martedì 13 ottobre 2009

Sbattezziamoci, in un libro tutte le istruzioni per l'uso

Liberazione 6.10.09
Credere o no è un diritto di tutti. Lo spiegano in "Uscire dal gregge" Raffaele Carcano e Adele Orioli
Sbattezziamoci, in un libro tutte le istruzioni per l'uso
di Daniele Barbieri

«Carneade, chi era costui?» è una delle frasi più famose della letteratura italiana. Il convertito Manzoni non ci spiega come mai don Abbondio stia pensando a questo filosofo scettico messo al bando perché "turbava" i giovani. Accadde nel 155 ev, ovvero dell'era volgare. Adottare questa datazione invece che dC (dopo Cristo) rappresenta una scelta insolita, almeno nell'Italia dei papi e dei baciapile. E' la scelta di Raffaele Carcano e Adele Orioli che accennano a Carneade e ad altri perseguitati per motivi religiosi nei primi secoli dell'ev quasi all'inizio del libro che reca il neutro sotto-titolo Storie di conversioni, battesimi, apostasie e sbattezzi ma ostenta un ben più polemico e azzeccato titolo: Uscire dal gregge (Luca Sossella editore, pp. 320 pagine, euro 14,00).
L'introduzione si apre con una domanda interessante: «dove avete trovato questo libro?». Perché «la sorte dei libri che presentano punti di vista non religiosi» è bizzarra e catalogarli risulta scomodo anche per i bibliotecari. Non è certo un pamphlet religioso, piuttosto un appassionante saggio storico capace anche (o soprattutto) di una riflessione politica sull'oggi.
Il primo passaggio concettuale di Uscire dal gregge è spiegare come la religione di un popolo sia scelta dal re (da chi comanda insomma). Accade anche oggi. Ci sono piccole eccezioni ma spesso solo apparenti: per esempio negli Usa vi è chi muta religione (all'interno del cristianesimo) perché si sposta da uno Stato a maggioranza cattolica a uno protestante,
appunto adeguandosi al "re" di turno.
Chiarito che il diritto (per chi lo desidera) a credere non è in discussione ma che dovrebbe essere garantita a ognuno la libera scelta (di non entrare, di uscire, di cercarsi un altro gregge, di non averne alcuno) Carcano e Orioli raccontano - con precisione sempre unita a una piacevole scrittura - come iniziano e dove portano le imposizioni religiose. I primi libri finiti al rogo pare siano quelli di Anassagora del 432 aC (o meglio aev). Da perseguitati i cristiani diventano padroni e poi persecutori con Costantino che combina «l'intolleranza politica e quella religiosa». In base a una sola citazione (oltretutto quasi nascosta nei Vangeli) sul «dare a dio… e a Cesare» si costruisce un'alleanza di ferro: il primo a identificare la Chiesa con dio e Cesare tout court con lo Stato è Osio di Cordova, già consigliere di Costantino, nel 356.
Saltando avanti e indietro nel tempo Uscire dal gregge racconta come nascono il pedo-battesimo, il Limbo (oggi quasi negletto) e il Purgatorio, cosa c'è dietro ai nomi; ma anche i continui dietro-front della Chiesa di Roma. «La fede come tale è sempre identica» sostiene Ratzinger: nulla di più falso. Agostino per esempio muta nel profondo il cristianesimo. L'ascesa al trono di Teodosio (nel 379) imprime alla storia un'impressionante svolta verso la repressione religiosa o meglio di chiunque non sia allineato con il papato. Sempre più il battesimo è imposto ai neonati (prima non era così); si forzano le conversioni; si teorizza che l'uccisione di un non cristiano è un «malicidio», cioè un mezzo per estirpare il male, piuttosto che un omicidio. Inizia la persecuzione di bestemmiatori e omosessuali («mai colpiti da leggi punitive nel mondo classico») che alcuni - come il devoto imperatore Giustiniano - ritengono da mettere a morte. La caccia agli eretici (sotto cui è facile collocare ogni dissenso) prenderà poi la forma dell'Inquisizione: delazioni, torture, roghi, confische dei beni.
Al contrario di quanto detto (proprio in questo 2009 ev) con solennità da Ratzinger, non è il nichilismo-totalitarismo ad avere portato nel ‘900 a disumanizzare gli esseri umani: i roghi ma anche le tecniche orwelliane (dal riscrivere la storia alle confessioni pubbliche e allo spionaggio di massa) vengono proprio dall'Inquisizione. La pretesa partecipazione dei cattolici alla creazione di un'Europa libera e laica non è mai esistita: da un Pio VI che in una enciclica del 1791 scrive «quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi» a un Pio IX che definisce il suffragio universale «una piaga distruttrice dell'ordine sociale», a tanti altri talvolta Pii nei nomi (nei fatti mai pii) purtroppo c'è solo l'imbarazzo della scelta nel raccontare di una Chiesa cattolica sempre dalla parte sbagliata per quel che riguarda i diritti. Il 13 maggio 2007 in Brasile, Ratzinger dichiara che «l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane né fu un'imposizione di una cultura straniera». Montagne di documenti e di morti certificano il contrario. Rispetto alle menzogne offensive dell'ultimo papa qualcuno obietterà che il penultimo…. Differenze vi sono ma attenzione: come notano Carcano e Orioli, in molte occasioni «Giovanni Paolo II chiese perdono a Dio (non alle vittime) per le colpe commesse "dai figli della Chiesa" non dalla Chiesa che non può ammettere di sbagliare perché si ritiene "infallibilmente conservata nella verità"».
Fra le storie più vicine a noi, ma già dimenticate, impressionante è quella dei «concubini di Prato» che, offesi dal vescovo per la decisione di sposarsi solo in Comune, lo denunciano ma alla fine perdono il processo perché i giudici decidono che in quanto battezzati sono «sudditi» della Chiesa. Discutibile ma… ecco il senso dello sbattezzo, cancellarsi dal rito che segna un'appartenenza nella quale molti non credono. Sbattezzarsi era tecnicamente impossibile finché, grazie alla nuova legge sulla privacy, si trova il grimaldello: chiedere la modifica dei dati «sensibili». Nel '99 il garante della privacy ammette: «è giusto che i registri testimonino l'avvenuto mutamento di volontà». Fioccano le richieste di «sbattezzo» e la Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) mette in difficoltà le parrocchie che nicchiano. Gli ultimi paragrafi di Uscire dal gregge raccontano questa interminabile «partita a scacchi» e spiegano che fare concretamente.
Nel libro c'è molto di più. Si racconta di altri Paesi europei e della vera laicità; si indaga su alcuni significativi deliri statistici italiani sia a livello nazionale che locale (Cagliari, Imola e Rimini in testa); si ricorda un'uscita particolarmente bigotta di Sergio Cofferati; si fotografa il tipico (tanto tipico non è) «incredulo»; si polemizza su certe interpretazioni del multi-culturalisno; si accenna a come gli «apostati» cercano di uscire anche da ebraismo e Islam.
Pur se si schierano con nettezza, Carcano e Orioli non insultano e neppure si lasciano andare a irriverenze. Salvo forse in due citazioni: un macigno dei Pink Floyd ("Sheep" nell'album Animals ) e un'esilarante sonetto di Trilussa dove «la pupa» viene battezzata Anarchia… Certo nell'Italia dei Buttiglione e dei Rutelli qualcuno potrebbe considerare satanesca pure la battutina di Eduardo De Filippo (in Gli esami non finiscono mai ): «Gesù Cristo si fece battezzare a 30 anni: perché tanta fretta per i figli miei?».

mercoledì 26 agosto 2009

A Cortona quaranta volumi che furono proibiti tra il 1500 e il 1900, Eretici sovversivi o «soltanto» indecenti

l’Unità 26.8.09
A Cortona quaranta volumi che furono proibiti tra il 1500 e il 1900, Eretici sovversivi o «soltanto» indecenti
di Valeria Trigo

Cortonantiquaria è dedicata agli appassionati dell’antico e dell’antiquariato. Propone pezzi rari selezionati da specialisti, oltre 1000 pezzi importanti di vario genere e piccoli oggetti da collezione. Tra le curiosità, le litofanie di note manifatture europee, una conchiglia tibetana dei primi dell’Ottocento, un filo di perle di 1 metro Gli italiani I nomi di alcuni finiti all'Indice: Vittorio Alfieri, Pietro Aretino, Cesare Beccaria, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Gabriele D'Annunzio, Antonio Fogazzaro, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Francesco Guicciardini, Giacomo Leopardi, Ada Negri, Girolamo Savonarola, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo e Pietro Verri

Eresia, sommossa, indecenza. Queste sono le tre grandi accuse che hanno condotto libri (e spesso autori) al rogo, alla soppressione o alla mutilazione. Un’ovvia ironia storica ha in realtà assicurato l’immortalità a questi testi, gli strumenti di repressione (liste e denunce) trasformatisi in pubblicità di opere da possedere.
Molti studi e mostre hanno raccontato la storia della censura libraria. Ora a questi si aggiunge I libri proibiti, che espone fino al 6 settembre, nell’ambito di CortonaAntiquaria, quaranta libri che sono stati oggetto di censura dal 1500 al 1900 provenienti dalla libreria antiquaria di Londra Quartich e dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Libri che furono soppressi o nascosti, dei quali l’esposizione narra le storie a tratti curiose, sempre scandalose, violente, buffe.
Tra le proposte: un viaggio tra le «colonne d’Ercole» del pensiero superate da Bacone, la prima biografia di Hobbes che bruciò alcune delle proprie carte per difendere il resto della sua opera, l’eretico alchimista Barnaud che elencò in un novello Satyricon «l’esatto numero» di prostitute, eunuchi, figli illegittimi e servi al seguito degli ecclesiastici di ogni diocesi della Francia del Cinquecento e venne perseguito per l’esattezza delle sue informazioni; e ancora un censore che scrive nel Seicento una apologia dell’attività repressiva, Machiavelli e i suoi eredi, le meravigliose anatomie rinascimentali, frutto proibito della pratica «immonda» della dissezione, un «empio» Corano inglese del Seicento, Hume, Voltaire e i philosophes negatori di miracoli e autorità, adattamenti attenuati dell’Ars amatoria di Ovidio, Ludovico Muratori che supera la censura ecclesiastica ma viene fermato da quella civile, la secolare semiclandestinità del Manifesto di Marx ed Engels,
Strutturata per temi, la mostra tocca episodi di censura «illustre», quella ecclesiastica o governativa della prima età moderna. Il percorso suggerisce i nessi tra produzione erotica e sedizione politica, traccia lo sforzo di emancipazione della scienza e del pensiero dal dogma, propone «finestre» su episodi di censura colti sull’atto, mostra come una lettura antologica dell’Index librorum prohibitorum diventi quasi l’indice di un qualunque moderno manuale del pensiero occidentale, con gli stessi protagonisti: Galileo, Campanella, Copernico o Darwin solo per citare alcuni esempi, ma anche Dante, Boccaccio, o la stessa Bibbia.
Ci sono, nella rassegna, anche esempi di autocensura, libri occultati per decenni dagli stessi autori, si osserverà la dialettica sette-ottocentesca tutta italiana tra pensatori cattolici «liberi» e ortodossia dei ranghi ecclesiastici, e si proporranno documenti vicinissimi ai nostri tempi, come quelli provenienti dal Fondo Perestrojka e dalla collezione di materiali di Piazza Tiananmen della Fondazione Feltrinelli.

