sabato 29 marzo 2008

«L'esilio degli ebrei, un mito». Uno storico scuote Israele

Corriere della Sera 29.3.08
La tesi di Shlomo Sand: è solo parte dell'ideologia nazionalista e sionista. «La diaspora? Convertiti». Polemiche e dibattiti, il libro è tra i più venduti
«L'esilio degli ebrei, un mito». Uno storico scuote Israele
di Davide Frattini

È come il sesso: non se ne parla davanti ai bambini. Cari colleghi, voi lasciate che i piccoli imparino falsità: è ora di parlare di sesso

GERUSALEMME — I bambini israeliani la imparano a memoria: «Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno e nel ripristino della sua libertà politica». È la Dichiarazione d'indipendenza, insegnata nelle scuole da quando David Ben-Gurion la firmò il 14 maggio di sessant'anni fa. Parole che un professore dell'università di Tel Aviv ha deciso di smontare come «mitologia nazionalista». Il suo saggio è entrato in due settimane nella classifica dei cinque più venduti, al primo posto tra i più discussi e criticati. In 297 pagine, Shlomo Sand sostiene che gli ebrei non vennero esiliati dai romani dopo la distruzione del Secondo tempio: gli ebrei della Diaspora sarebbero i discendenti di popolazioni locali convertite. Racconta la storia della regina berbera Dahia al-Kahina, che scelse la religione ebraica per sé e la sua tribù nordafricana, combattè gli assalti dei musulmani e dal Maghreb emigrò in Spagna per dare origine alla comunità. Gli ashkenaziti dell'Europa orientale deriverebbero invece dai rifugiati del regno cazaro, che si erano convertiti nell'ottavo secolo. «Il paradigma dell'esilio — spiega — serviva per costruire la storia del vagabondaggio tra mari e continenti, fino all'idea sionista che permise un'inversione a U e il ritorno alla terra d'origine». «È uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati in questo Paese da molto tempo», commenta lo storico Tom Segev. L'università di Tel Aviv ha organizzato un dibattito pubblico per affrontare le tesi controverse del saggio, intitolato «Quando e come il popolo ebraico venne inventato». Sand si è difeso dagli attacchi, che sono arrivati da destra e da sinistra. I professori di formazione marxista lo hanno accusato di ignorare la storia economica degli ebrei, gli altri docenti lo hanno bollato come antisionista. Dina Porat, storica dell'Olocausto, gli ha detto di aver completamente trascurato la realtà politica dopo la Shoah. Tutti lo hanno criticato per essere uscito dal suo campo e per non aver consultato le fonti originali, visto che insegna e studia la Storia del Ventesimo secolo, in particolare quella francese. Lui ha chiuso trattando di «sesso»: «I genitori non ne parlano davanti ai bambini. Aspettano che vadano a dormire. Cari colleghi, voi sapete quanto me che non c'è stato nessun esilio, ma lo sussurrate solo tra di voi. Voi lasciate che i bambini imparino falsità. È ora di parlare apertamente di sesso».
Come altri «nuovi storici» israeliani, Sand vuole erodere «le fondamenta del progetto sionista». Sa che il suo libro mette in discussione «il diritto storico a questa terra, alla legittimità del nostro essere qua». Non è si è fermato al 1948 o alla fine dell'Ottocento, è andato indietro migliaia di anni. Tenta di dimostrare che il popolo ebraico non ha avuto un'origine comune ed è un mix di gruppi che in varie fasi hanno adottato l'ebraismo: «Quella che si è diffusa nel mondo — spiega — è la religione, non la gente». Così i discendenti del regno di Giuda sarebbero piuttosto i palestinesi. «Nessuna popolazione rimane pura durante un periodo tanto lungo — commenta al quotidiano Haaretz — ma i palestinesi hanno più possibilità di me di essere imparentati con l'antico popolo ebraico».
Definisce «perverso» il dibattito israeliano sulle radici: «È etnocentrico, biologico e genetico». L'obiettivo del suo saggio è politico. Sand sostiene uno Stato binazionale, da dividere con i palestinesi, e dice di trovare difficile vivere in un Paese «che si definisce ebraico». «Per me è un paradosso. Uno Stato deve rappresentare tutti i suoi cittadini. I miti che riguardano il futuro sono meglio delle mitologie introverse del passato. Bisognerebbe ridurre i giorni di commemorazione e aggiungere cerimonie dedicate a quello che verrà».

venerdì 28 marzo 2008

Per una cultura armonica

Per una cultura armonica
Ma a qualcuno viene il dubbio che la vita da formica non sia delle più eccitanti. Dubbi da asociali. Comunque un buon punto di partenza. Il rimettere in discussione tutto, Il cercare le origini o i collegamenti kiù arcani. Ma ci vuole coraggio. Perché andare a cercare qualcosa nei propri « ricordi » fuori del tempo o nella visione annebbiata del sogno, quando c’è il collegamento ininterrotto de « l’umano Intelletto »? Libri di storia, verità unanimemente accettata, per chi volesse ricordare qualcosa; libri di filosofia, oggettivazionc di soggettiva elucubrazione, per chi volesse capire qualcosa. Sfruttare il doloroso parto intellettuale di altri e adattarvisi o adattano ai tempi. Il gioco è fatto e non c’è pericolo di perdersi. Forse è vero, non ci sarà il pericolo di perdersi, ma c’è pure la sicurezza di non « ritrovarsi »! Migliaia di amleti piangono sulla tomba del padre, il dolore è sincero; chi s’accorge che il fantasma del re altro non è che una voce fuori campo? Lo sguardo vaga nel vuoto, le mani si aggrappano al nulla. L’umana filosofica scienza ha vinto, ha perso l’uomo. Al diavolo i Golem e chi se li crea per farsi terronizzare. Mister Hyde fa paura pure al dottor Jeckil. C’è da ridere, o da piangerci sopra. La cultura accettata come una astratta entità oggettiva. Con sottomissione di schiavo a padrone. Nuovi dei dalle fauci terrifiche per nuovi fedeli dal cuore di scimmia.
Linguaggio, armonia, comunicare ed essere. Un’intricata rete di ragno, né se ne può venir fuori con una bella masturbazione intellettuale. Non sono mille pagine scritte fitte fitte a riattivare la funzione armonica. Ad uomini che cerchino l’integralità si impone la ricerca del vero significato di « cultura », né la risposta va cercata lontano. « Nel tagliare il manico per una accetta il modello non sta lontano » dice Confucio, lo teniamo stretto nella mano destra. Il seme di melo piantato non è il frutto rosso, ma una analogia ed un legame al di fuori del tempo li unisce. Coltivazione, cultura. Chi nella mela che sta addentando non sa vedere il seme gettato, per caso, dal vento, rinunci alla ricerca del « centro ». E un discorso « culturale » non può essere fatto al di fuori di questo sottile filo di collegamento. Un filo per uscire dal labirinto, non una matassa che ci impedisca di camminare. Se la « Cultura » avrà que
sta funzione immenso è il lavoro che ci attende; nel caso contrario, una scatola di fiammiferi, un bel fuoco, rosse fiamme alte da un cumulo di libri inutili o dannosi; pel forte calore il libro s’apre, le pagine sfogliandosi ed accartocciandosi da sole la farsa grottesca concludono.

