrisa un’aurea mistica ed esoterica che Heidegger scrisse tra il 1936 ed il ’38, sull’orlo di una drammatica crisi personale. Una traduzione difficilissima, che forse solo Volpi poteva affrontare, portando a termine un lavoro impeccabile denso di note e apparati.
Collaboratore del quotidiano la Repubblica, il tono calibrato dei suoi articoli non lasciava trapelare gli aspetti personali che invece emergevano nei tanti dibattiti accademici e divulgativi ai quali partecipava: l’aspetto timidamente giovanile, la simpatica intonazione della voce, l’inquieta gestualità con la quale esponeva vivacemente le sue tesi, la capacità di argomentare velocemente il pensiero. Qualità che, unite al rigore filosofico e filologico ed alle ampissime conoscenze, non potevano non suscitare ammirazione anche in chi, come chi scrive, a volte non ne condivideva le posizioni. Per triste ironia della sorte, è proprio l’ultimo dei suoi articoli uscito venerdì scorso a rappresentarlo più fedelmente degli altri, forse perché questa volta Volpi, commentando criticamente l’attacco frontale sferrato a Nietzsche da Benedetto XVI nell’omelia del giorno precedente, non affrontava il gelido filosofo dell’“essere per la morte” ma quello della “morte di Dio”: Nietzsche «il distruttore della ragione, il maestro dell´irrazionale».
In questo articolo era più facile, per chi aveva avuto l’occasione di conoscere Volpi di persona, sovrapporre l’immagine dell’uomo alle parole lette: un maggiore calore, una sottile ribellione alla “scomunica” papale in difesa di chi, come lui, aveva dedicato la vita a cose tanto impalpabili e gigantesche quanto oggi berlusconiamente bistrattate, come la cultura e la filosofia. O forse perché, come ha scritto Antonio Gnoli che con lui ha collaborato in molte occasioni, lo accumunava a Nietzsche l’insofferenza per certi ambienti universitari angusti e immobili. Un’affinità celata che, pensiamo oggi con dispiacere, forse gli sarebbe gli stato felice approfondire.

giovedì 16 aprile 2009

«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»

l’Unità 16.4.09
Intervista a Michel Onfray
«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»
di Silvio Bernelli

Il filosofo francese presenta in Italia il suo nuovo libro, «La potenza di esistere», sintesi di tutti i suoi interessi: etica, bioetica ed estetica

«La potenza di esistere. Manifesto edonista» di Michel Onfray è edito dalla casa editrice Ponte alle Grazie, collana «Saggi» (pagine 203, euro 15,00)