sabato 2 maggio 2009

Platone tradito dal Novecento

La Repubblica 1.5.09
Mario Vegetti ha scritto un libro sulla visione politica del filosofo
"Era un illuminista, non è stato capito"
Platone tradito dal Novecento
di Antonio Gnoli

È il pensatore più controverso, accusato di totalitarismo. Ecco una lettura diversa e sorprendente
Per Hitler grecità e germanesimo erano alleati nella lotta per la civiltà
Il teorico della ‘caverna´ pensava a un governo delle élite intellettuali

Non poteva prevedere Google e l´utopia della rete. Di fronte a un oggetto di cultura di massa come Matrix sarebbe rimasto interdetto. Ve lo immaginate un dialogo tra Socrate e Neo, il predestinato della grande saga dei fratelli Wachowsky? Eppure non c´è esperienza immateriale, o complicazione virtuale, che oggi non evochi le analisi platoniche. Quando estrasse, come da un cilindro, il mito della caverna avrebbe potuto inventare il cinema, se la tecnologia di allora glielo avesse consentito. Invece ne fece un involontario format in anticipo di 2500 anni sulla televisione. In fondo, realtà platonica e reality sono più contigui di quanto si immagini. Quello che nel quinto secolo fu concepito come una grande sistema speculativo, con tanto di demiurgo, rivive oggi in molte analisi. Platone è il filosofo più letto, più cliccato, più controverso. Il Novecento ne ha fatto un´icona politica, ma al tempo stesso se ne è spaventato. Su di lui è stato detto di tutto, di più. Platone totalitario e democratico, liberale e nazista, etico e immorale, amante dell´eros e fustigatore dei cattivi costumi, elitario e tollerante (o quasi). Non amava la democrazia, ne temeva le degenerazioni, la presa retorica sul popolo. Oggi guarderebbe con orrore ai populismi mediatici. Insomma perché un libro come La Repubblica ha attraversato la storia dell´Occidente sino a giungere a noi così carico di suggestioni?
Mario Vegetti - tra i più grandi antichisti in attività - ha scritto un bellissimo libro sul Platone politico da Aristotele al Novecento. Un paradigma in cielo ne è il titolo, edito da Carocci (pagg. 181, euro 18.50).
Un paradigma in cielo richiama il modo in cui Platone nella Repubblica definisce il suo modello di società giusta. Ma quel testo, credo si possa leggere e forzare in molte altre direzioni. È d´accordo?
«La Repubblica è un repertorio ricchissimo di metafore, di immagini, di paradossi. I primi due libri presentano una teoria dell´origine della giustizia e una genealogia della morale che portano diritto a Hobbes e Nietzsche; il quarto una psicologia dell´io scisso e conflittuale che ha il suo parallelo in Freud; il quinto l´utopia comunistica, l´abolizione della proprietà privata e della famiglia; il settimo un saggio straordinario di epistemologia antiempiristica delle matematiche; l´ottavo una memorabile critica parallela della democrazia e della tirannide».
E il Platone più familiare, quello delle idee, del bene e dell´immortalità dell´anima?
«C´è anche quello. Ma la cosa impressionante è lo sforzo di tenere tutto questo insieme, se non in un sistema almeno in un movimento dialettico unitario. Certo, un progetto eccessivo, che avrebbe destato la comprensibile irritazione di Aristotele. Ma l´eccesso credo sia la cifra dello stile filosofico di Platone, al quale egli rimedia spesso attenuandolo con un certo distacco ironico».
A proposito di eccesso, il Novecento è sceso a valanga su questo filosofo.
«C´è stata un´orgia di appropriazioni e di usurpazioni di Platone per motivi ideologici che risultano alla fine intollerabili».
Pensa alle letture "totalitarie" del suo pensiero?
«Nonostante l´assimilazione proposta da Popper fra i "totalitarismi", bisogna distinguere. I nazisti negli anni Trenta hanno trovato un´immagine di Platone in qualche modo già predisposta al loro abuso. Questa storia comincia con Hegel che aveva negato il carattere utopistico della Repubblica e vi aveva letto lo spirito del tempo, il riflesso dell´eticità sostanziale del popolo greco. E questa eticità consisteva nell´unità organica della comunità statale, la sua incommensurabile superiorità rispetto all´individuo. Quello che per Hegel era un limite di Platone, fu considerato un suo merito, un´idea forza nella Germania della crisi post-bellica, ostile tanto al capitalismo liberale quanto all´anarchismo socialista».
Ma in che modo il nazismo se ne appropriò?
«Platone divenne una bandiera ideologica già con illustri filologi "umanisti" come Wilamowitz, Jaeger e Stenzel. Quando il programma del partito nazional-socialista diceva che i nazisti si proponevano di "governare l´ordine come guardiani nel più alto senso platonico del termine", o quando Hitler scriveva nel Mein Kampf che "grecità e germanesimo" sono alleati nell´imminente lotta per la "civiltà", essi non facevano che citare parole già scritte dai professori berlinesi di filologia classica».
C´era anche Nietzsche alle spalle.
«C´era, ma con questa precisazione: l´idea che si dovesse formare un uomo nuovo e superiore, una "razza di signori", i nazisti la trovarono in parte almeno nella lettura nicciana di Platone».
Nietzsche se ne serve, Marx invece liquida Platone. Perché?
«Marx lo descrive come "l´ideologo ateniese del sistema egiziano delle caste". Sfortunatamente quel Platone divenne una specie di mantra nelle interpretazioni marxiste-leniniste».
A cosa si deve la fortuna della lettura popperiana di Platone?
«Più che di fortuna direi che si debba parlare di impatto. L´aggressione di Popper ha turbato il sonno di tanti che consideravano Platone, come dice Gadamer, "uno dei padri fondatori della nostra tradizione cristiana e liberale". Ma come, abbiamo da sempre avuto in casa il nemico totalitario e non solo non ce ne siamo accorti, ma l´abbiamo studiato e onorato? Si trattava di un attacco alle radici stesse della cultura occidentale, troppo forte per venire accettato. La seconda metà del Novecento ha quindi assistito a una sequenza interminabile di tentativi di difendere Platone da Popper».
Difesa legittima?
«Credo che un nemico come Popper aiuti a pensare Platone meglio di tanti suoi pretesi amici che ne fanno una caricatura perbenista per renderlo simile a se stessi e al loro "pensiero unico". La questione non è di capire se Popper ha bene interpretato Platone, e di segnalare i suoi errori con la matita rossa. La questione è di confrontare i presupposti teorici del pensiero politico di Platone con quelli di Popper, non dando per scontati né gli uni né gli altri: per esempio egualitarismo e antiegualitarismo, liberalismo democratico e governo delle élites, individualismo e comunitarismo. A questo livello, per contrasto, la critica di Popper ci aiuta a capire meglio Platone, e forse Platone può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-democratico».
Leo Strauss fornì una lettura ironica e dissimulatrice di Platone. Nel farlo pose al centro il complicato legame tra l´intellettuale e il potere. È un rapporto che ha ancora senso?
«Strauss pensava che la filosofia fosse superiore alla politica perché il suo oggetto non è storico umano ma eterno e trascendente, e che quindi l´intellettuale non dovesse farsi coinvolgere nel gioco politico. Al contrario, il suo amico-rivale Kojève pensava hegelianamente che un filosofo non può rimanere estraneo alla storia e alla grande riflessione sulla verità che accade solo nel movimento storico. Questa discussione è interessante, ma a me pare molto viziata dal fatto che entrambi hanno un´idea del tutto astratta dei termini "intellettuale" e "potere", come se in ogni epoca si trattasse sempre delle stesse figure. Quanto a Platone, il suo era un progetto in fondo illuministico: il governo delle élites dell´intelligenza e della conoscenza. Chi crede che oggi governino i tecnocrati pensa che in qualche modo il progetto sia stato realizzato. Chi pensa invece che siamo in preda all´anarchia capitalista e ai suoi imbonitori populisti, può ancora nutrire qualche nostalgia per quel programma».

Fu un bersaglio di Popper
Il primo volume dell´opera di Karl Popper "La società aperta e i suoi nemici" è interamente dedicato a Platone. Si chiama infatti "Platone totalitario" ed è un violento attacco al platonismo politico e filosofico, per il suo carattere autoritario e teso a costruire una società piegata al volere dei governanti. Popper definisce la posizione di Platone come "radicalismo estremo".

mercoledì 22 aprile 2009

La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica

il Riformista 22.4.09
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
di Biagio Di Giovanni

L'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica

Che cos'è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell'Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall'umanesimo in poi ha contribuito a fare l'Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica. Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l'Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l'aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali. La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell'Italia nazione secondo l'idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l'unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all'argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte». Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi. Gli straordinari frammenti sulla religione di fra' Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra' Tommaso Campanella, dal carcere dell'inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell'autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana. Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall'interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.

martedì 21 aprile 2009

Scompare Franco Volpi raffinato maestro di filosofia

Terra 16.4.09
Scompare Franco Volpi raffinato maestro di filosofia
di Livia Profeti