martedì 25 marzo 2008

La Chiesa e il crimine della pedofilia: anche per il nostro Paese è il momento della verità

L’Unità 25.3.08
Dopo «Sex, crimes and Vatican», documentario Bbc, e in attesa del processo a don Gelmini, Vania Lucia Gaito raccoglie in un libro le voci delle vittime
La Chiesa e il crimine della pedofilia: anche per il nostro Paese è il momento della verità
di Emiliano Sbaraglia

«Crimen sollicitationis» è la direttiva che dal ‘62 ha tacitato lo scandalo

Ricostruzione molte volte esemplare attenta ai gesti alle parole all’ambiente

Dal 13 marzo è in libreria Viaggio nel silenzio. I preti pedofili e le colpe della Chiesa (chiarelettere, pp.273, €13), un’inchiesta che colpisce cuore e stomaco del lettore, scritta da Vania Lucia Gaito, collaboratrice del blog di controinformazione «Bispensiero» per il quale, nel maggio del 2007, ha sottotitolato il documentario trasmesso per la prima volta dalla Bbc dal titolo Sex, Crimes and Vatican, al centro di una infuocata puntata di Anno Zero sul tema della pedofilia negli ambienti e tra i rappresentanti del mondo cattolico. Un dramma sociale, oltre che etico e morale, che ora questo libro colloca senza vie di fuga anche nel nostro paese, toccato nel profondo attraverso una serie di testimonianze dirette aumentate in maniera esponenziale in questo ultimo anno.
La realtà dei fatti è stata tenuta nascosta dal Vaticano per decenni, grazie soprattutto allo strumento del Crimen sollicitationis, documento scritto in latino, dunque destinato in primis soltanto agli «addetti ai lavori» (come nelle migliori abitudini della peggiore tradizione ecclesiastica) attraverso il quale, a partire dal 1962, le autorità ecclesiastiche recapitano ai vescovi di tutto il mondo una sorta di vademecum, con l’intento di non rendere pubbliche notizie e informazioni che potrebbero mettere sotto accusa di pedofilia preti e altre categorie clericali, almeno fino a quando ad indagare non sia stata per prima la Chiesa stessa; di questo documento, per circa vent’annim si è principalmente occupato l’allora cardinale Ratzinger, verificandone il funzionamento e il rispetto da parte dei vescovi dei dettami in esso contenuti.
Qualcosa sembra si stia finalmente muovendo in direzione della scoperta di molte verità sinora occultate, e una dimostrazione ne è anche la pubblicazione di questo volume, che raccoglie con impressionante meticolosità le voci le storie di coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di superare paure e rimozioni più o meno volontarie, per raccontare i particolari agghiaccianti di vite per sempre segnate da terribili esperienze, fisiche e psicologiche.
Pescando nel torbido bosco delle numerosissime testimonianze contenute nel libro, si incontra tra le altre la vicenda che ha coinvolto Don Gelmini, tornata alla ribalta delle cronache nazionali pochi mesi fa. A proposito della quale si ricordano anche le strenue difese che alcuni organi di informazione hanno ospitato, come quella di Vittorio Messori, che su La Stampa dell’undici agosto scorso non aveva remore nello scrivere frasi di questo tenore: «E allora? Se Don Gelmini avesse toccato qualche ragazzo? E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia?» (p.44).
In questa Italia così tanto impegnata a difendere i valori della vita sin dal suo concepimento, forse sarebbe il caso di porre una certa attenzione e impegnarsi con la stessa solerzia anche a difesa della sorte di tanti bambini e adolescenti, colpiti e violentati nel corpo e nella mente da chi del loro corpo e della loro mente dovrebbe occuparsi in ben altro modo.
Una battaglia tanto sofferta quanto complessa, che il lavoro di Vania Lucia Gaito dimostra essere non più rinviabile a data da destinarsi.

sabato 22 marzo 2008

Quando un bel quadro ci lascia senza parole

l’Unità 22.3.08
Quando un bel quadro ci lascia senza parole
di Giuseppe Montesano

È POSSIBILE spiegare o raccontare un’immagine? Tentano di rispondere a questa domanda Emilio Villa, Didi-Hubermann, John Berger e Simon Schama. Nei loro libri punti di vista diversi su ciò che non è nato per farsi scrivere