Francese, cinquantenne, Michel Onfray è un personaggio a tutto tondo, capace di accendere entusiasmi e attirarsi le critiche più feroci. Autore di una trentina di libri, tra i quali il celebre Trattato di ateologia pubblicato in Italia da Fazi, interviene spesso nel dibattito sulla laicità dello stato, la libertà dei comportamenti sessuali e la politica della sinistra europea. Incontriamo Michel Onfray in un albergo del centro di Torino, poco prima della presentazione al Circolo dei Lettori del suo La potenza di esistere, appena pubblicato in Italia da Ponte alla Grazie. Capelli bianchi scompigliati, camicia di lino chiara, pantaloni neri, modi di fare più che informali: Onfray assomiglia assai più a un giovane ribelle che a un pensatore serioso.
In molte sue opere, «Teoria del corpo amoroso» ad esempio, (edito in Italia da Fazi, n.d.a.), lei si occupa del corpo. Da dove nasce questo interesse?
«Con la fine del marxismo e il declino della religione cristiana, da quando i grandi temi stanno scomparendo insomma, l’argomento più allettante rimasto è il corpo. Da qui nascono gli interrogativi che oggi sono sulla bocca di tutti. Che cos’è il corpo? Cosa si può fare con il proprio corpo? Ho scritto molto su temi bioetici, quali l’eutanasia, ma anche la procreazione assistita, il problema dei trapianti e dell’eugenetica. Sono sempre stato favorevole a un uomo capace di riappropriarsi del proprio corpo, un uomo post-cristiano».
Pare che le istituzioni, ma anche la società nel suo insieme, non siano ancora state capaci di produrre un’idea di famiglia che vada d’accordo con la nuova idea di libertà del corpo. Come risolvere questa contraddizione?
«In questo caso, sono d’accordo con quanto dice Benedetto XVI...»
Se lo dice lei, che è una specie di campione dell’ateismo, questa è una notizia...
«Volevo darle un titolo per il giornale (Onfray si lascia andare a una risata, n.d.a.)… A parte gli scherzi, sono contrario a una sessualità nichilista, al sesso per il sesso. Bisogna dare sempre un senso al corpo e a ciò che ne facciamo. Ogni persona deve essere libera di stipulare un contratto con il proprio partner, dove in cambio dell’esclusività sessuale si riceve la possibilità di costruire qualcosa».
È d’accordo con Benedetto XVI anche per quanto riguarda la dichiarazione sui profilattici che non servirebbero a combattere l’Aids?
«È un’affermazione che non mi sorprende, in linea con la dottrina cattolica. Mi sembra comunque che rispetto a Giovanni Paolo II, molto sensibile alle dinamiche dei mass media, Benedetto XVI lo sia molto meno. Detto ciò, è un uomo molto colto, un filosofo che ha sempre il merito di sapere cosa dice».
Lei è un pensatore individualista e libertario, fa parte di una corrente di pensiero che il comunismo europeo, in particolare quello italiano, e credo anche quello francese, ha sempre detestato. Pensa che l’attuale incapacità della sinistra di comprendere la società nasca proprio da questa frattura?
«Il marxismo è passato come un rullo compressore sulla nostra società, e non a caso oggi la sinistra deve essere post-marxista. Dopo le terribili tragedie del XX secolo, è necessario ripensare la resistenza al capitalismo non in termini di rivoluzione. Bisogna imparare a maneggiare la propria libertà e cercare di costruire una società anti-dogmatica, federata, basata su tanti micro-sistemi collegati in un network».
Una sinistra vista così non sembra un partito. Quale forma potrebbe avere?
«La sinistra deve essere anche un partito. Se ci fosse una sinistra unita, forte, anti-liberista potrebbe costituire una forza capace di raggiungere una massa critica tale da condizionare la società».
Con quali parole presenta ai nostri lettori il suo libro «La potenza di esistere»?
«Ogni libro appartiene alle persone che lo leggono, ciascuno ci trova il filo che gli è più congeniale. La potenza di esistere comincia con un parte autobiografica in cui racconto i quattro anni vissuti da bambino in un orfanotrofio salesiano. Non è stata comunque questa esperienza a fare di me un ateo: è che non ho mai avuto il senso della trascendenza. Da piccolo, quando mi sentivo raccontare la storia di Gesù, l’ascoltavo come fosse quella di Zorro, come un’avventura. Per il resto, La potenza di esistere è un po’ la sintesi di tutti i miei interessi: l’etica, la bio-etica, l’estetica».
Il sottotitolo di «La potenza di esistere» è «Manifesto edonista». Questo aggettivo viene per lo più percepito con un significato molto vicino a egoista. È un segno di come certe parole abbiano ormai perso il loro significato originario, siano state consumate dal tempo?
«Questo della perdita di senso delle parole è un vero problema. È un fenomeno di consunzione molto forte anche nel campo della filosofia. Pensiamo al significato del termine “materialista”, che oggi non ha più niente a che fare con Democrito, che non parlava affatto di attaccamento al denaro; oppure al termine “stoicismo”, che non significa accettare con rassegnazione di prendersi un pugno in faccia, come sembra voglia dire oggi. Questa svalutazione dei termini porta, per forza di cose, a un mondo triviale, dominato da parole senza valore, che faremmo bene a combattere».

domenica 12 aprile 2009

L'editoria malgrado la crisi

il manifesto 11.4.09
L'editoria malgrado la crisi
di Francesca Borrelli

IL MERCATO DEL LIBRO PASSA PER QUESTE PORTE Alcuni tra i responsabili della editoria maggiore parlano degli effetti razionalizzanti della attuale congiuntura economica. La messa in scena delle aste selvagge, con cifre a sei zeri e tempi di scelta dei titoli ridotti a poche ore, è finita. All'altro capo della filiera, però, si accentua la tendenza delle librerie a fare ruotare l'esposizione dei libri a una velocità proibitiva, danneggiando sia i piccoli editori che i lettori
Nel mondo dell'Ancien Régime successe all'editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all'ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall'antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all'ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l'equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell'editoria sembrano essere di tutt'altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l'industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri - Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l'accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell'editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell'editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all'incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell'anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l'amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l'invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti - non senza ragioni - che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt'altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all'incirca 900 novità all'anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all'incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l'acquisto dei diritti, che si fa tutto l'anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l'impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all'anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia - per esempio - da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall'osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell'editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l'11 settembre si sia sviluppato un po' di più l'interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d'altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell'entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l'anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l'anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque - dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri - tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest'anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell'anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l'orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest'anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti - per esempio - continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l'anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l'immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l'attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell'editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po' scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell'anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po' patetico la finanza d'assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati - ogni volta - come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all'euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l'anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest'anno abbiamo solo un po' modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d'accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C'è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell'editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull'intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l'attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»