Il filosofo italiano Franco Volpi si è spento ieri all’ospedale di Vicenza, dove era ricoverato da martedì dopo essere stato travolto da un’auto mentre era in sella alla sua amata bicicletta. La Procura ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di omicidio colposo nei confronti dell’automobilista che lo ha investito.
Nato a Vicenza nel 1952, ordinario di storia della filosofia all'università di Padova, con la sua prematura scomparsa l’Italia perde uno dei suoi intellettuali più stimati, tra i maggiori studiosi della filosofia tedesca e di quella di Martin Heidegger in particolare, al cui archivio privato, gelosamente custodito dal figlio Hermann, era tra i pochi a poter accedere in qualità di referente per l’Italia. Apprezzato a livello internazionale, era stato Visiting professor nelle università di Quèbec in Canada e di Poitiers e Nizza in Francia, esordendo nel 1976 con una saggio sulla formazione filosofica giovanile di Heidegger, del quale sarebbe poi divenuto anche il principale traduttore italiano. Da allora le sue pubblicazioni non si contano. Tra le più diffuse, per Laterza, un volume della Storia della Filosofia nel 1991 e nel 1997 Guida a Heidegger, strumento imprescindibile per chi vuole accostarsi al pensiero e all’influsso del filosofo tedesco. Per Volpi Heidegger era stato il più grande filosofo dello scorso secolo nonostante si fosse compromesso con il nazismo. Compromissione che lo studioso giustificò sempre sostenendo che le scelte politiche atroci del pensatore tedesco non diminuissero la grandezza della sua filosofia. Tra i più importanti curatori di Adelphi, per questa casa editrice ha tradotto nel 2007 Contributi alla filosofia, l’opera intrisa un’aurea mistica ed esoterica che Heidegger scrisse tra il 1936 ed il ’38, sull’orlo di una drammatica crisi personale. Una traduzione difficilissima, che forse solo Volpi poteva affrontare, portando a termine un lavoro impeccabile denso di note e apparati.
Collaboratore del quotidiano la Repubblica, il tono calibrato dei suoi articoli non lasciava trapelare gli aspetti personali che invece emergevano nei tanti dibattiti accademici e divulgativi ai quali partecipava: l’aspetto timidamente giovanile, la simpatica intonazione della voce, l’inquieta gestualità con la quale esponeva vivacemente le sue tesi, la capacità di argomentare velocemente il pensiero. Qualità che, unite al rigore filosofico e filologico ed alle ampissime conoscenze, non potevano non suscitare ammirazione anche in chi, come chi scrive, a volte non ne condivideva le posizioni. Per triste ironia della sorte, è proprio l’ultimo dei suoi articoli uscito venerdì scorso a rappresentarlo più fedelmente degli altri, forse perché questa volta Volpi, commentando criticamente l’attacco frontale sferrato a Nietzsche da Benedetto XVI nell’omelia del giorno precedente, non affrontava il gelido filosofo dell’“essere per la morte” ma quello della “morte di Dio”: Nietzsche «il distruttore della ragione, il maestro dell´irrazionale».
In questo articolo era più facile, per chi aveva avuto l’occasione di conoscere Volpi di persona, sovrapporre l’immagine dell’uomo alle parole lette: un maggiore calore, una sottile ribellione alla “scomunica” papale in difesa di chi, come lui, aveva dedicato la vita a cose tanto impalpabili e gigantesche quanto oggi berlusconiamente bistrattate, come la cultura e la filosofia. O forse perché, come ha scritto Antonio Gnoli che con lui ha collaborato in molte occasioni, lo accumunava a Nietzsche l’insofferenza per certi ambienti universitari angusti e immobili. Un’affinità celata che, pensiamo oggi con dispiacere, forse gli sarebbe gli stato felice approfondire.

giovedì 16 aprile 2009

«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»

l’Unità 16.4.09
Intervista a Michel Onfray
«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»
di Silvio Bernelli

Il filosofo francese presenta in Italia il suo nuovo libro, «La potenza di esistere», sintesi di tutti i suoi interessi: etica, bioetica ed estetica

«La potenza di esistere. Manifesto edonista» di Michel Onfray è edito dalla casa editrice Ponte alle Grazie, collana «Saggi» (pagine 203, euro 15,00)

Francese, cinquantenne, Michel Onfray è un personaggio a tutto tondo, capace di accendere entusiasmi e attirarsi le critiche più feroci. Autore di una trentina di libri, tra i quali il celebre Trattato di ateologia pubblicato in Italia da Fazi, interviene spesso nel dibattito sulla laicità dello stato, la libertà dei comportamenti sessuali e la politica della sinistra europea. Incontriamo Michel Onfray in un albergo del centro di Torino, poco prima della presentazione al Circolo dei Lettori del suo La potenza di esistere, appena pubblicato in Italia da Ponte alla Grazie. Capelli bianchi scompigliati, camicia di lino chiara, pantaloni neri, modi di fare più che informali: Onfray assomiglia assai più a un giovane ribelle che a un pensatore serioso.
In molte sue opere, «Teoria del corpo amoroso» ad esempio, (edito in Italia da Fazi, n.d.a.), lei si occupa del corpo. Da dove nasce questo interesse?
«Con la fine del marxismo e il declino della religione cristiana, da quando i grandi temi stanno scomparendo insomma, l’argomento più allettante rimasto è il corpo. Da qui nascono gli interrogativi che oggi sono sulla bocca di tutti. Che cos’è il corpo? Cosa si può fare con il proprio corpo? Ho scritto molto su temi bioetici, quali l’eutanasia, ma anche la procreazione assistita, il problema dei trapianti e dell’eugenetica. Sono sempre stato favorevole a un uomo capace di riappropriarsi del proprio corpo, un uomo post-cristiano».
Pare che le istituzioni, ma anche la società nel suo insieme, non siano ancora state capaci di produrre un’idea di famiglia che vada d’accordo con la nuova idea di libertà del corpo. Come risolvere questa contraddizione?
«In questo caso, sono d’accordo con quanto dice Benedetto XVI...»
Se lo dice lei, che è una specie di campione dell’ateismo, questa è una notizia...
«Volevo darle un titolo per il giornale (Onfray si lascia andare a una risata, n.d.a.)… A parte gli scherzi, sono contrario a una sessualità nichilista, al sesso per il sesso. Bisogna dare sempre un senso al corpo e a ciò che ne facciamo. Ogni persona deve essere libera di stipulare un contratto con il proprio partner, dove in cambio dell’esclusività sessuale si riceve la possibilità di costruire qualcosa».
È d’accordo con Benedetto XVI anche per quanto riguarda la dichiarazione sui profilattici che non servirebbero a combattere l’Aids?
«È un’affermazione che non mi sorprende, in linea con la dottrina cattolica. Mi sembra comunque che rispetto a Giovanni Paolo II, molto sensibile alle dinamiche dei mass media, Benedetto XVI lo sia molto meno. Detto ciò, è un uomo molto colto, un filosofo che ha sempre il merito di sapere cosa dice».
Lei è un pensatore individualista e libertario, fa parte di una corrente di pensiero che il comunismo europeo, in particolare quello italiano, e credo anche quello francese, ha sempre detestato. Pensa che l’attuale incapacità della sinistra di comprendere la società nasca proprio da questa frattura?
«Il marxismo è passato come un rullo compressore sulla nostra società, e non a caso oggi la sinistra deve essere post-marxista. Dopo le terribili tragedie del XX secolo, è necessario ripensare la resistenza al capitalismo non in termini di rivoluzione. Bisogna imparare a maneggiare la propria libertà e cercare di costruire una società anti-dogmatica, federata, basata su tanti micro-sistemi collegati in un network».
Una sinistra vista così non sembra un partito. Quale forma potrebbe avere?
«La sinistra deve essere anche un partito. Se ci fosse una sinistra unita, forte, anti-liberista potrebbe costituire una forza capace di raggiungere una massa critica tale da condizionare la società».
Con quali parole presenta ai nostri lettori il suo libro «La potenza di esistere»?
«Ogni libro appartiene alle persone che lo leggono, ciascuno ci trova il filo che gli è più congeniale. La potenza di esistere comincia con un parte autobiografica in cui racconto i quattro anni vissuti da bambino in un orfanotrofio salesiano. Non è stata comunque questa esperienza a fare di me un ateo: è che non ho mai avuto il senso della trascendenza. Da piccolo, quando mi sentivo raccontare la storia di Gesù, l’ascoltavo come fosse quella di Zorro, come un’avventura. Per il resto, La potenza di esistere è un po’ la sintesi di tutti i miei interessi: l’etica, la bio-etica, l’estetica».
Il sottotitolo di «La potenza di esistere» è «Manifesto edonista». Questo aggettivo viene per lo più percepito con un significato molto vicino a egoista. È un segno di come certe parole abbiano ormai perso il loro significato originario, siano state consumate dal tempo?
«Questo della perdita di senso delle parole è un vero problema. È un fenomeno di consunzione molto forte anche nel campo della filosofia. Pensiamo al significato del termine “materialista”, che oggi non ha più niente a che fare con Democrito, che non parlava affatto di attaccamento al denaro; oppure al termine “stoicismo”, che non significa accettare con rassegnazione di prendersi un pugno in faccia, come sembra voglia dire oggi. Questa svalutazione dei termini porta, per forza di cose, a un mondo triviale, dominato da parole senza valore, che faremmo bene a combattere».

domenica 12 aprile 2009

L'editoria malgrado la crisi

il manifesto 11.4.09
L'editoria malgrado la crisi
di Francesca Borrelli

IL MERCATO DEL LIBRO PASSA PER QUESTE PORTE Alcuni tra i responsabili della editoria maggiore parlano degli effetti razionalizzanti della attuale congiuntura economica. La messa in scena delle aste selvagge, con cifre a sei zeri e tempi di scelta dei titoli ridotti a poche ore, è finita. All'altro capo della filiera, però, si accentua la tendenza delle librerie a fare ruotare l'esposizione dei libri a una velocità proibitiva, danneggiando sia i piccoli editori che i lettori
Nel mondo dell'Ancien Régime successe all'editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all'ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall'antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all'ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l'equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell'editoria sembrano essere di tutt'altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l'industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri - Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l'accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell'editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell'editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all'incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell'anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l'amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l'invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti - non senza ragioni - che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt'altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all'incirca 900 novità all'anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all'incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l'acquisto dei diritti, che si fa tutto l'anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l'impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all'anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia - per esempio - da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall'osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell'editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l'11 settembre si sia sviluppato un po' di più l'interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d'altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell'entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l'anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l'anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque - dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri - tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest'anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell'anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l'orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest'anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti - per esempio - continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l'anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l'immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l'attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell'editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po' scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell'anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po' patetico la finanza d'assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati - ogni volta - come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all'euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l'anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest'anno abbiamo solo un po' modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d'accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C'è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell'editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull'intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l'attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»

L'unico legame con la tradizione sta nel sangue. Il ritorno dei vampiri

il manifesto 11.4.09
L'unico legame con la tradizione sta nel sangue. Il ritorno dei vampiri
di Isabella Mattazzi