Scrissi d’Arte: così potrebbero dire critici e poeti che hanno tentato di spiegare o raccontare le immagini dell’arte. Ma si può scrivere di ciò che è stato fatto per non essere scritto, di ciò che è stato fatto perché non poteva o forse non voleva essere scritto, di ciò che ha scelto o è stato scelto da immagini non alfabetiche per esistere? Un libro che è un piccolo grande evento, ci sprofonda in questa domanda: l’autore è Emilio Villa, poeta oscuro e mitologico nonché traduttore famoso dell’Odissea e meno noto traduttore della Bibbia, il titolo del libro è Attributi dell’arte odierna 1947/1967 e si tratta di una riedizione del volume uscito per Feltrinelli nel 1970 accompagnato da una serie di scritti di Villa inediti in volume, raccolti e introdotti da Aldo Tagliaferri. Il libro esce nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, e sembra una perfetta illustrazione di quella via della scrittura che Cortellessa chiama lucrezianamente la fisica della poesia. In queste pagine su Fontana, Pollock, Cy Twombly, Burri, Rothko, Manzoni, alla domanda se sia possibile scrivere d’arte, Villa risponde di sì: ma non scrive d’arte, scrive dall’arte, parla arte, scrive sé, e infine scrive e basta: un atto fisiologico, una secrezione.
Citarlo sarebbe un abuso, le sue frasi e i suoi pensieri non sono analitici ma analogici, tentativi di rivivere in parole il magma che schizza o cola sulle tele di Pollock e di Burri: e il suo scrivere è uno svenarsi di voci che si condensano e si accumulano iterative, forzando le separazioni tra le lingue, in un francese di jeux de mots, attraverso calchi latini, greci, ebraici, e in un italiano che spreme Barocchi e Rondisti come in un Finnegan’s Wake che abbia rinunciato per sempre alla trama. Come un parassita accoccolato nelle opere che succhia, un parassita sublime che si nutre di mutezza, sospinto dai verbi verso una sognata origine, immerso in un luogo che solo forse è quello degli artisti, Villa tiene sott’acqua la sua lingua nella disperata ricerca di ritrasformarla in uterina, incosciente e oscuramente naturale come la materia che lo ha ispirato: a scrivere Arte, non a scrivere d’Arte.
Completamente diverso è il modo in cui Didi-Hubermann si avvicina a ciò che è nato per non farsi scrivere, come dimostra l’ultimo libro tradotto da Fazi: Il gioco delle evidenze, un libro irto e teso, il cui titolo originale suona Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, una specie di: «Quel che vediamo, quel che ci guarda e ci riguarda». Aggirandosi tra i monoliti minimalisti di Robert Morris e Tony Smith, Didi-Huberman procede nella sua classica discesa al di sotto delle apparenze ma sapendo che le cose dell’arte sono impastate nell’apparenza: lo fa con un linguaggio a volte stucchevolmente sottilizzante molto post-Bataille-Blanchot-etc. e a volte illuminante, e lo fa secondo lo schema dell’astrazione filosofica, cercando nel luogo della più cieca e impenetrabile apparenza perseguita dall’arte l’elemento trasparente, conoscitivo.
Ma allora è possibile scrivere d’Arte?
Dalle immagini viene una forma di ottusa chiusura che forse è necessaria alla loro stessa esistenza, una chiusura che rifiuta la chiarezza conoscitiva della filosofia e accetta, con la pazienza di un bue che tollera le mosche che lo covano, le parole della poesia. Gli artisti, che lavorano con quelli che restano in ogni caso dei simulacri, tendono a levare le parole di bocca a se stessi per primi e poi agli altri: le immagini, o la loro distruzione, o la loro riduzione all’assurdo, volgono le spalle al parlare e scrivere: e forse si sottraggono anche al pensare dove il pensare è, come è nella tradizione di tremila anni e fino a oggi, inseparabile dal linguaggio. Ma allora dove vorrebbero stare i fabbricatori di immagini? Qual è la loro straordinaria e ingenua pretesa? Forse essi vogliono sottrarsi al significato, e attraverso questa azione non difficile, compiere poi l’operazione più ardua: sottrarsi al senso. Gli artisti ripetono il mantra di fuga dalle parole: la pittura è quello che vedete, questo oggetto è se stesso e nient’altro, non c’è niente da dire, dite quel che volete, è tutto vero, non è vero niente. Che cosa esprime questo sottrarsi? È la fuga dal metaforico che sta al cuore del verbale ma forse anche del vivente, quel metaforico che di analogia in analogia moltiplica il senso e lo perverte polimorfo, fino a mostrare nell’evidenza più assoluta e insieme ambigua che il mondo non è una cosa ma è connessione, rete, relazione, e che la legge dell’arte come poesia o romanzo o scrittura o musica sta in un motto: Only connect.
Ma l’arte delle immagini, che ha a che fare con l’apparenza sensibile delle cose, pretende di essere Natura, di farsi cosa della Natura e così di sottrarsi alla perversione della metafora: le figure geometriche di Tony Smith vogliono essere natura come Brancusi voleva che fossero natura le sue forme, e quando Robert Morris fa arte con il vapore, ancora pretende in forma radicale che l’arte faccia Natura. È il sogno illusorio della fine dell’antropomorfismo nel gesto di un’arte che metta la cosa al posto della parola: in una ricerca di quel silenzio sapienziale evocato e distrutto da Beckett, là dove risuona implacabile il disco incantato e orribilmente estatico dell’Innomable: «Non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, non posso continuare, continuo». Quel silenzio attira la parola come la bellezza della Lulu di Wedekind attirava la violenza del suo adorato assassino: la ferita che Fontana infligge alla superficie, le ustioni a cui Burri sottopone plastiche e sacchi vogliono scendere sotto la coscienza razionale, sono gesti primitivi che vorrebbero essere primari, come i colpi d’ascia con cui erano sbozzate le Demoiselles d’Avignon o il trauma ritmico del Sacre du Printemps: ferite afasiche che attraggono la parola a entrare in esse, a buttarsi nello squarcio non si sa se per colmarlo o per approfondirlo.
L’arte contemporanea più attenta è tutta occupata in un gesto straordinario e esteticamente possente, ma che nasconde in sé il teo-arcaico di chi non si rassegna a ciò che Marcel Duchamp scoprì ìlare e funerario scegliendo di segare il ramo su cui era seduto: indicando nel gesto del Barone di Munchausen che si tira dalla palude tirandosi per i capelli il suo stemma, e seppellendo prima che nascesse tutta l’arte contemporanea. Da allora non c’è forse più niente da vedere, e anche l’arte delle immagini o della loro sparizione nel gesto concettuale o della loro sopravvivenza nel gioco, deve rassegnarsi alla scoperta che se è vero come diceva Goethe che anche l’innaturale è Natura, è vero anche che tutto il visibile è sotto il dominio ambiguo della metafora, e nessuna creazione che ripristini l’origine è possibile: solo connessioni, mai più cose. Nel 1870 e dintorni Corbière aveva scritto profetico: Fu un vero poeta, non sapeva cantare...Pittore: amava la sua arte - dimenticò di dipingere… Vedeva troppo - E vedere è un accecamento. Ma quel troppo che resta da vedere all’arte è traboccante. La superficie è cieca e muta, ma la speranza dell’arte è tutta in quella superficie. L’accecamento che l’arte invoca quando è all’altezza del sapersi quasi impossibile, non è quello della materia o della natura o del theos: ma quello del lampo che toglie la vista e la cala nel buio per farla rinascere. L’accecamento che le immagini sognano è il risveglio che scoperchia i sarcofaghi, quando una voce balbetta dissennata ciò che non è mai stato prima e ciò che vive solo nel tempo in cui le parole lo fanno apparire: il pezzo di muro che splende nella Recherche non è una cosa, c’è solo nelle parole di Proust e in chi le dice. È in quel pezzo di muro che esiste solo nell’immaginazione che si realizza intera la promessa delle immagini?