L'unico legame con la tradizione sta nel sangue. Il ritorno dei vampiri

il manifesto 11.4.09
L'unico legame con la tradizione sta nel sangue. Il ritorno dei vampiri
di Isabella Mattazzi

Oggi come mai succhiare sangue sembra nutrire uno degli incubi letterari più diffusi: tra gli esempi recenti, Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, pubblicato da Fazi e Un luogo incerto di Fred Vargas uscito da Einaudi
L'editoria italiana, oggi sembra essere letteralmente invasa dai vampiri. Adolescenti immortali e traslucidi, divoratori di fanciulle dal passo silenzioso, contadini serbi sepolti da trecento anni sotto un cumulo di pietre perché non possano più tornare, sono i nuovi abitatori degli incubi letterari della nostra contemporaneità. Chiunque si sia trovato ultimamente a scorrere qualche titolo in libreria, non avrà potuto fare a meno di notare la presenza di un corpus così imponente e articolato da fare quasi genere a sé. E non soltanto con romanzi come I fratelli del vampiro, Il sangue nero, La condanna del vampiro o Vampirius, prodotti sparsi di quel sottobosco culturale che da sempre ha animato le sale d'aspetto dei treni e i viaggi in metropolitana nelle grandi città, ma anche con testi di un certo spessore come Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex (traduzione di Maurizio Ferrara, postfazione di Daria Galateria, Fazi, 2009, pp. 91, euro 14), o Un luogo incerto di Fred Vargas appena pubblicato da Einaudi con la bella traduzione di Margherita Botto (pp. 392, euro 18,50).
Se Newton Compton o Fazi devolvono già da qualche anno una parte del proprio catalogo al vampirismo, la leggenda di Twilight, nata dalla penna miliardaria di Stephenie Meyer, negli ultimi mesi ha letteralmente polverizzato al cinema, per incassi e numero di liceali emozionatissimi in sala, la saga forse adesso un po' stanca e imbolsita di Harry Potter e dei suoi sequel. Oggi come non mai, succhiare sangue sembra essere una delle pratiche più amate tra tutti gli incubi e le ossessioni letterarie con cui possiamo scegliere di rovinarci l'esistenza.
In comune un dato simbolico
Ma chi sono questi nuovi vampiri? Che cosa hanno fatto per imporsi in pochi anni come vero e proprio mainstream della narrativa fantastica contemporanea? Una cosa è certa, nulla di tutto quello che facevano i loro predecessori vittoriani e decadenti. Niente come la sessualità ambigua di Carmilla (sogno proibito di intere generazioni tra Otto e Novecento) sembra essere più lontano dal codice sentimentale dei pallidi sedicenni di Stephenie Meyer. Nessuna traccia di castelli in rovina tra le case del povero villaggio di Ropraz nella Svizzera francese. Nessun dandismo alla Polidori (alla Byron) per i masticatori sepolti della Vargas. Nessuna somiglianza, dunque. Nessuna parentela con una tradizione tematica tra le più ingombranti che la letteratura moderna abbia mai conosciuto. Completamente abbandonato ogni orpello neogotico, senza più sudari di seta, bare foderate, candelabri e pipistrelli, i vampiri di oggi, i «nostri» vampiri, sembrano mantenere come unico legame con il proprio passato un solo dato simbolico, il sangue. Come se la spoliazione di ogni particolare superfluo avesse reso ancora più evidente il nucleo centrale, quel grumo primordiale di bisogni e paure senza nome attorno al quale l'uomo costruisce le figure simboliche del proprio immaginario, il tema del sangue sembra essere infatti il solo tratto ancora irrinunciabile oggi per fare di un mostro un vampiro. Quell'unico elemento invariabile, rimasto praticamente intatto attraverso tre secoli letterari di creature senz'ombra e senza riflesso. Il nodo della questione insomma, probabilmente il più radicato, certamente il più antico della storia del vampirismo.