Oggi come mai succhiare sangue sembra nutrire uno degli incubi letterari più diffusi: tra gli esempi recenti, Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, pubblicato da Fazi e Un luogo incerto di Fred Vargas uscito da Einaudi
L'editoria italiana, oggi sembra essere letteralmente invasa dai vampiri. Adolescenti immortali e traslucidi, divoratori di fanciulle dal passo silenzioso, contadini serbi sepolti da trecento anni sotto un cumulo di pietre perché non possano più tornare, sono i nuovi abitatori degli incubi letterari della nostra contemporaneità. Chiunque si sia trovato ultimamente a scorrere qualche titolo in libreria, non avrà potuto fare a meno di notare la presenza di un corpus così imponente e articolato da fare quasi genere a sé. E non soltanto con romanzi come I fratelli del vampiro, Il sangue nero, La condanna del vampiro o Vampirius, prodotti sparsi di quel sottobosco culturale che da sempre ha animato le sale d'aspetto dei treni e i viaggi in metropolitana nelle grandi città, ma anche con testi di un certo spessore come Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex (traduzione di Maurizio Ferrara, postfazione di Daria Galateria, Fazi, 2009, pp. 91, euro 14), o Un luogo incerto di Fred Vargas appena pubblicato da Einaudi con la bella traduzione di Margherita Botto (pp. 392, euro 18,50).
Se Newton Compton o Fazi devolvono già da qualche anno una parte del proprio catalogo al vampirismo, la leggenda di Twilight, nata dalla penna miliardaria di Stephenie Meyer, negli ultimi mesi ha letteralmente polverizzato al cinema, per incassi e numero di liceali emozionatissimi in sala, la saga forse adesso un po' stanca e imbolsita di Harry Potter e dei suoi sequel. Oggi come non mai, succhiare sangue sembra essere una delle pratiche più amate tra tutti gli incubi e le ossessioni letterarie con cui possiamo scegliere di rovinarci l'esistenza.
In comune un dato simbolico
Ma chi sono questi nuovi vampiri? Che cosa hanno fatto per imporsi in pochi anni come vero e proprio mainstream della narrativa fantastica contemporanea? Una cosa è certa, nulla di tutto quello che facevano i loro predecessori vittoriani e decadenti. Niente come la sessualità ambigua di Carmilla (sogno proibito di intere generazioni tra Otto e Novecento) sembra essere più lontano dal codice sentimentale dei pallidi sedicenni di Stephenie Meyer. Nessuna traccia di castelli in rovina tra le case del povero villaggio di Ropraz nella Svizzera francese. Nessun dandismo alla Polidori (alla Byron) per i masticatori sepolti della Vargas. Nessuna somiglianza, dunque. Nessuna parentela con una tradizione tematica tra le più ingombranti che la letteratura moderna abbia mai conosciuto. Completamente abbandonato ogni orpello neogotico, senza più sudari di seta, bare foderate, candelabri e pipistrelli, i vampiri di oggi, i «nostri» vampiri, sembrano mantenere come unico legame con il proprio passato un solo dato simbolico, il sangue. Come se la spoliazione di ogni particolare superfluo avesse reso ancora più evidente il nucleo centrale, quel grumo primordiale di bisogni e paure senza nome attorno al quale l'uomo costruisce le figure simboliche del proprio immaginario, il tema del sangue sembra essere infatti il solo tratto ancora irrinunciabile oggi per fare di un mostro un vampiro. Quell'unico elemento invariabile, rimasto praticamente intatto attraverso tre secoli letterari di creature senz'ombra e senza riflesso. Il nodo della questione insomma, probabilmente il più radicato, certamente il più antico della storia del vampirismo.
Ben più dei supereroi dalla pelle perfetta di Twilight, o dell'antico scandalo dello stupratore di cadaveri del 1903 di cui parla Chessex, le indagini del commissario Adamsberg nell'ultimo libro di Fred Vargas ci portano direttamente al cuore del problema. Resti organici sparpagliati su un pavimento come semi in un campo. Un uomo massacrato a colpi di martello e di sega elettrica senza che apparentemente nessun motivo giustifichi la furia gelida di un lavoro di ore e ore su un essere umano ormai irriconoscibile. Un commissario dall'aria distratta, incaricato di seguire la vicenda senza che l'orrore di quei «brandelli di carne abbandonati come scarti sul banco di una macelleria» riesca a paralizzarne i pensieri e l'intelligenza analitica. Ha inizio così, con un cadavere senza più piedi e senza più denti, con un morto simbolicamente non più in grado di camminare o di mangiare, il lungo viaggio di Un luogo incerto tra le radici storiche, direttamente alle fonti del mito del vampiro. Che cosa può avere spinto infatti un assassino a intestardirsi in quel modo sulla sua vittima se non la paura disperata di un suo ritorno in vita? Come spiegare altrimenti quell'accanimento sulle articolazioni delle caviglie, sulle dita dei piedi, sui denti, estratti uno a uno e ridotti in schegge con la precisione paziente di un intagliatore di diamanti?
Il giornalista Paul Vaudel è stato ucciso come si uccideva un tempo un vampiro. Il suo fegato e il suo cuore distrutti come secoli prima si bruciavano i luoghi del corpo in cui risiedevano l'anima e la vita. I tendini delle sue gambe spappolati come, nelle campagne, era uso legare le gambe o tagliare la testa e incastrarla tra i piedi perché il morto, una volta sveglio, non potesse più riconoscere la strada di casa.
Il vampiro come fenomeno «moderno» nasce a fine Seicento ai confini orientali dell'impero austro-ungarico. La Valacchia, la Moravia, la Serbia sono i nuclei, poverissimi e contadini, della nascita e dello sviluppo del vampirismo. Nulla a che vedere con le atmosfere aristocratiche a cui l'Ottocento decadente ci ha abituati. Le prime epidemie storicamente documentate di questo fenomeno appartengono piuttosto al dominio angusto della lotta per la sopravvivenza, alla paura ancestrale che i morti possano tornare per sottrarre ai vivi (come i lupi, gli orsi, le volpi) la loro parte di cibo. Più che raffinati seduttori o magnetici geni del male, i vampiri sei-settecenteschi sono infatti innanzitutto dei formidabili masticatori. La loro passione smisurata per il sangue, per la carne e le viscere di uomini e animali affonda direttamente le proprie radici nelle ansie di conservazione e gestione delle risorse primarie delle società contadine nell'Est europeo.
In un contesto in cui il cibo è scarso, la più grande angoscia immaginabile è quella di doverlo dividere ulteriormente. E il morto-in-vita, figura liminare, sovvertitore per sua stessa natura di ogni ordine costituito, sembra essere la rappresentazione immediata e sconvolgente di un'inaspettata rottura della catena alimentare; chi è morto infatti non può più tornare indietro, ma soprattutto chi è morto non può e non deve dividere il cibo con i vivi.
Qualche illustre precedente
Sono numerosi i trattati dell'epoca che raccontano come di notte, nei casolari accanto ai cimiteri, uomini e donne venissero svegliati da rumori sordi, grugniti, schiocchi secchi e insistenti. Una volta individuate e aperte le tombe, cadaveri dal colorito vermiglio, per nulla toccati e offesi dalle mani impietose della decomposizione, si offrivano immobili allo sguardo degli spettatori con gli occhi sgranati e i brandelli del sudario ancora stretti tra le gengive contratte, a immagine perturbante e bestiale di un desiderio incontenibile di fame e distruzione. Nelle Lettres juives del 1738, Jean-Baptiste Boyer, marchese d'Argens scrive come in Serbia, nel villaggio di Kiseljevo, un morto seppellito da tre giorni avesse bussato alla porta del figlio chiedendo di potersi mettere a tavola insieme a lui e, non avendo ricevuto risposta, ne avesse causato la morte improvvisa. Augustin Dom Calmet racconta nel 1751 di un contadino tornato indietro dal mondo dei morti per chiedere alla moglie le scarpe, senza le quali probabilmente non sarebbe potuto comodamente andare alla ricerca delle sue vittime.
Charles Ferdinand de Schertz, vescovo di Olmutz e di Osnabruch riporta come nelle notti di luna intorno al suo villaggio si sentissero le mucche gemere per il terrore e il dolore di morsi ben più pericolosi di quelli di un lupo. Nel giro di una manciata di anni la paura dei vampiri (la paura della loro fame) diventa così radicata nella popolazione da costringere più volte Maria Teresa d'Austria a inviare il proprio medico personale per assistere a riesumazioni e conseguenti decapitazioni di cadaveri. Corpi di donne, uomini, vecchi, fanciulle vengono trovati, per tutto il Settecento, sdraiati nelle loro bare «come appena addormentati», rossi di gote e rigonfi di sangue fresco, un sangue talmente giovane e forte da uscire a fiotti, non appena incisa la pelle, fino a inondare letteralmente il terreno, riversandosi nelle tombe circostanti. La paura dei contadini di non riuscire a difendere i cavalli, le galline, i propri stessi bambini e le donne dall'appetito terribile dei parenti, da coloro che fino a un giorno prima erano stati amici, padri, amanti sembra creare negli anni una serie infinita di rituali di protezione e di contenimento; impastare il sangue sgorgato dal cadavere di un revenant con della farina e farne del pane da mangiare tutti i giorni, seppellire i propri morti con un'ostia o un sasso in bocca, mangiare la terra dove riposa il vampiro, e infine, come extrema ratio devastare il suo corpo, tagliarne le mani perché non possa più afferrare, legarne i piedi perché non possa più fare ritorno, strapparne i denti perché non possa più divorare.
Il monito di un antico legame
In seguito, di tutte queste morti povere, di tutti questi cadaveri eternamente affamati, divoratori di maiali e di familiari si perderà lentamente la memoria. Al tema antico della sopravvivenza, alla paura niente affatto metaforica del cannibalismo, tra Otto e Novecento, si aggiungeranno altri terrori, altri fantasmi nati da ben altri problemi che la difficoltà di sostentamento di qualche contadino ungherese. Il sangue, da elemento «reale» (sangue degli animali nelle stalle, sangue degli uomini nelle case) si trasformerà sempre più in un veicolo simbolico, mescolandosi alla sessualità, al desiderio, al timore del tutto borghese della perdita di identità.
Che l'immagine del vampiro e il suo continuo bisogno di sangue possano in qualche modo essere riflesso delle condizioni socio-economiche dell'epoca che ne alimenta la leggenda, non è cosa passata del tutto inosservata. Franco Moretti in un saggio degli anni ottanta sul Dracula di Bram Stoker ne aveva intuito il legame, mettendo in diretto rapporto la produzione letteraria orrorifica di matrice vittoriana e il capitalismo. Flusso di sangue e flusso di denaro. Dracula, vampiro solitario e dispotico, e capitale monopolistico incline a distruggere ogni forma di indipendenza economica. Ma perché le morti contadine di Kiseljevo tornassero, perché il vampirismo riacquistasse il suo significato ancestrale di lotta senza quartiere per la sopravvivenza, occorrevano i nostri giorni e l'assassinio efferato del giornalista Pierre Vaudel. Vampiro figlio di vampiri, discendente di quel Peter Blagojevic, seppellito in un «luogo incerto» della Serbia dell'Est, Pierre Vaudel sembra infatti andare direttamente al cuore di quell'ossessione senza nome, di quel contenuto inconscio impossibile a dirsi se non appunto attraverso il filtro di un modello formale in grado di esprimerne e insieme di occultarne il portato perturbante: il terrore che il cibo finisca. Creatura postmoderna, devastatore di corpi e a sua volta corpo devastato, in un'epoca in cui alla povertà contadina si sono sovrapposte altre povertà, Pierre Vaudel è il monito di un antico legame tra paura e immagini.
Le sue ossa fatte a pezzi stanno lì a dirci che le modalità di rappresentazione della fame sono sempre le stesse. I suoi denti frantumati e dispersi raccontano che la macchina immaginativa dell'uomo funziona sempre con gli stessi ingranaggi. «Adamsberg risalì lentamente il boulevard, immaginando i germogli di Kiseljevo che marcivano intorno alla tomba.
Dove ricresceranno, Peter ?».