mercoledì 19 marzo 2008

Ricerche. Gli archivisti-scrittori, Il processo alle streghe con i documenti veri

Corriere della Sera 19.3.08
Ricerche. Gli archivisti-scrittori, Il processo alle streghe con i documenti veri
di Enrico Mannucci

Lavoce delle streghe «ci viene tramandata da un notaio che verbalizza, traducendo parzialmente in volgare, quelle che erano le espressioni della loro lingua, un dialetto ostico composto di risonanze antiche». Che l'idea di un romanzo abbia bisogno di documentazione attenta l'ha dimostrato anche la letteratura di consumo. Più complesso l'opposto. È il tentativo avviato nel 1998 da un «collettivo» di archivisti con la collaborazione della Fondazione Mondadori e della Regione Lombardia. In pratica, estrarre una storia avvincente da una ricerca pignola quale può essere quella di un ricercatore abituato a frugare fra filze e faldoni polverosi. Riesce a Roberto Grassi, firma di punta del «collettivo» nonché archivista milanese, rileggendo le carte di un processo celebrato nel 1630 dalla corte criminale del Contado di Bormio contro due donne, madre e figlia — di Isolaccia, villaggio della Valdidentro — accusate di malefici vari contro persone e bestie. Il romanzesco sta in alcune licenze cronologiche, nell'evocazione di una contemporaneità illustre — la vicenda manzoniana — ma soprattutto nell'accurato recupero della storia in sé: «Nella superstizione degli intellettuali laici, nel fanatismo dei giudici civili. Questa storia sta nelle coscienze avvelenate da una religione crudele, in un secolo dominato dai demoni». C'è la tortura, c'è l'esecuzione delle imputate, ma c'è anche, nel ritratto delle accuse alle presunte streghe, più di qualcosa che rammenta il contorno dei delitti «condominiali» del nostro tempo.
ROBERTO GRASSI, La voce delle streghe, VIENNEPIERRE PP. 200, e 15

Heidegger. L’ossessione dell´Inizio. Escono i "contributi alla filosofia"

La Repubblica 19.3.08
Heidegger. L’ossessione dell´Inizio. Escono i "contributi alla filosofia"
di Antonio Gnoli

Era una sorta di sfida notturna che il pensatore sull´orlo del suicidio lanciava a se stesso e alle proprie frustrazioni: tutto poteva ricominciare
Si aggrappava a una verbalità fantasiosa con parole inconsuete
In questo periodo tormentato vedeva infiochire la luce di "Essere e Tempo"
Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva crescere solo nelle radici
Erano lontani i tempi in cui sbeffeggiava il kantiano Cassirer