Ben più dei supereroi dalla pelle perfetta di Twilight, o dell'antico scandalo dello stupratore di cadaveri del 1903 di cui parla Chessex, le indagini del commissario Adamsberg nell'ultimo libro di Fred Vargas ci portano direttamente al cuore del problema. Resti organici sparpagliati su un pavimento come semi in un campo. Un uomo massacrato a colpi di martello e di sega elettrica senza che apparentemente nessun motivo giustifichi la furia gelida di un lavoro di ore e ore su un essere umano ormai irriconoscibile. Un commissario dall'aria distratta, incaricato di seguire la vicenda senza che l'orrore di quei «brandelli di carne abbandonati come scarti sul banco di una macelleria» riesca a paralizzarne i pensieri e l'intelligenza analitica. Ha inizio così, con un cadavere senza più piedi e senza più denti, con un morto simbolicamente non più in grado di camminare o di mangiare, il lungo viaggio di Un luogo incerto tra le radici storiche, direttamente alle fonti del mito del vampiro. Che cosa può avere spinto infatti un assassino a intestardirsi in quel modo sulla sua vittima se non la paura disperata di un suo ritorno in vita? Come spiegare altrimenti quell'accanimento sulle articolazioni delle caviglie, sulle dita dei piedi, sui denti, estratti uno a uno e ridotti in schegge con la precisione paziente di un intagliatore di diamanti?
Il giornalista Paul Vaudel è stato ucciso come si uccideva un tempo un vampiro. Il suo fegato e il suo cuore distrutti come secoli prima si bruciavano i luoghi del corpo in cui risiedevano l'anima e la vita. I tendini delle sue gambe spappolati come, nelle campagne, era uso legare le gambe o tagliare la testa e incastrarla tra i piedi perché il morto, una volta sveglio, non potesse più riconoscere la strada di casa.
Il vampiro come fenomeno «moderno» nasce a fine Seicento ai confini orientali dell'impero austro-ungarico. La Valacchia, la Moravia, la Serbia sono i nuclei, poverissimi e contadini, della nascita e dello sviluppo del vampirismo. Nulla a che vedere con le atmosfere aristocratiche a cui l'Ottocento decadente ci ha abituati. Le prime epidemie storicamente documentate di questo fenomeno appartengono piuttosto al dominio angusto della lotta per la sopravvivenza, alla paura ancestrale che i morti possano tornare per sottrarre ai vivi (come i lupi, gli orsi, le volpi) la loro parte di cibo. Più che raffinati seduttori o magnetici geni del male, i vampiri sei-settecenteschi sono infatti innanzitutto dei formidabili masticatori. La loro passione smisurata per il sangue, per la carne e le viscere di uomini e animali affonda direttamente le proprie radici nelle ansie di conservazione e gestione delle risorse primarie delle società contadine nell'Est europeo.
In un contesto in cui il cibo è scarso, la più grande angoscia immaginabile è quella di doverlo dividere ulteriormente. E il morto-in-vita, figura liminare, sovvertitore per sua stessa natura di ogni ordine costituito, sembra essere la rappresentazione immediata e sconvolgente di un'inaspettata rottura della catena alimentare; chi è morto infatti non può più tornare indietro, ma soprattutto chi è morto non può e non deve dividere il cibo con i vivi.
Qualche illustre precedente
Sono numerosi i trattati dell'epoca che raccontano come di notte, nei casolari accanto ai cimiteri, uomini e donne venissero svegliati da rumori sordi, grugniti, schiocchi secchi e insistenti. Una volta individuate e aperte le tombe, cadaveri dal colorito vermiglio, per nulla toccati e offesi dalle mani impietose della decomposizione, si offrivano immobili allo sguardo degli spettatori con gli occhi sgranati e i brandelli del sudario ancora stretti tra le gengive contratte, a immagine perturbante e bestiale di un desiderio incontenibile di fame e distruzione. Nelle Lettres juives del 1738, Jean-Baptiste Boyer, marchese d'Argens scrive come in Serbia, nel villaggio di Kiseljevo, un morto seppellito da tre giorni avesse bussato alla porta del figlio chiedendo di potersi mettere a tavola insieme a lui e, non avendo ricevuto risposta, ne avesse causato la morte improvvisa. Augustin Dom Calmet racconta nel 1751 di un contadino tornato indietro dal mondo dei morti per chiedere alla moglie le scarpe, senza le quali probabilmente non sarebbe potuto comodamente andare alla ricerca delle sue vittime.