sabato 11 aprile 2009

L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere»,

Corriere della Sera 9.4.09
L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere», e corregge Sartre
Addio matrimonio cristiano Liberi, ma con discrezione
Il filosofo Michel Onfray: mai spiare gli sms
di Stefano Montefiori

La potenza di esistere è un libro ambi­zioso: «Nulla da temere dalla morte. L’es­senziale consiste nel non morire già in vi­ta».

CAEN — Nei camerini del teatro di Ca­en, poco prima della lezione gratuita su Nietzsche seguita da oltre mille persone, il filosofo Michel Onfray offre qualche ri­petizione sul corretto uso del telefonino: «Mai spiare i messaggi ricevuti dalla pro­pria compagna o controllare il registro delle chiamate: chi cerca trova, e non è detto sia un bene». La buona educazione e la discrezione sono virtù fondamentali per chi voglia praticare il manifesto edoni­sta stilato da Onfray in La potenza di esi­stere (Ponte alle Grazie, traduzione di Gregorio De Paola, pagine 203, e 15), quintes­senza delle sue 50 opere da oggi nelle li­brerie. Un saggio che alterna paragrafi in­titolati «hapax esistenziale» o «episteme ebraico-cristiana» a frasi più concreta­mente dedicate agli amori terreni e alle trappole della gelosia.
Questa apparente miscela di Lucrezio, Spinoza e Cosmopolitan è valsa a Onfray il sussiego quando non l’odio di molta cri­tica, e un successo popolare straordinario in tutto il mondo. Anche in Italia il Tratta­to di ateologia ha goduto di un seguito non certo di nicchia, sull’onda di un riflus­so anticlericale che trova il suo altro eroe internazionale nell’inglese Richard Dawkins («non mi piace, troppo rozzo»). «Nel Trattato di ateologia ho parlato di Dio come finzione purtroppo tuttora ne­cessaria per molti uomini — spiega On­fray — e ho contestato tutte le religioni.
La potenza di esistere è invece la pars con­struens, la mia proposta per vivere in mo­do consapevole, etico, gioioso».
Onfray teorizza la necessità di una filo­sofia pragmatica che dimostri il suo valo­re nel suo essere applicabile nella vita di tutti i giorni, in coda dal fornaio o viag­giando in treno. Per questo, e per le sue folgoranti apparizioni televisive (dove con rapida parlantina ha maltrattato av­versari di peso, da Jacques Attali a Philip­pe Sollers), i detrattori lo hanno definito «filosofo da supermercato». Disistima del tutto ricambiata. Come il divulgatore britannico Julian Baggini, Onfray detesta l’elitarismo e la filosofia accademica: «Io sono fuori dal mondo, continuo a vivere qui in Normandia, con i miei allievi del­l’Università popolare di Caen da me fonda­ta; non vengo mai invitato nei salotti pari­gini e ne sono felice. Detesto i filosofi di professione, quelli che si riempiono la bocca di metafisica dal lunedì al venerdì e dalle 9 alle 5».
In realtà, a giudicare da almeno un pa­io di copertine (Lire e Nouvel Observateur), dalla presenza su radio e tv e dalla celebre lunga intervista a Nicolas Sarkozy pochi mesi prima dell’elezione all’Eliseo, Michel Onfray è più una star che un outsi­der. E questa non è l’unica contraddizio­ne del personaggio. Nella copertina della Potenza di esistere appare vestito di nero, aria grave. Onfray sorride con parsimo­nia. Non che debba per forza mostrarsi con belle donne bevendo champagne, ma il suo sarebbe pur sempre un «manifesto edonista».
Però è dal dolore che bisogna partire, purtroppo. La prefazione è il racconto dello spaventoso periodo trascorso in un orfanotrofio dei salesiani, dai 10 ai 14 anni, abbandonato dalla madre stanca di picchiarlo dopo essere stata a sua volta maltrattata dai genitori. Sono 30 pagine tragi­che e commoventi, dominate dal sadismo dei preti, e concluse da parole di perdono verso la madre: «Si diventa davvero mag­giorenni rivolgendo, a coloro che ci han­no aizzato contro i cani senza sapere quel che facevano, il gesto di pace necessario a una vita che superi il risentimento. La ma­gnanimità è una virtù da adulti». La dedi­ca del libro è «A mia madre ritrovata».
Un uomo capace di superare una simi­le adolescenza e un infarto grave patito a 28 anni ha forse qualche dote di resilien­za da offrire ai suoi simili. E se non ci si lascia contagiare dal virus della supponen­za verso qualcuno giudicato troppo letto per essere un vero filosofo, il resto del li­bro è un interessante percorso di rifiuto della tradizione filosofica idealista, del mi­to giudaico-cristiano della nobiltà della sofferenza, verso un «erotismo solare» e una «bioetica prometeica». «Bisogna pra­ticare una sorta di aritmetica del piacere, abituarsi a calcolarlo per sé e per gli altri — spiega Onfray —. Per l’uomo della stra­da, l’utilitarismo indica il comportamen­to di chi è interessato, incapace di genero­sità e gratuità. Siamo agli antipodi del pensiero di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill, per i quali il principio di utili­tà significa “maggiore felicità per il mag­gior numero”».
In tempi di ridefinizione dei rapporti di coppia, e di prevalenza del divorzio, On­fray auspica la leggerezza, la consapevo­­lezza, il contratto tra due persone che ridi­scutono continuamente i termini del loro accordo — per una sera, per una vacanza, per la vita, per il desiderio, l’amore o il ses­so. Senza inganni. «Il matrimonio traman­dato da duemila anni di cristianesimo, fat­to di promesse vane, di Principi Azzurri e donne ideali, è una macchina produttrice di ipocrisia e infelicità».
Un nuovo cantore dell’Amore liquido post-moderno, effimero e consumista, già definito e criticato da Zygmunt Bau­man? «No, condivido la critica al consumi­smo relazionale, al nichilismo del sesso — risponde Onfray —. Penso che il sesso triste sia un prodotto del cristianesimo, come lo sono del resto Sade e Bataille, la faccia libertina di una medaglia che esibi­sce sull’altro lato la figura del santo. I sen­timenti duraturi sono una conquista fati­cosa, da raggiungere in due, con una spe­cie di dieta erotica da seguire in coppia, senza necessariamente mortificarsi, in piena libertà». Coerentemente con le pre­messe di filosofia pragmatica e vissuta in prima persona, Onfray spiega di vivere da otto anni con una compagna, senza vinco­li di fedeltà. E qui rispunta l’etica del tele­fonino. «La lezione di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir è che l’idea di raccon­tarsi tutto nel dettaglio, di essere onesti fino alla crudeltà, non funziona. Sartre e Beauvoir tenevano a informarsi degli or­gasmi avuti con altri partner, ma poi ne soffrivano immensamente. Dobbiamo ri­cordarci che siamo pur sempre dei mam­miferi, che siamo preda della gelosia».

L’araba felice

l’Unità 9.4.09
L’araba felice
Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, le prime magistrate. Le donne conquistano terreno anche in alcuni paesi islamici. In Algeria, dove oggi si va alle urne, la politica passa attraverso la proposta di quote rosa e il diritto di trasmettere la cittadinanza ai figli
di Rachele Gonnelli