Fu sul finire del 1935 che una nube di disperazione cominciò ad avvolgere la mente di Heidegger. Erano gli anni del delirio quelli che si annunciavano per la Germania, che aveva posato il proprio sguardo aggressivo sull´Europa e sul mondo sognando segrete rivincite. Pochi allora constatavano la presenza di un virus che avrebbe lentamente trascinato una nazione dal trionfo alla catastrofe. E quell´uomo - piccolo, duro, schivo, arrogante che, come dopo una tempesta metafisica , aveva prodotto le pagine scintillanti di Essere e Tempo - avvertiva che qualcosa stava sfuggendo alla presa ferrea del suo pensiero. Era il segnale per una ritirata: una guerra dello spirito si stava concludendo e un´altra più dolorosa sarebbe iniziata.
La baldanza con cui, solo un paio d´anni prima, aveva ordito, il discorso del rettorato, lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alla miseria del proprio tempo. Come un lancinante presentimento, egli avvertiva che la filosofia - che avrebbe dovuto illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze - non possedeva né la forza, né la lingua per assolvere a quei compiti. Si sentiva come un giocatore di poker cui la storia aveva letto il bluff. Esattamente a quel punto della vicenda egli non era un nazista deluso, ma un nazista incompreso. Lo avevano voluto a capo di una prestigiosa università, lo avevano caricato di un compito immane, il rinnovamento spirituale di una nazione, avevano sperato che fosse assimilabile a grandi progetti. E lui, aveva immaginato di poter prendere per mano il nuovo corso della storia, farne l´emblema di una filosofia che, malgrado tutto, aveva intuito - molto prima che l´hitlerismo diventasse il pane quotidiano dei tedeschi - quanto di inevitabilmente oscuro si nasconda nella gettatezza dell´esserci, ossia in quell´uomo radicato alla terra, senza una ragione precisa, né una meta da raggiungere.
Con Essere e Tempo - il capolavoro pubblicato nel 1927 - Heidegger si era inoltrato nella notte novecentesca. Aveva dondolato sugli abissi del pensiero, demolendo i grandi edifici della tradizione. Aveva "tradito" Husserl, aveva combattuto la sua personalissima battaglia contro le grandi macchine del pensiero, confidando nella forza selvaggia del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il mondo, con il vecchio mondo. Perché Heidegger si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si aspettava, quell´uomo, complicato, oscuro e tagliente, improvvisamente smarrì le certezze. La notte di granito nella quale si era avventurato sembrò improvvisamente più cupa, e aspra. Meno ospitale, anche per una natura ferina come la sua. Erano lontani i tempi di quando in tenuta da sciatore sbeffeggiava il kantiano Cassirer, erano lontani gli anni di una giovinezza trascorsa a cercare la radura a colpi d´ascia nei boschi della Foresta Nera.
Poco o nulla si capirebbe dei Beiträge (Contributi alla filosofia, curati splendidamente da Franco Volpi, traduzione di Alessandra Iadecicco e Franco Volpi, edizioni Adelphi, pagg 497, euro 60), pagine tormentatissime che Heidegger scrisse tra il 1936 e 1938, se non si tenesse conto del fallimento che il filosofo si era trovato a vivere. Non gli bastava che un corte variopinta di pensatori avesse visto in Sein und Zeit un´antropologia nuova e a suo modo originale. Lo infastidiva vedere crescere intorno alla sua figura il consenso, l´attesa, la venerazione.
Non si viveva come un santo da amare, un mandarino da ubbidire, un filosofo da capire. Era Heidegger, che con una mazza ferrata aveva demolito tre quarti abbondanti del pensiero che lo avevano preceduto. E ora quella mazza era riversa ai suoi piedi. Che cosa si illudeva di aver ottenuto? Che cosa gli restava da vedere? Tutto intorno c´erano rovine. E per l´ultima volta l´apocalisse del pensiero sembrò una cosa seria. Ma non si andò oltre. Perciò ricominciò con una furia rivolta contro se stesso e non solo verso gli altri. Al di là dei morti e feriti che aveva lasciato sul campo, i Beiträge erano la notturna sfida che Heidegger lanciò a se stesso, alle proprie frustrazioni. Cominciò ad accarezzare l´idea che una altra lingua potesse spezzare la catena dei suoi dubbi. Perciò ricominciò, tutto da capo.
Era ossessionato dall´Inizio. Se c´era un´origine di tutto, come renderne conto. Dopo il fallimento nel quale era incorsa la filosofia, come riuscire a pensare l´Inizio fuori dal perimetro della metafisica? Tutto ciò che Heidegger aveva fin lì pensato, scritto, divulgato, si mostrava inadatto a soddisfare la domanda. D´altro canto, rifondare un sapere, restituendogli quella sovranità che solo l´origine era in grado di legittimare, avrebbe richiesto un taglio netto con tutto quanto in passato si era pensato e prodotto. Quello che fece con barbara eleganza non bastò. Furono terribili quei mesi per Heidegger. Si trovava in un cul de sac, in una trappola che lui stesso aveva costruito. Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva «crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Pensò al suicidio come a una via d´uscita. La depressione incalzava, notturna come i suoi pensieri. La follia, quella stessa che aveva aleggiato sulle teste di Hölderlin, Kierkegaard e Nietzsche, sembrava approssimarsi. Costoro, commentò nei Beiträge, patirono lo sradicamento a cui è sospinta la storia occidentale. La stessa tonalità emotiva gli accadde di rivivere.
Solo pochi anni prima, gli era parso di intravedere la verità: selvaggia, brutale, luminosa. E quelle mani da contadino, forti e tozze, l´avevano raccolta, protetta, scagliata come un´ammonizione contro l´Occidente. Ma nel periodo tormentato dei Beiträge vedeva infiochire la luce scandalosa di Essere e Tempo. Non che quell´opera fosse da ripudiare, ma sempre più, ai suoi occhi, essa somigliava a un addestramento alla guerra, più che alla guerra stessa. Poco o nulla nel suo pensiero appariva disinvolto, leggero, veloce. Ossessiva la mente tornava alla lingua. Dove la vecchia terminologia non serviva più, là occorreva rifondare gli etimi, portare a nuova vita le parole. In quell´abisso di logore parole in cui era sprofondata la filosofia Heidegger si aggrappava a una verbalità fantasiosa. Lanciava espressioni inconsuete come "il salto", "il fendersi", "il gioco di passaggio", "i venturi". Somigliavano a fughe nate da uno spartito oscuro, con le quali distinguersi dai vecchi, ambiziosi e disonesti sistemi filosofici. Dai quali più nulla di decisivo si sarebbe appreso.