Charles Ferdinand de Schertz, vescovo di Olmutz e di Osnabruch riporta come nelle notti di luna intorno al suo villaggio si sentissero le mucche gemere per il terrore e il dolore di morsi ben più pericolosi di quelli di un lupo. Nel giro di una manciata di anni la paura dei vampiri (la paura della loro fame) diventa così radicata nella popolazione da costringere più volte Maria Teresa d'Austria a inviare il proprio medico personale per assistere a riesumazioni e conseguenti decapitazioni di cadaveri. Corpi di donne, uomini, vecchi, fanciulle vengono trovati, per tutto il Settecento, sdraiati nelle loro bare «come appena addormentati», rossi di gote e rigonfi di sangue fresco, un sangue talmente giovane e forte da uscire a fiotti, non appena incisa la pelle, fino a inondare letteralmente il terreno, riversandosi nelle tombe circostanti. La paura dei contadini di non riuscire a difendere i cavalli, le galline, i propri stessi bambini e le donne dall'appetito terribile dei parenti, da coloro che fino a un giorno prima erano stati amici, padri, amanti sembra creare negli anni una serie infinita di rituali di protezione e di contenimento; impastare il sangue sgorgato dal cadavere di un revenant con della farina e farne del pane da mangiare tutti i giorni, seppellire i propri morti con un'ostia o un sasso in bocca, mangiare la terra dove riposa il vampiro, e infine, come extrema ratio devastare il suo corpo, tagliarne le mani perché non possa più afferrare, legarne i piedi perché non possa più fare ritorno, strapparne i denti perché non possa più divorare.
Il monito di un antico legame
In seguito, di tutte queste morti povere, di tutti questi cadaveri eternamente affamati, divoratori di maiali e di familiari si perderà lentamente la memoria. Al tema antico della sopravvivenza, alla paura niente affatto metaforica del cannibalismo, tra Otto e Novecento, si aggiungeranno altri terrori, altri fantasmi nati da ben altri problemi che la difficoltà di sostentamento di qualche contadino ungherese. Il sangue, da elemento «reale» (sangue degli animali nelle stalle, sangue degli uomini nelle case) si trasformerà sempre più in un veicolo simbolico, mescolandosi alla sessualità, al desiderio, al timore del tutto borghese della perdita di identità.
Che l'immagine del vampiro e il suo continuo bisogno di sangue possano in qualche modo essere riflesso delle condizioni socio-economiche dell'epoca che ne alimenta la leggenda, non è cosa passata del tutto inosservata. Franco Moretti in un saggio degli anni ottanta sul Dracula di Bram Stoker ne aveva intuito il legame, mettendo in diretto rapporto la produzione letteraria orrorifica di matrice vittoriana e il capitalismo. Flusso di sangue e flusso di denaro. Dracula, vampiro solitario e dispotico, e capitale monopolistico incline a distruggere ogni forma di indipendenza economica. Ma perché le morti contadine di Kiseljevo tornassero, perché il vampirismo riacquistasse il suo significato ancestrale di lotta senza quartiere per la sopravvivenza, occorrevano i nostri giorni e l'assassinio efferato del giornalista Pierre Vaudel. Vampiro figlio di vampiri, discendente di quel Peter Blagojevic, seppellito in un «luogo incerto» della Serbia dell'Est, Pierre Vaudel sembra infatti andare direttamente al cuore di quell'ossessione senza nome, di quel contenuto inconscio impossibile a dirsi se non appunto attraverso il filtro di un modello formale in grado di esprimerne e insieme di occultarne il portato perturbante: il terrore che il cibo finisca. Creatura postmoderna, devastatore di corpi e a sua volta corpo devastato, in un'epoca in cui alla povertà contadina si sono sovrapposte altre povertà, Pierre Vaudel è il monito di un antico legame tra paura e immagini.
Le sue ossa fatte a pezzi stanno lì a dirci che le modalità di rappresentazione della fame sono sempre le stesse. I suoi denti frantumati e dispersi raccontano che la macchina immaginativa dell'uomo funziona sempre con gli stessi ingranaggi. «Adamsberg risalì lentamente il boulevard, immaginando i germogli di Kiseljevo che marcivano intorno alla tomba.
Dove ricresceranno, Peter ?».