Il primo centro in Siria per donne vittime di violenza coniugale. Le prime due donne giudici in Cisgiordania per di più specializzate in sharja, cioè in legislazione islamica. Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, uno dei paesi più retrivi sul piano dei diritti delle donne, oltretutto scritto da una assistente familiare donna. E la prima vigilessa, con il grado di colonnello istruttore, sempre negli Emirati Arabi, con il casco integrale al posto del velo. Sarà poco ma le donne conquistano terreno anche nei paesi dove spesso la misoginia è legge, dove non si può guidare o tramandare un bracciale di madre in figlia senza il consenso del marito e a divorziare, più che da noi, si rischia la vita.
Piccoli sorsi di libertà che sono tutti delle ultime settimane e mesi. Non riescono a diventare una marea montante, né ad avere una vasta eco neanche nei paesi dove si verificano. Certo non colmano il lago della condizione femminile in paesi come l’Afghanistan, dove è in discussione una legge che legittima addirittura lo stupro dei mariti. Eppure ci sono e qualcosa vorranno pur dire. Forse che comunque il cammino delle donne per quanto a piccoli passi non può essere arrestato.
Dopo il Marocco, dove nel 2006 è stato varato un nuovo codice di famiglia che stabilisce la parità giuridica tra i due sessi, il paese dove si registrano più segnali in direzione di una maggiore parità tra i generi e un riconoscimento del ruolo pubblico delle donne è l’Algeria. Un paese in bilico che va alle urne il 9 aprile, dove il voto delle donne sarà probabilmente decisivo. Il settantunenne Adbelaziz Bouteflika spera di rimanere al potere puntando su un mix di modernità e tradizione. Ha modificato la Costituzione per ottenere il terzo mandato. Ma ora teme il combinato disposto di un aumento dell’astensionismo e della ripresa della violenza integralista dei gruppi salafiti. Attentati non sono mancati negli ultimi tempi, come quello a fine febbraio che ha sfiorato un cantiere della ditta Astaldi.
La delusione degli algerini verso il progresso da Bouteflika, molto visibile sui blog e su Internet più che sulla stampa locale, potrebbe covare come paglia secca la miccia del fondamentalismo. Bouteflika lo sa. E sta cercando di usare le donne come acqua per spegnere le fiamme. Facendo concessioni ad un movimento che ha avuto un ruolo di primo piano sia durante la guerra di liberazione sia dalla fine della guerra civile degli anni Novanta con la leader Khalida Messaudi, dirigente del Movimento per la Repubblica, di ispirazione laica e democratica.
Un mese fa un decreto presidenziale ha riconosciuto il diritto alle donne algerine a trasmettere la cittadinanza ai loro figli, un diritto mai riconosciuto prima in un paese musulmano. Bouteflika ha poi annunciato la volontà di introdurre «quote rosa» per i ruoli più alti dell’amministrazione pubblica. Provvedimenti «paternalistici e umilianti» a sentire Louisa Hanoune, segretario generale del Partito dei Lavoratori algerino, una donna, sua principale sfidante alla poltrona presidenziale. Lei, che lo ha già fronteggiato nel 2004 e ci ha provato anche nel ’99, ama parlare di crisi economica più che di donne. Ha condotto una campagna elettorale con toni molto accesi, accusando i ministri di usare il denaro pubblico per fare propaganda, di intimidire gli elettori, ha denunciato il restringimento di libertà per gli oppositori. Una «pasionaria». Considera normale che oggi le donne algerine al 63 percento abbiano un diploma superiore e che il 58 percento degli studenti universitari porti la gonna, meno che solo il 17,5 percento del monte salari sia riscosso da lavoratrici. Mancano i servizi, dice, per consentire alle donne di lavorare.
La scolarizzazione femminile si diffonde ovunque ma non necessariamente è accompagnata da diritti civili e politici. In Iran il 70 percento della popolazione universitaria è di sesso femminile. Prima della rivoluzione di Khomeini, non volendo o non potendo per obblighi familiari frequentare le scuole miste dello scià, due terzi delle donne erano illetterate. Paradossalmente il velo e la separatezza le ha aiutate a conquistare uno spazio pubblico, anche se limitato e sotto tutela. Ora le donne iraniane alfabetizzate sono l’80,3 percento, con una crescita del 126 percento nell’ultimo decennio come ha ricordato Tahere Nazari, teologa iraniana inviata dal governo di Teheran ad un incontro in Vaticano sulla famiglia che si è tenuto a Roma a fine febbraio.
Nell’ultimo decennio anche l’occupazione femminile in Iran è crescita del 12 percento e persino il governo integralista di Ahmedinejad riconosce che «a causa dell’economia moderna» la donna non può più rivestire unicamente il suo ruolo tradizionale di moglie e madre. Non essendo stati predisposti dei servizi sociali in grado di facilitare il doppio ruolo, anche qui però ogni lavoratrice madre ha semplicemente diritto a una riduzione di due ore dall’orario di lavoro rispetto al mansionario. Con conseguente riduzione dello stipendio.
In Iran i gioco politico non sta aiutando le donne finora. In previsione delle elezioni presidenziali del prossimo 12 giugno, la repressione degli integralisti al potere si è riversata prima di tutto verso le femministe: una brutale perquisizione negli uffici di Shirin Ebadi, prima donna giudice in Iran e Nobel per la Pace 2003, sostenitrice del riformatore Khatami e poi l’imprigionamento di alcune attiviste della campagna «Mille firme» per la parità giuridica e la fine delle discriminazioni di genere. Eppure secondo Katayoon Shahabi, produttrice di film e serial per la tv di Stato, per ottenere la fine della discriminazione non ci sarà bisogno di nessuna rivoluzione, neanche di velluto. «Semplicemente - ha detto in una recente intervista a un quotidiano britannico - le cose si stanno muovendo come un fiume e i fiumi non si fermano». Una goccia tira l’altra.

giovedì 19 marzo 2009

Il Rapimento di Proserpina. La guerra dei Goti

Claudiano
Il Rapimento di Proserpina. La guerra dei Goti
Rizzoli, Milano, 1981

Chi era Claudio Claudiano? Il suo nome, notissimo e amatissimo dai poeti del nostro Rinascimento, non dice più nulla ai lettori di oggi. Era solo un retore, che continuava a cesellare favole antiche mentre (era nato in Egitto verso il 370) l’Impero romano si lacerava, il Cristianesimo conquistava gli animi e i Goti stavano per saccheggiare Roma? Come compresero Coleridge e Huysmans, Claudiano era invece il primo e il più inquietante dei «poeti moderni», I suoi «esametri risplendenti e sonori», che creano l’epiteto con un colpo secco di martello tra fasci di scintille, sono soltanto degli schermi, dietro i quali si avverte l’erompere terribile del mondo dell’Abisso, della Notte, della Tenebra: il mondo di Plutone, che nel «Rapimento di Proserpina» minaccia la luce. Claudiano ne ha terrore e ne è affascinato; e si salva orchestrando con incantevole freddezza i suoi prodigi frondosi e barocchi, le sue meravigliose variazioni alessandrine.

«li rapimento di Proserpina» (scritto fra il 396 e il 402) e «La guerra dei Goti» Iscritta dopo la vittoria di Stilicone sui Goti) sono stati tradotti da Franco Serpa, che ha anche scritto l’introduzione e apprestato il corredo critico.

Dalla quarta di copertina

Ideologia e politica nel mondo di Disney

Ariel Dorfman, Armand Mattelart
Come leggere Paperino
Ideologia e politica nel mondo di Disney
Feltrinelli, Milano, 1980

Apparentemente ci sono territori dell’umano in cui la lotta di classe non esiste. Per esempio l’infanzia, i cui attributi classici sono purezza, ingenuità. Come leggere Paperino dimostra il contrario:
nulla sfugge all’ideologia. Nulla, quindi, sfugge alla lotta di classe. li libro tende a smascherare i meccanismi con cui l’ideologia borghese si riproduce attraverso i personaggi di Disney. L’analisi indaga sulla struttura dei fumetti, mostra l’universo di doppi significati in essi nascosti, che svolgono un ruolo fondamentale per la comprensione del messaggio. Paperino è la metafora del pensiero borghese che penetra insensibilmente nei bambini attraverso tutti i canali di formazione della struttura mentale. È la manifestazione simbolica di una cultura che incentra tutti i suoi significati sull’oro e lo rende innocente staccandolo dalla sua funzione sociale. Il denaro non vi appare come elemento di rapporto tra il capitalista e la società; l’ansia di possederlo di Paperone è solo una perversione individuale. Sulla stessa linea, tutti i personaggi disneyani emergono come individualità psicologiche e non come prodotti di rapporti. Accanto all’avaro esistono l’inventore, il fortunato, l’ingenuo. Sono comportamenti astratti e non funzioni concrete di una realtà sociale. Siamo ormai lontani dall’aneddoto Disney: siamo nel campo della politica. Non per nulla la stampa mondiale si è largamente interessata a questo libro e l’Associated Press, parlandone istericamente, ne ha citato questa frase: “Finché la sua figura sorridente passeggerà innocentemente per le strade del nostro paese, finché Paperino sarà potere e rappresentazione collettiva, l’imperialismo e la borghesia potranno dormire sonni tranquilli.

Ariel Dorfman, critico letterario, è nato in Cile neI 1942. Si occupa particolarmente di letteratura per l’infanzia. Armand Mattelart, sociologo, è nato in Belgio nel 1936 e si è trasferito in Cile nel 1962. Ha scritto molti libri sull’imperialismo culturale nei paesi sottosviluppati e sui mass media.

Dalla quarta di copertina

giovedì 12 marzo 2009

I nomadi del mare

Jean Raspail
I nomadi del mare
SugarCo, Milano 1987, pagg. 269

Di un raid automobilistico che, agli inizi degli anni Cinquanta, lo condusse dalla Terra del Fuoco all’Alaska, Jean Raspail ha conservato un ricordo ossessionante:
«Attraversando lo stretto di Magellano, ho incontrato, nello spazio di un’ora, sotto la neve, nel vento, uno degli ultimi canotti degli Alakaluf». Di questo incontro coi superstiti di un popolo respinto ai confini del mondo, l’autore di Le camp des saints e di Moi, Antoine de Tounens, roi de Patagonie ha fatto il lievito del suo ultimo romanzo, Qui se souvient des hommes..., ora tradotto in italiano con il titolo I nomadi del mare.
Nello stesso periodo, un etnologo diventato poi suo amico, José Emperaire, aveva voluto conoscere la vita che ancora conducevano, all’estremità del mondo australe, quegli Indiani Alakaluf la cui razza si è in seguito estinta. Avrebbe passato fra di loro due anni, dal 1951 al 1953, sotto le loro capanne di pelle di foca, sulla costa orientale della grande isola di Wellington. li suo libro, pubblicato nel 1955 da Gallimard con lo stesso titolo ora impiegato dall’editore italiano di Raspail (Les Nomades de la mer), non è mai stato riedito. José Emperaire era destinato a trovare la morte il 12 dicembre 1958, nello stesso stretto di Magellano, mentre, come ricorda Jean Raspail nella commovente dedica del suo libro, ~~cercava di ricostruire la storia di quel popolo disprezzato sulla base di vestigia vecchie cento secoli». L’opera più recente di Jean Raspail vuoi essere un «romanzo semplice», vale a dire il contrario di un «romanzo a tesi». Eppure, I nomadi del mare pone il problema dei popoli che rifiutano il modello occidentale senza peraltro trovare la via d’uscita che permetta loro di evolvere senza rinnegare la propria cultura. Il destino tragico degli Alakaluf ispira a Jean Raspail pagine la cui emozione non si distacca mai da una straordinaria dignità. Ma Raspail non è uomo da cedere al mito del «buon selvaggio». Ha troppo viaggiato, e troppo amato i popoli che ha incontrato, per abbandonarsi a questo genere di illusioni. Non è neppure uomo incline a coltivare sensi di colpa di qualsiasi tipo. Si fa carico, con lucidità e coraggio, della storia prometeica dell’Occidente, anche in ciò che essa ha di più discutibile ai nostri occhi. E non ha paura di esprimere la sua ammirazione per la fantastica energia, la volontà di potenza di quegli esploratori rinascimentali che, nel solco di Magellano, portarono con sè i germi della distruzione degli Alakaluf, nella fattispecie la Croce e la tecnica...
La ricchezza umana de I nomadi del mare risiede tutta proprio in questa ambiguità. Tratteggiando il dramatico confronto fra Alakaluf ed europei con una imparzialità notevole, Jean Raspail fa sfoggio di una sensibilità pudica ed inquieta, nemica delle certezze ideologiche. Non ci sono né buoni né cattivi (salvo uno) ne I nomadi del mare. Solamente uomini, e soprattutto una terribile incomprensione. Ciononostante, il lettore non potrà impedirsi di pensare che il confronto sarebbe stato diverso, se il virus universalista non avesse infettato l’Occidente... E che se non sapranno opporre un’alternativa al nuovo virus che giunge oggi a loro da oltre-Atlantico, gli europei potrebbero davvero subire a loro volta la sorte dei «nomadi del mare».
(…)
da Diorama Letterario, gennaio 1988, pagina 25