Heidegger conservò un singolare e tormentatissimo rapporto con la storia culturale dell´Occidente. Ne percepì con chiarezza le tensioni contraddittorie, scrutò il fondo limaccioso su cui le sue categorie poggiavano. Perfino la ricchezza concettuale, che da Platone e Aristotele in poi si era dispiegata dando vita alla tradizione, gli apparve simile a una costruzione che imprigionava piuttosto che liberare l´uomo. Occorreva un gesto radicale, un pensiero che agisse dall´interno, ma al tempo stesso sopravvivesse all´implosione. Egli lo ricondusse a una parola soprattutto, che pose come sottotitolo ai Beiträge, una parola che in quegli anni cominciò a fargli intravedere una possibile via di uscita: Ereignis, "Evento".
Nella nostra percezione, pensiamo l´evento come ciò che accade, e quell´accadere trattiene qualcosa di eccezionale. Nel linguaggio comune l´evento conserva qualcosa di irripetibile. Una manifestazione sportiva, un grande incontro musicale, il congiungersi di due amanti possono diventare altrettanti eventi. Heidegger dissolse la natura comune dell´evento e riportò la parola all´essenza stessa dell´esserci, alla sua finitezza, tanto più drammatica in quanto testimone della fuga degli dèi. L´Ereignis heideggeriano era ciò che stava nel mezzo tra il Dio che non c´è più e la storia dell´uomo che è finita. È in quello scacco nel quale la natura antropologica è gettata, in cui tutto sembra deciso e finito, che può originarsi l´altro Inizio. In che modo? Con quale possibilità di successo?
Fino ad allora il pensiero dell´Essere era stato un immenso equivoco, ma anche una formidabile macchina tesa ad occultare l´aletheia, la verità. Qualunque istanza denigratoria doveva tener conto della potenza di quel pensiero e del fatto che senza quell´errore prolungato, quel fraintendimento colossale nel quale si era trovata la metafisica non ci sarebbe stato nessun altro inizio. Dopotutto, bisognava essere grati agli acrobati del pensiero, agli antichi eroi della filosofia, ai sistematici tentativi del pensiero moderno, perché dal fallimento, dalla distruzione del loro teatro della rappresentazione, poteva sorgere l´Ereignis non come distanza tra l´esserci e l´Essere ma come coappartenenza dei due momenti.
Non sappiamo fino a che punto il pensiero di Heidegger, ormai avvitato nell´oscurità della parola, fosse consapevole di avanzare verso un nuovo fallimento. Poteva l´Ereignis divenire l´asse portante di un nuovo sapere sovrano? Un sapere che per sua stessa ammissione è privo di utilità e non ha nessun valore. In uno sforzo dagli accenti drammatici aveva scritto: «La nostra ora è l´epoca del tramonto», e questa epoca «è conoscibile solo per coloro che vi appartengono. Tutti gli altri devono temere il tramonto, e dunque negarlo e rinnegarlo. Per costoro, infatti, esso è solo debolezza e una fine». Nel tramonto heideggeriano, così diverso da quello scrutato da Spengler, non c´era rassegnazione, declino, esaurimento, ma lo spazio entro cui l´Ereignis avrebbe dato vita all´altro Inizio.
Consapevole che ciò non bastava, Heidegger immaginò che da quel tramonto sarebbe infine nato l´ultimo Dio. Pensò, con la solita arroganza, che non a tutti si sarebbe offerta la possibilità di raccogliere la prima luce dell´ultimo Dio. Solo ai pochi venturi spettava, tra ritegno e reticenza, il compito di un´intima celebrazione. Il Dio immaginato da Heidegger era radicalmente diverso dagli dèi che erano già stati e dal Dio cristiano. E non era l´ultimo in quanto veniva dopo tutti gli altri. «L´ultimo», scrisse con tono perentorio, «non è una fine, ma il conchiudersi in sé dell´inizio». Ossia, ancora una volta, il discorso finiva sulle spalle dell´Ereignis, dell´Evento sempre più intriso dell´odore della salvezza e del sacro.
Quelle tormentate pagine esoteriche sembravano staccarsi dalla perentorietà che solo pochi anni prima fermentava L´autoaffermazione dell´università tedesca. Quel discorso tagliato da una luce sinistra si concludeva nientemeno che con una frase di Platone: «Tutto ciò che è grande... è nella tempesta». Quella tempesta si era trasformata in tramonto. E il tramonto in un nuovo Inizio. Che posto poteva ancora esserci per l´Heidegger nazista?
Nelle sonorità dei Beiträge troviamo considerazioni acutissime sull´idealismo e la scienza, sul nichilismo e Nietzsche (proprio in quegli anni Heidegger aveva iniziato i seminari che lo avrebbero "distrutto") e aperture ambientaliste anticipatrici che invitano al tenere desta l´attenzione sul destino della natura minacciata di distruzione per effetto della tecnica. Heidegger non ignorava la luce pubblica del discorso politico. Conservò il disprezzo per la parola che diventa chiasso, consegnò le "visioni del mondo" (liberalismo, bolscevismo, marxismo, cristianesimo) alle loro "macchinazioni". Guardò con sospetto al culto della personalità che proprio in quegli anni trionfava in certe parti d´Europa. Ma fino a che punto era convinto che a un popolo, il suo popolo, occorresse una filosofia? Ambiguamente scrisse che «il popolo diventa popolo solo quando giungono i suoi individui più unici e quando costoro incominciano a presagire».
Diversamente dal popolo, la massa novecentesca tendeva agli occhi di Heidegger a mostrarsi sradicata ed egoista. Perciò egli aggiunse: «Il dominio sulle masse deve essere istituito e mantenuto con le catene dell´"organizzazione"». Nessuno slancio profetico, nessuna prospettiva salvifica egli trova nell´artificiosità della vita moderna (negli Stati come nei partiti, nei totalitarismi come nelle democrazie) nella quale tutto e tutti si confondono. E il nazismo? Con ogni evidenza anche una tale esperienza storica finisce con l´essere il prodotto della modernità, dell´effetto della tecnica ormai planetaria. Tutto, proprio tutto, era risucchiato nell´infondato della metafisica. A questa sconfortante considerazione cercò di porre rimedio evocando un diverso inizio del pensiero, un modo assolutamente altro di fare i conti con ciò che fino a quel momento la filosofia aveva lasciato come impensato. Occorreva un diverso addestramento all´interrogazione, al fare domande, occorreva il ritegno del saper rinunciare, come scrisse, alla fama e al successo.
Heidegger - "la volpe" come lo definì Hannah Arendt - nel 1936 cominciò a spogliarsi degli abiti pubblici. Si ritrasse, come in una tana, nella sua oscurità mentale illudendosi di andare così oltre Nietzsche. Andò invece nella direzione di un´aristocratica e impotente visione di qualcosa di talmente grande da risultare ingestibile. I Beiträge che, per disposizioni testamentarie, videro la luce solo nel 1989, furono insieme la grandezza e la miseria di questo risultato.