sabato 11 aprile 2009

L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere»,

Corriere della Sera 9.4.09
L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere», e corregge Sartre
Addio matrimonio cristiano Liberi, ma con discrezione
Il filosofo Michel Onfray: mai spiare gli sms
di Stefano Montefiori

La potenza di esistere è un libro ambi­zioso: «Nulla da temere dalla morte. L’es­senziale consiste nel non morire già in vi­ta».

CAEN — Nei camerini del teatro di Ca­en, poco prima della lezione gratuita su Nietzsche seguita da oltre mille persone, il filosofo Michel Onfray offre qualche ri­petizione sul corretto uso del telefonino: «Mai spiare i messaggi ricevuti dalla pro­pria compagna o controllare il registro delle chiamate: chi cerca trova, e non è detto sia un bene». La buona educazione e la discrezione sono virtù fondamentali per chi voglia praticare il manifesto edoni­sta stilato da Onfray in La potenza di esi­stere (Ponte alle Grazie, traduzione di Gregorio De Paola, pagine 203, e 15), quintes­senza delle sue 50 opere da oggi nelle li­brerie. Un saggio che alterna paragrafi in­titolati «hapax esistenziale» o «episteme ebraico-cristiana» a frasi più concreta­mente dedicate agli amori terreni e alle trappole della gelosia.
Questa apparente miscela di Lucrezio, Spinoza e Cosmopolitan è valsa a Onfray il sussiego quando non l’odio di molta cri­tica, e un successo popolare straordinario in tutto il mondo. Anche in Italia il Tratta­to di ateologia ha goduto di un seguito non certo di nicchia, sull’onda di un riflus­so anticlericale che trova il suo altro eroe internazionale nell’inglese Richard Dawkins («non mi piace, troppo rozzo»). «Nel Trattato di ateologia ho parlato di Dio come finzione purtroppo tuttora ne­cessaria per molti uomini — spiega On­fray — e ho contestato tutte le religioni.
La potenza di esistere è invece la pars con­struens, la mia proposta per vivere in mo­do consapevole, etico, gioioso».
Onfray teorizza la necessità di una filo­sofia pragmatica che dimostri il suo valo­re nel suo essere applicabile nella vita di tutti i giorni, in coda dal fornaio o viag­giando in treno. Per questo, e per le sue folgoranti apparizioni televisive (dove con rapida parlantina ha maltrattato av­versari di peso, da Jacques Attali a Philip­pe Sollers), i detrattori lo hanno definito «filosofo da supermercato». Disistima del tutto ricambiata. Come il divulgatore britannico Julian Baggini, Onfray detesta l’elitarismo e la filosofia accademica: «Io sono fuori dal mondo, continuo a vivere qui in Normandia, con i miei allievi del­l’Università popolare di Caen da me fonda­ta; non vengo mai invitato nei salotti pari­gini e ne sono felice. Detesto i filosofi di professione, quelli che si riempiono la bocca di metafisica dal lunedì al venerdì e dalle 9 alle 5».
In realtà, a giudicare da almeno un pa­io di copertine (Lire e Nouvel Observateur), dalla presenza su radio e tv e dalla celebre lunga intervista a Nicolas Sarkozy pochi mesi prima dell’elezione all’Eliseo, Michel Onfray è più una star che un outsi­der. E questa non è l’unica contraddizio­ne del personaggio. Nella copertina della Potenza di esistere appare vestito di nero, aria grave. Onfray sorride con parsimo­nia. Non che debba per forza mostrarsi con belle donne bevendo champagne, ma il suo sarebbe pur sempre un «manifesto edonista».