mercoledì 11 marzo 2009

Ma Aristotele non viene dall'Islam

Il Sole 24 Ore, 04/05/2008
Ma Aristotele non viene dall'Islam
Uno studioso francese sostiene che il pensiero greco classico è arrivato dai cristiani d'Oriente. E gli esperti si dividono
Marco Filoni


di Marco Filoni A prima vista sembra uno dei tanti "casi" editoriali. Un affaire francese, finito però sui giornali di mezzo mondo. Del resto vale sempre la vecchia regola non scritta: bene o male, l'importante è che se ne parli. Così un dotto saggio storico, che normalmente verrebbe letto da qualche decina di specialisti, in poche settimane moltiplica le vendite e vede schierarsi su due fronti detrattori e appassionati difensori. La cosa si complica visto il tema fondamentale che investe: ovvero le radici dell'Europa e della sua civilizzazione. Tutto nasce con un volume di Sylvain Gouguenheim. Professore di storia medievale a Lione, specialista di mistica renana e cavalieri teutonici, ha mandato in libreria Aristote au Mont Saint-Michel. Les racines grecques de l'Europe chrétienne, per l'editore Seuil. La tesi, banalmente riassunta, suona più o meno così: il debito che l'Occidente cristiano ha nei confronti della civilizzazione musulmana è stato enfatizzato in maniera impropria. Al contrario, la scoperta e la trasmissione del pensiero greco classico si deve ai cristiani d'Oriente. L'ipotesi centrale è infatti che la cristianità medievale ha avuto una conoscenza diretta del sapere greco, poiché le relazioni fra mondo latino e Impero bizantino sarebbero ben più importanti di quanto le fonti disponibili hanno finora lasciato supporre. In particolare Gouguenheim si sofferma sulla figura di Giacomo da Venezia, vescovo che visse a Costantinopoli poi monaco all'abbazia di Mont Saint-Michel: egli tradusse gran parte delle opere aristoteliche dal greco al latino all'inizio del XII secolo, cioè decenni prima che comparissero le versioni arabe nella Spagna dei Mori. La conclusione è semplice: la storia della cultura europea deve davvero poco all'Islam, mentre le sue radici risiedono nella cristianità. Se l'audacia della tesi è stata elogiata da due importanti supplementi culturali francesi (>>Le Monde des livres<<>>Figaro littéraire<<), molti illustri storici e filosofi medievalisti si sono mobilitati contro. Sono nate petizioni firmate da studiosi prestigiosi, e in pochi giorni le critiche a Gouguenheim si sono moltiplicate. Anzitutto sulle presunte "scoperte", che in realtà ripropongono un dibattito già avvenuto a cavallo fra XIX e XX secolo (l'importanza di Giacomo da Venezia e dell'abbazia di Mont Saint-Michel è stata ampiamente studiata). La ricostruzione sarebbe dunque tutta di seconda mano e incurante della ricerca contemporanea che parla di translatio studiorum; al punto che il titolo stesso del libro è ricalcato da un saggio di Coloman Viola del 1967! Nonostante il libro contenga elementi incontestabili, parlare di un >>mondo cristiano medievale<<>>avrebbe seguito un identico cammino anche in assenza di qualsiasi legame con il mondo islamico<<. Alcuni studiosi, come Alain de Libera, hanno denunciato l'aspetto ideologico delle ricerche di Gouguenheim. È infatti nell'ultimo capitolo che egli sembra voler postulare, in maniera un po' caricaturale, la contrapposizione fra un Oriente islamico limitato dai principi coranici e un Occidente cristiano tutto orientato verso la razionalità. E la denuncia di un pamphlet tutt'altro che innocente viene anche dalla scoperta che ampie parti del libro erano state pubblicate mesi fa su >>Occidentalis<<, un sito di >>islamo-vigilanza<<>>minaccia fascista islamica<<. Nasce allora il dubbio che il vero scopo del libro sia quello che rivela, magari inconsapevolmente, l'entusiasta recensore del >>Figaro<<: >>Ci congratuliamo con Gouguenheim per aver avuto il coraggio di ricordare che vi fu un crogiolo cristiano medievale, frutto delle eredità di Atene e di Gerusalemme. Quando l'Islam non aveva ancora proposto i propri saperi agli occidentali, è stato questo incontro, al quale si deve aggiungere il lascito romano, che come ci dice Benedetto XVI "ha creato l'Europa e resta il fondamento di ciò che, a ragione, chiamiamo Europa"<<.

Le tesi provocatorie di Sylvain Gouguenheim in un libro

La Repubblica 11.3.09
Le tesi provocatorie di Sylvain Gouguenheim in un libro
Aristotele e l’islamofobia
di Franco Volpi

Alla sua uscita in Francia il libro di Sylvain Gouguenheim appena tradotto con il titolo Aristotele contro Averroè (Rizzoli, pagg. 195, euro 16) ha sollevato un polverone. Non solo stroncature, ma addirittura due petizioni: una pubblicata da Libération, che raduna le firme di storici e intellettuali illustri, tra cui Carlo Ginzburg; un´altra sottoscritta da circa duecento docenti e studenti dell´École Normale Supérieure di Lione, dove l´autore insegna Storia medievale. Nel frattempo, sull´«affaire Aristote» c´è un´intera sitografia.
La ragione dello scandalo sta nella provocatoria tesi che Gouguenheim avanza circa una vexata quaestio: chi trasmise alla cristianità latina il patrimonio della filosofia e della scienza greco-antica? La storiografia tradizionale non ha dubbi: il merito va ascritto agli arabi, che svolsero una preziosa opera di mediazione diffondendo in Occidente gran parte del sapere antico, in particolare il corpus degli scritti di Aristotele, che fu tradotto dal greco al siriaco, dal siriaco all´arabo e dall´arabo al latino. Una tradizione araba racconta addirittura che il «maestro primo» � diventato in Dante il «maestro di color che sanno» � apparve in sogno al califfo al-Ma´mûn, che nell´830 fondò a Bagdad la «Casa della sapienza», uno dei centri più importanti per la traduzione dei testi greci.
Gouguenheim contrappone una diversa ricostruzione. Egli sostiene che il contatto con la filosofia e la scienza greche fu ristabilito ben prima dell´arrivo degli arabi ad opera di eruditi cristiani, latini, siriani e greco-bizantini. In particolare, assegna un ruolo decisivo ai monaci dell´abbazia di Mont-Saint-Michel, capeggiati da Giovanni Veneto, che già agli inizi del XII secolo, dunque circa mezzo secolo prima degli arabi, tradussero quasi tutto Aristotele.
Dietro un´erudizione apparentemente innocua, si nasconde un «negazionismo» pesante, cioè la tesi che l´Occidente cristiano non dovrebbe nulla agli arabi. In certi passaggi Gouguenheim lascia addirittura intendere che la filosofia e la scienza parlano in greco e in latino, mentre la cultura araba, già per ragioni linguistiche, risulterebbe «handicappata». Se si aggiungono i ringraziamenti che egli rivolge a intellettuali di destra, come René Marchand, non è difficile capire perché i firmatari lo hanno attaccato con veemenza. L´accusa è che le sue tesi fomentano lo scontro di civiltà, se non addirittura l´islamofobia.

sabato 7 marzo 2009

Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio

Liberazione 5.3.09
A cent'anni dalla nascita un convegno ricorda il grande studioso. A inaugurare i lavori il presidente Napolitano
Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio
di Alberto Burgio

Da domani parte il convegno di tre giorni dedicato a Eugenio Garin. Dal Rinascimento all'Illuminismo" a Firenze (Palazzo Vecchio e Palazzo Strozzi). A inaugurare i lavori anche Michele Ciliberto (presidente dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento). In anticipazione uno stralcio della relazione di Alberto Burgio "Rousseau: una teodicea post-cristiana"