Sotto il mantello i libri «proibiti» si svelano

l’Unità 19.3.08
Sotto il mantello i libri «proibiti» si svelano
di Anna Tito

PARIGI Una mostra «vietata ai minori di 16 anni» presenta, per la prima volta al pubblico, scritti erotici, immagini e documenti: nei 350 pezzi un mondo di godurie in bordelli, prigioni e conventi...

«Attenzione: vietata ai minori di sedici anni: alcune immagini possono turbare la sensibilità dei più giovani» avverte all’ingresso la spettacolare esposizione su L’Enfer de la Bibliothèque. L’eros au secret, allestita a Parigi, nella Grande Galleria della Bibliothèque Nationale de France (www.bnf.fr) - fino a sabato - e dedicata alle collezioni «proibite» di «opere piccanti e licenziose» che, secondo la Chiesa, «spingevano l’uomo a peccare». La mostra «evento culturale dell’anno» presenta una serie di scritti erotici, libri, documenti, immagini che svelano un mondo di anonimato, di pseudonimi, di boudoirs, di bordelli, di conventi e di prigioni, a dimostrazione del fatto che la celebrazione del sesso data di lungo tempo: vi compaiono, fra gli altri, i manoscritti sulle estreme godurie del famigerato divino marchese, Donatien-Alphonse de Sade, nonché le prime fotografie erotiche e pornografiche scattate in Francia nell’Ottocento. Si prosegue con le stravaganti lubricità del poeta dell’erotismo Guillaume Apollinaire, passando per le prime espressioni della fotografia pornografica e alle più di duecento opere giapponesi, essenzialmente incisioni e libelli xilografici del tutto inediti dell’epoca Edo (1600-1868). A lungo vituperate dai benpensanti e nascoste «sotto il mantello», le opere catalogate nella sezione Inferno vengono per la prima volta mostrate al pubblico.
Apre la retrospettiva la definizione di «Inferno» tratta dal Grande Dizionario Universale Larousse del 1870 in quanto «luogo chiuso di una biblioteca in cui vengono custoditi i libri di cui si ritiene pericolosa la lettura»: fra i 350 pezzi selezionati, pertanto, non figurano opere suscettibili di turbare l’ordine politico, ma soltanto immagini lascive e «disoneste», messe al bando per «oltraggio alla morale e al pudore».
Ai visitatori viene proposto un duplice percorso: la storia della collocazione speciale Inferno da un lato, a partire dalla maniera in cui si è costituita - con millesettecento opere - e si è evoluta sotto il regno di Luigi Filippo intorno al 1840. In quanto clandestine, le opere sfuggono per definizione al deposito legale e l’Inferno, negli anni in cui si perseguitano con medesime costanza ed energia i libelli politici e gli scritti pornografici, si incrementa soprattutto con i sequestri, e l’Ottocento divenne il secolo d’oro della «letteratura infernale», grazie anche alla censura che rendeva incrementava il commercio «sotto il mantello». Accrescendosi l’offerta e con i nuovi divieti dovuti alla nascita della pornografia, se dell’Inferno, nel 1876, facevano parte seicentoventisei volumi, nel 1909 Apollinaire ne recensiva ottocentoventicinque.
Dall’altro lato abbiamo il contenuto dell’Inferno: i primi disegni risalgono al XVI secolo, ma l’epoca che per eccellenza celebra l’erotismo e la pornografia è il Settecento, «il secolo del libertinaggio» per l’appunto. Nei disegni del periodo emerge la continua ricerca del piacere e le opere raffigurano enormi organi sessuali maschili, spesso celati sotto lunghi mantelli, concezione spensierata e allegra del libertinaggio destinata a svanire con Sade e la sua concezione del «piacere» come «sofferenza» e l’erotismo come un qualcosa di brutale e infausto. Inoltre, gli scontri politici del periodo vennero a servirsi della sessualità e della pornografia: in non pochi componimenti la sovrana «austriaca» Maria Antonietta viene accusata di rapporti intimi con non pochi partner, in altre invece si condanna la perversione del clero.
Compaiono anche alcune guide, quali L’almanacco degli indirizzi e delle signorine di Parigi (1791), che segnala gli indirizzi dei migliori bordelli della capitale e le prostitute più belle. Vicino al nome della «mademoiselle» viene indicato il suo tariffario, nonché la specialità. La passeggiata nell’Inferno prosegue con lo «scabroso» romanzo di Apollinaire, Le 11.000 verghe, del 1907, con abbinati disegni delle scene erotiche del romanzo; altri testi «scabrosi» sono un’edizione originale de I fiori del male (1857) di Charles Baudelaire, condannato per «oscenità» e destinato a rivoluzionare la poesia europea, nonché gli scritti più significativi di un altro «poeta maledetto», cantore della dissoluzione e del piacere, Paul Verlaine. Passando al Novecento, troveremo, fra gli altri, Le con d’Irène (Il sesso di Irene) del 1928 di Louis Aragon, oltre a Histoire d’O, per dirne soltanto alcuni.
Viene a concludere la retrospettiva il poema Onan, con un’acquaforte di Salvador Dalì (1934), realizzata automaticamente con la mano sinistra mentre si masturbava con la destra: per Marie-Françoise Quignard, una delle curatrici della retrospettiva, sul disegno compare al centro una grande macchia di sperma, è «un intervento diretto». E prosegue: «Intendiamo anche far capire questa lingua, invogliare a leggerla, poiché spesso è molto bella».

sabato 15 marzo 2008

Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna

Corriere della Sera 15.3.08
Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna
Fucilazioni sommarie nella fucina dei genocidi
di Frediano Sessi

Alle radici del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov, che gli ideatori della «soluzione finale» conoscono il loro «battesimo di fuoco». Non stupisce perciò che, per contrastare le proteste dei soldati, costretti a combattere in condizioni estreme, il generale Luigi Cadorna, fin dal 1916, si esprima a favore della decimazione, la fucilazione sommaria di un soldato ogni dieci, nei reparti macchiatisi di «reati collettivi». Poiché, malgrado l'obbligo di registrare le esecuzioni sommarie, tale dovere era spesso disatteso, oggi ancora non conosciamo il numero esatto delle vittime.
I due episodi di decimazione ai danni della valorosa Brigata Catanzaro (formata con soldati calabresi a cui si aggiunsero pugliesi, molisani, lucani e siciliani), ricostruiti da Pluviano e Guerrini sulla base di fonti d'archivio, esemplificano assai bene il livello aberrante cui giunsero la crudeltà e l'incapacità dei comandi. Il reparto fu colpito in modo sproporzionato ben oltre ogni addebito giudiziario, legato ad alcuni episodi di protesta e insubordinazione o allo sbandamento durante un attacco sulle pendici del Monte Mosciagh. Gli autori al termine chiedono la riabilitazione delle vittime a più di novant'anni di distanza.
M. PLUVIANO I. GUERRINI Fucilate i fanti della Catanzaro GASPARI PP. 126, e 18

venerdì 14 marzo 2008

L’idea Laica nell’Italia Contemporanea

Tina Tomasi
L’idea Laica nell’Italia Contemporanea
La Nuova Italia, Firenze, 1971

Dal dibattito tra Chiesa e Stato nell’italia preunitaria al laicismo della destra storica, dal bilancio politico delle associazioni operaie e delle leghe per l’insegnamento popolare al riformismo dell’età positivista, dalla crisi giolittiana alla controffensiva spiritualista, dalla fioritura dell’idealismo alla critica pedagogica d’ispirazione marxista, dall’eclissi dell’idea laica nel periodo fascista alla gestione democristiana del ministero della P.l., dal cattolicesimo postconciliare alla « nuova risposta » laica: una storia del pensiero educativo e della politica scolastica nella prospettiva del conflitto tra le forze sociali e culturali che ha costituito la storia d’Italia nell’ultimo secolo.