Però è dal dolore che bisogna partire, purtroppo. La prefazione è il racconto dello spaventoso periodo trascorso in un orfanotrofio dei salesiani, dai 10 ai 14 anni, abbandonato dalla madre stanca di picchiarlo dopo essere stata a sua volta maltrattata dai genitori. Sono 30 pagine tragi­che e commoventi, dominate dal sadismo dei preti, e concluse da parole di perdono verso la madre: «Si diventa davvero mag­giorenni rivolgendo, a coloro che ci han­no aizzato contro i cani senza sapere quel che facevano, il gesto di pace necessario a una vita che superi il risentimento. La ma­gnanimità è una virtù da adulti». La dedi­ca del libro è «A mia madre ritrovata».
Un uomo capace di superare una simi­le adolescenza e un infarto grave patito a 28 anni ha forse qualche dote di resilien­za da offrire ai suoi simili. E se non ci si lascia contagiare dal virus della supponen­za verso qualcuno giudicato troppo letto per essere un vero filosofo, il resto del li­bro è un interessante percorso di rifiuto della tradizione filosofica idealista, del mi­to giudaico-cristiano della nobiltà della sofferenza, verso un «erotismo solare» e una «bioetica prometeica». «Bisogna pra­ticare una sorta di aritmetica del piacere, abituarsi a calcolarlo per sé e per gli altri — spiega Onfray —. Per l’uomo della stra­da, l’utilitarismo indica il comportamen­to di chi è interessato, incapace di genero­sità e gratuità. Siamo agli antipodi del pensiero di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill, per i quali il principio di utili­tà significa “maggiore felicità per il mag­gior numero”».
In tempi di ridefinizione dei rapporti di coppia, e di prevalenza del divorzio, On­fray auspica la leggerezza, la consapevo­­lezza, il contratto tra due persone che ridi­scutono continuamente i termini del loro accordo — per una sera, per una vacanza, per la vita, per il desiderio, l’amore o il ses­so. Senza inganni. «Il matrimonio traman­dato da duemila anni di cristianesimo, fat­to di promesse vane, di Principi Azzurri e donne ideali, è una macchina produttrice di ipocrisia e infelicità».
Un nuovo cantore dell’Amore liquido post-moderno, effimero e consumista, già definito e criticato da Zygmunt Bau­man? «No, condivido la critica al consumi­smo relazionale, al nichilismo del sesso — risponde Onfray —. Penso che il sesso triste sia un prodotto del cristianesimo, come lo sono del resto Sade e Bataille, la faccia libertina di una medaglia che esibi­sce sull’altro lato la figura del santo. I sen­timenti duraturi sono una conquista fati­cosa, da raggiungere in due, con una spe­cie di dieta erotica da seguire in coppia, senza necessariamente mortificarsi, in piena libertà». Coerentemente con le pre­messe di filosofia pragmatica e vissuta in prima persona, Onfray spiega di vivere da otto anni con una compagna, senza vinco­li di fedeltà. E qui rispunta l’etica del tele­fonino. «La lezione di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir è che l’idea di raccon­tarsi tutto nel dettaglio, di essere onesti fino alla crudeltà, non funziona. Sartre e Beauvoir tenevano a informarsi degli or­gasmi avuti con altri partner, ma poi ne soffrivano immensamente. Dobbiamo ri­cordarci che siamo pur sempre dei mam­miferi, che siamo preda della gelosia».