In un testo molto caro a Garin, Il problema Jean-Jacques Rousseau (1932), Cassirer scrive che Kant «attribuisce a Rousseau nulla di meno che il merito di avere risolto il problema della teodicea». Tradotto in termini storici (etici, sociali, politici), il problema del male (dell'errore, della violenza, dell'ingiustizia, dell'egoismo distruttivo) non ha più nulla di trascendente; si configura come risultato del cattivo uso della libertà, quindi del pervertimento della ragione: della sua scissione dal sentimento morale e della sua conseguente regressione ad astratto raziocinio, a mero intelletto riflettente. 
Per contro, la ricomposizione della razionalità nella sua pienezza e concretezza (ragione e sentimento morale, raison e conscience ) restituisce le condizioni per il buon uso della libertà, nel segno dell'amore dell'ordine e del bello, quindi dell'armonia, della giustizia e dell'unità dell'uomo con se stesso e degli uomini tra loro nella Cité .
Tutto questo Garin riprende riconoscendone il merito all'«illuminante saggio» di Cassirer (quindi a Kant), ma anche ad altri protagonisti della rinascita rousseuaiana negli anni Sessanta (sulla scorta del bicentenario del Contrat e dell' Émile ), a cominciare da Derathé, Starobinski e Gouhier, e, per quel che riguarda Italia, da Paolo Casini. Garin tiene a segnalare altresì un altro tema che si pone lungo questa linea, ma la sviluppa ulteriormente (sempre nel segno della storicità e dell'immanenza assoluta quale sfondo della possibile unità dell'esperienza e del pensiero). È un tema importante, che serve a leggere meglio Rousseau, ma illumina anche la prospettiva dello storico che ne studia l'opera: parla delle sue fonti e, forse, delle sue esigenze più propriamente teoriche (in qualche modo legate alla sua stessa vicenda biografica). Garin vede che in tanto la questione del male può essere (da Rousseau) sottratta all'ipoteca della teologia e riportata sul terreno della storia (quindi sotto la piena giurisdizione dell'uomo e della sua azione razionale e responsabile) in quanto (per Rousseau) semplicemente la natura umana non esiste: l'umano è in tutto e per tutto storico, frutto di artificio e di scelta.
È interessante: proprio in questi anni Garin si trova a svolgere osservazioni del tutto analoghe a proposito di un altro suo autore: il Giovanni Pico del De hominis dignitate , del quale mette in risalto una tesi - l'idea, appunto, «che una natura umana non c'è, […] che il […] destino [dell'uomo] è libero atto di scelta», cha la sola "natura" di cui si possa parlare a proposito dell'uomo è «progetto e non destino» - in tutto simile a quella che scopre in Rousseau.
E si potrebbe aggiungere che Garin legge in Rousseau un tema che a sua volta Gramsci aveva posto in evidenza in Marx, ritenendolo essenziale ai fini della radicalità della sua prospettiva critica: «l'innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli - così si esprime Gramsci nei Quaderni - è la dimostrazione che non esiste una "natura umana" fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto […] come un organismo in isviluppo».
Vale la pena di riportare il passaggio dell' Introduzione agli Scritti politici di Rousseau nel quale Garin introduce questo elemento, per la forza con cui enuncia l'argomento e ne segnala l'importanza: «Dio non entra, in nessun modo, né nella colpa né nella sventura dell'uomo. Solo che, e questo è il passo decisivo che non emerge né in Kant né in Cassirer, nella prospettiva di Rousseau Dio non entra nel peccato originale, non tanto perché è dalla società che ha origine il male, quanto perché dalle mani di Dio neppure l'uomo è uscito. L'uomo del male e del bene, delle leggi e del diritto, del linguaggio e della cultura, è l'uomo della società, indisgiungibile dalla società: e l'uomo della società è l'homme de l'homme ». Insomma, la geniale soluzione del problema consiste (e Garin lo dichiara con la stessa veemenza con la quale nei primi anni della sua ricerca aveva affermato la centralità del divino) nella totale, assoluta negazione (o estromissione) di Dio in quanto l'uomo di Rousseau è creatore di se stesso.
In questo senso Garin rileva come Rousseau si ponga, trascrivendolo «in termini tutti mondani» (cioè affidandolo a un «rinnovamento» degli uomini e dei loro rapporti reciproci), proprio «quello che era stato per il Cristianesimo il problema della salvezza» - precisamente come si pone, «ridotto in termini integralmente umani», il problema della teodicea e dell'origine del male e del peccato. Nella religione rousseauiana dell'immanenza (una «religione umana e sociale»), la storia è ri-creazione, metamorfosi (de-naturazione e generazione di una natura rinnovata): autopoiesi umana (anche questo, a ben guardare, un tema gramsciano, che circola in molte pagine del quaderno su Americanismo e fordismo ). Per Garin questo riorientamento della prospettiva morale e politica (e persino ontologica) in una chiave di radicale storicità rappresenta la conseguenza più rilevante della secolarizzazione rousseauiana della teodicea.
Storia e politica, dunque, come auto-creazione. Massima libertà e massima responsabilità: termini ricorrenti, come in una endiadi, già nella prima fase della ricerca gariniana, ma ora declinati in univoco riferimento all'orizzonte del mondo storico e dell'agire politico. Un tema ambivalente: nel quale è inscritta anche la solitudine dell'uomo; ma che per il momento Garin declina (ancora) in positivo: di Rousseau mette in risalto l'idea del possibile riscatto, della palingenesi che si compie attraverso l'«alienazione totale» imposta dal contratto e attraverso la «frattura assoluta rispetto al divenire storico» che conduce a un nuovo inizio nel segno dell'armonia e della piena autonomia del corpo sociale. [...]
Garin rilegge Rousseau e si sofferma sulla sua opera (nel testo più importante che ha prodotto sull'argomento) in un momento della sua vita in cui è ancora fiducioso nella possibilità di trovare una via d'uscita dalla rovina, dalla violenza e dall'assenza di senso dell'esistenza. Come Gramsci, anche se, certo, con minore impatto, Rousseau - per la sua «alta e vigorosa ispirazione morale» - è un'àncora. L'importanza di Rousseau consiste nell'indicare una strada per ritrovare (in realtà, per costruire ex novo ) l'unità della persona e della compagine umana: il suo è un pensiero della libertà nel segno dell'operare costruttivo; un pensiero della politica e della storia inscritto nell'umanesimo reale e integrale che Garin viene elaborando sulla scia di Gramsci in una temperie storica (civile e politica) che ancora gli pare consentire uno sguardo fiducioso sul futuro, la fiducia nell'«azione riformatrice della volontà» e della razionalità individuale e collettiva (morale, etica e politica).
Se questo è vero, c'è qui un elemento drammatico: alla fine degli anni Sessanta Garin sembra rivolgersi a Rousseau come per un estremo tentativo: per tenere aperta una prospettiva che sta invece per chiudersi; di lì a poco (già nel corso degli anni Settanta) l'equilibrio dinamico e costruttivo che aveva sostenuto la sua attività nella fase dell'Umanesimo civile si incrinerà, sino a spezzarsi del tutto, per lasciare il campo a una crisi profonda: si affermerà allora una Stimmung segnata dal disincanto e dal nichilismo: la vita parrà senza senso e senza significato, un gioco degli dei, del cui capriccio l'uomo è in balia.
Allora non vi sarà più possibile unità, né ricomposizione: esistere significherà dibattersi in un caos di frammenti. A quel punto Rousseau, nonostante la sua «fede operosa», anzi, forse proprio in ragione di essa, non avrà più nulla da dire.

lunedì 2 febbraio 2009

Torna la stampa nazi la Germania si divide sui giornali di Hitler

La Repubblica 2.2.09
Ripubblicate alcune testate del regime La comunità ebraica insorge: propaganda
Torna la stampa nazi la Germania si divide sui giornali di Hitler
di Andrea Tarquini

BERLINO. La ristampa dei media nazisti di quando Hitler dette la scalata al potere spacca la Germania. E ancora una volta, il passato del Terzo Reich divide la prima potenza europea. L´editore Peter McGee ha lanciato sul mercato Zeitungszeugen, una serie di fascicoli settimanali su quell´epoca con annesse ristampe del Voelkischer Beobachter e di Der Angriff, le massime testate dei nazionalsocialisti, ma anche di giornali della Spd e del Partito comunista tedesco. Tutto accompagnato da commenti di storici scevri da ogni sospetto di revisionismo, per narrare e documentare il clima di guerra civile. Ma le autorità bavaresi, competenti in materia, hanno vietato la pubblicazione. Che è uscita con sovraimpresso come un timbro "Censurata". McGee non demorde, adisce alle vie legali. Media e opinione pubblica si dividono: la comunità ebraica è per il divieto, storici dell´autorevolezza del celebre Hans Mommsen, vicino alla Socialdemocrazia, sono contrari. E non pochi denunciano il rischio di aprire volenti o nolenti, col divieto, uno spazio al principio della censura.
«Il progetto che io guido è una cosa seria, non un trucco per offrire propaganda ai neonazisti», dice McGee. Che offre ai potenziali lettori anche buoni per poi acquistare gratis le ristampe dei giornali dell´epoca (tra il 1930 e il 1933), nel caso in cui egli come spera si vedrà dare ragione dalla giustizia. Sul lato opposto della barricata è schierata la comunità ebraica. Secondo cui la ristampa apre il rischio di offrire materiale di propaganda ai gruppi neonazisti e a ogni corrente di un antisemitismo che secondo gli ebrei tedeschi è «in allarmante crescita». «No, non è propaganda, è serio contenuto storico commentato a dovere», replica Hans Mommsen. E accusa il segretario generale del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Kramer, di «non capirci nulla».
Come andrà a finire? Il pubblico, di uno schieramento o dell´altro, attende con ansia di saperlo. Un compromesso è difficile, anche per ragioni giuridiche. Dopo la vittoria della coalizione antinazista degli Alleati contro l´Asse, le autorità liberatrici- (e amministratori occupanti) americane affidarono al ministero delle Finanze dello Stato di Baviera, uno dei Bundeslaender della Repubblica federale. La competenza per tutta la parte libera della Germania sui copyright su ogni testo nazista affidandogli il compito-dovere di impedirne ogni abuso a fini di propaganda nostalgica. Con serietà inflessibile tipicamente tedesca, le autorità bavaresi hanno immediatamente bloccato dunque la ristampa dei testi da parte di McGee.
Chi ha ragione? La domanda spacca trasversalmente media, partiti e società in Germania. Certo, qualcuno sospetta che sotto sotto il signor McGee veda nella ristampa di giornali nazisti dell´epoca anche fini di lucro: "NS sells", scherzava ieri Welt am Sonntag, cioè "il nazismo si vende bene". Normale per un editore. La tesi è la seguente: non solo lettori aderenti alla galassia neonazista o di ultradestra, ma anche altre parti del pubblico possono subire il fascino del frutto proibito. Cioè appunto di comprare ristampe di testi che dal dopoguerra sono assolutamente vietati.
Insomma, il partito del no sostiene che non sia indispensabile a fini di ricerca storica ristampare quelle testate naziste di allora, specie a fronte del rischio di fare un favore ai neonazisti. Ma il partito del sì ha anche i suoi argomenti. Esperti della fama dello stesso Hans Mommsen, di Wolfgang Benz o di Peter Longerich difendono il valore storico del progetto editoriale di McGee. Gli storici democratici e liberalconservatori tedeschi sperano che, se McGee la spunterà, si rafforzerà la loro richiesta respinta da anni, di pubblicare in Germania il Mein Kampf come edizione critica adeguatamente commentata. Insomma secondo loro il diritto all´informazione deve far premio sul rigore etico a tutti i costi della censura. La seconda guerra mondiale è finita da oltre 60 anni, la guerra delle ristampe continua.
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commento:
la censura non serve a niente, anzi prova un interesse morboso per le cose che vengono censurate. Se uno stato e/o una società fosse in grado di essere di sostegno alla formazione della visione del mondo delle persone... non vi sarebbe la necessità di vietare nulla.
Tutti hanno il diritto di formarsi il loro giudizio sui documenti originali. I 2000 anni di monoteismo hanno dimostrato cosa possa generare il lasciare ad alcune persone il diritto di interpretare i testi.