L’araba felice

l’Unità 9.4.09
L’araba felice
Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, le prime magistrate. Le donne conquistano terreno anche in alcuni paesi islamici. In Algeria, dove oggi si va alle urne, la politica passa attraverso la proposta di quote rosa e il diritto di trasmettere la cittadinanza ai figli
di Rachele Gonnelli

Il primo centro in Siria per donne vittime di violenza coniugale. Le prime due donne giudici in Cisgiordania per di più specializzate in sharja, cioè in legislazione islamica. Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, uno dei paesi più retrivi sul piano dei diritti delle donne, oltretutto scritto da una assistente familiare donna. E la prima vigilessa, con il grado di colonnello istruttore, sempre negli Emirati Arabi, con il casco integrale al posto del velo. Sarà poco ma le donne conquistano terreno anche nei paesi dove spesso la misoginia è legge, dove non si può guidare o tramandare un bracciale di madre in figlia senza il consenso del marito e a divorziare, più che da noi, si rischia la vita.
Piccoli sorsi di libertà che sono tutti delle ultime settimane e mesi. Non riescono a diventare una marea montante, né ad avere una vasta eco neanche nei paesi dove si verificano. Certo non colmano il lago della condizione femminile in paesi come l’Afghanistan, dove è in discussione una legge che legittima addirittura lo stupro dei mariti. Eppure ci sono e qualcosa vorranno pur dire. Forse che comunque il cammino delle donne per quanto a piccoli passi non può essere arrestato.
Dopo il Marocco, dove nel 2006 è stato varato un nuovo codice di famiglia che stabilisce la parità giuridica tra i due sessi, il paese dove si registrano più segnali in direzione di una maggiore parità tra i generi e un riconoscimento del ruolo pubblico delle donne è l’Algeria. Un paese in bilico che va alle urne il 9 aprile, dove il voto delle donne sarà probabilmente decisivo. Il settantunenne Adbelaziz Bouteflika spera di rimanere al potere puntando su un mix di modernità e tradizione. Ha modificato la Costituzione per ottenere il terzo mandato. Ma ora teme il combinato disposto di un aumento dell’astensionismo e della ripresa della violenza integralista dei gruppi salafiti. Attentati non sono mancati negli ultimi tempi, come quello a fine febbraio che ha sfiorato un cantiere della ditta Astaldi.
La delusione degli algerini verso il progresso da Bouteflika, molto visibile sui blog e su Internet più che sulla stampa locale, potrebbe covare come paglia secca la miccia del fondamentalismo. Bouteflika lo sa. E sta cercando di usare le donne come acqua per spegnere le fiamme. Facendo concessioni ad un movimento che ha avuto un ruolo di primo piano sia durante la guerra di liberazione sia dalla fine della guerra civile degli anni Novanta con la leader Khalida Messaudi, dirigente del Movimento per la Repubblica, di ispirazione laica e democratica.
Un mese fa un decreto presidenziale ha riconosciuto il diritto alle donne algerine a trasmettere la cittadinanza ai loro figli, un diritto mai riconosciuto prima in un paese musulmano. Bouteflika ha poi annunciato la volontà di introdurre «quote rosa» per i ruoli più alti dell’amministrazione pubblica. Provvedimenti «paternalistici e umilianti» a sentire Louisa Hanoune, segretario generale del Partito dei Lavoratori algerino, una donna, sua principale sfidante alla poltrona presidenziale. Lei, che lo ha già fronteggiato nel 2004 e ci ha provato anche nel ’99, ama parlare di crisi economica più che di donne. Ha condotto una campagna elettorale con toni molto accesi, accusando i ministri di usare il denaro pubblico per fare propaganda, di intimidire gli elettori, ha denunciato il restringimento di libertà per gli oppositori. Una «pasionaria». Considera normale che oggi le donne algerine al 63 percento abbiano un diploma superiore e che il 58 percento degli studenti universitari porti la gonna, meno che solo il 17,5 percento del monte salari sia riscosso da lavoratrici. Mancano i servizi, dice, per consentire alle donne di lavorare.
La scolarizzazione femminile si diffonde ovunque ma non necessariamente è accompagnata da diritti civili e politici. In Iran il 70 percento della popolazione universitaria è di sesso femminile. Prima della rivoluzione di Khomeini, non volendo o non potendo per obblighi familiari frequentare le scuole miste dello scià, due terzi delle donne erano illetterate. Paradossalmente il velo e la separatezza le ha aiutate a conquistare uno spazio pubblico, anche se limitato e sotto tutela. Ora le donne iraniane alfabetizzate sono l’80,3 percento, con una crescita del 126 percento nell’ultimo decennio come ha ricordato Tahere Nazari, teologa iraniana inviata dal governo di Teheran ad un incontro in Vaticano sulla famiglia che si è tenuto a Roma a fine febbraio.
Nell’ultimo decennio anche l’occupazione femminile in Iran è crescita del 12 percento e persino il governo integralista di Ahmedinejad riconosce che «a causa dell’economia moderna» la donna non può più rivestire unicamente il suo ruolo tradizionale di moglie e madre. Non essendo stati predisposti dei servizi sociali in grado di facilitare il doppio ruolo, anche qui però ogni lavoratrice madre ha semplicemente diritto a una riduzione di due ore dall’orario di lavoro rispetto al mansionario. Con conseguente riduzione dello stipendio.
In Iran i gioco politico non sta aiutando le donne finora. In previsione delle elezioni presidenziali del prossimo 12 giugno, la repressione degli integralisti al potere si è riversata prima di tutto verso le femministe: una brutale perquisizione negli uffici di Shirin Ebadi, prima donna giudice in Iran e Nobel per la Pace 2003, sostenitrice del riformatore Khatami e poi l’imprigionamento di alcune attiviste della campagna «Mille firme» per la parità giuridica e la fine delle discriminazioni di genere. Eppure secondo Katayoon Shahabi, produttrice di film e serial per la tv di Stato, per ottenere la fine della discriminazione non ci sarà bisogno di nessuna rivoluzione, neanche di velluto. «Semplicemente - ha detto in una recente intervista a un quotidiano britannico - le cose si stanno muovendo come un fiume e i fiumi non si fermano». Una goccia tira l’altra.