Dalla quarta di copertina

Fabula docet, Poesia e pedagogia nella favola tedesca dell’Illuminismo

Fabula docet, Poesia e pedagogia nella favola tedesca dell’Illuminismo
A Cura di Pasquale Gallo
Edizioni B.A. Graphis, 2002, Bari
Il volume raccoglie i risultati di una ricerca sul ruolo svolto dalla favola di matrice esopica nel corso dell’Illuminismo tedesco. La sua fioritura e la sua importanza sono state decretate non
tanto dalla fama degli autori che se ne sono serviti, quanto dallo stretto nesso tra ideale pedagogico illuministico e prassi poetica. Tra le sue molteplici funzioni, viene qui analizzata quella di semplice, duttile e popolare strumento educativo nella formazione della coscienza borghese. Sulla base di tale presupposto sono presi in esame C.F. Gellcrt, J.H. Pestalozzi e G.K. Pfeffel, tutti coinvolti, sia pure in modi differenti, nel campo dell’educazione.
Dalla quarta di copertina

giovedì 13 marzo 2008

Ancora lite sul Papiro di Artemidoro: è falso oppure no?

l’Unità 12.3.08
Luciano Canfora attacca: non è autentico. Ma Salvatore Settis a Berlino ribadisce la sua tesi
Ancora lite sul Papiro di Artemidoro: è falso oppure no?
di Marco Innocente Furina

È autentico o non è autentico? Quella sul papiro di Artemidoro, una delle più accese querelle culturali degli ultimi anni, promette di durare ancora a lungo, ma la grande mostra che apre oggi a Berlino, con la contemporanea presentazione dell’edizione critica, è destinata a segnare un momento fondamentale nella discussione intorno all’originalità del prezioso frammento.
La polemica va avanti da due anni, da quando nel 2006, il papiro di Artemidoro è stato il protagonista di una importante mostra a palazzo Bricherasio a Torino, dopo che la Fondazione per l’Arte della compagnia di San Paolo, su sollecitazione del Ministero per i beni culturali, per aggiudicarselo aveva sborsato, la ragguardevole cifra di 2.750.000 euro.
Fu proprio allora che, dopo aver visitato la grande l’esposizione, il grecista Luciano Canfora fu colto dai primi dubbi. Troppe cose, a partire dalla lingua usata nel testo, non tornavano. Ne nacque una polemica durissima, condotta anche dalle pagine dei più importanti quotidiani nazionali, fra lo stesso Canfora e Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa che aveva invece certificato l’originalità dei frammenti.
A due anni di distanza Canfora e Settis tornano a incrociare le spade. Lo storico dell’arte e i filologi Barbara Kramer e Claudio Gallazzi, annunciano - finalmente - la presentazione di un’edizione critica, mentre il docente dell’Università di Bari, dopo aver dato alle stampe un primo testo in inglese The true history of so-called Artemidorus papyrus (edizioni Pagina) con l’aiuto di un manipolo di studiosi (Luciano Tossina, Livia Capponi, Giuseppe Carlucci, Vanna Maraglino, Stefano Micunco, Rosa Otranto, Claudio Schiano), spiega perché, ne Il Papiro di Artemidoro, un corposo volume edito da Laterza, il rotolo in questione non possa essere originale.
La lingua, innanzitutto. Artemidoro di Efeso visse a cavallo tra il II e il I a. C. ma lo stile del papiro non ha nulla a che vedere con lingua classica in uso allora. I sostenitori dell’autenticità rispondono con la teoria delle «tre vite», ovvero i tre momenti in cui il documento sarebbe stato scritto e disegnato. Ribatte Canfora: le «tre vite», a dar retta a questa teoria, si sarebbero svolte entro la fine dell’età di Nerone, ovvero il I secolo d.C, mentre nel testo sono presenti colloquialismi di epoca basso-bizantina. Dunque parecchi secoli dopo il regno dell’impertore. Ma non basta. Perché nel reperto sono presenti interi brani di Marciano, un autore bizantino vissuto nel IV secolo d.C, per non parlare di usi e riferimenti più vicini alla prosa dei padri della Chiesa che al greco classico. Un’anomalia che per il filologo Albio Cassio, uno dei curatori dell’edizione critica, si spiegherebbe facilmente: ci troveremmo di fronte a una rarissima e quindi preziosissima attestazione del greco asiano, uno stile andato quasi del tutto perduto. Altro che greco d’Asia e greco d’Asia, nello scritto - incalza Canfora - ci sono troppe incongruenze. Prendiamo il termine «Oblevion», il nome di un fiume come era stato ribattezzato in epoca moderna, mentre la forma antica, attestata in Strabone è «Belion». E così via.
Come in ogni buon processo indiziario le parti hanno pure fatto ricorso alle perizie tecniche. Ma come spesso avviene in questi casi neanche le analisi chimiche hanno messo la parola fine alla discussione.
Ma a non convincere Canfora non è solo la sintassi. Il papiro infatti è unico nel suo genere perché è quasi un canovaccio d’artista. Sul verso sono disegnati una quarantina di raffigurazioni di animali reali e fantastici, mentre sul recto compaiono volti umani e una cartina della Spagna. Uno stile, suggestivo e irrituale che quasi anticipa il Rinascimento (c’è chi ha parlato di una mano che ricorda Raffaello). Troppo strano, così poco classico, così poco antico...
Già, ma allora se il papiro è un falso, chi è il falsario? Ed qui che entra in gioco un personaggio a suo modo grande, eclettico e versatile, il greco Costantino Simonidis, abilissimo falsario ottocentesco conosciuto e temuto in tutte le capitali europee. Allievo di Vidal, un pittore della scuola del francese David, Simonidis di falsi ne aveva già rifilati parecchi. «Nel 1855 - ricorda Canfora - aveva tratto in inganno l’intera Accademia delle scienze di Berlino. Scoperto, era stato poi espulso dalla capitale prussiana». Dove ora ritorna - se la ride il professore di Bari - con tutti gli onori.

«Artemidoro, il papiro non è un falso», Gli esperti a Berlino: l'analisi chimica lo fa risalire al I secolo dopo Cristo

Corriere della Sera 13.3.08
Presentata l'edizione critica. Salvatore Settis: escluso che sia dell'800. I dubbi filologici
«Artemidoro, il papiro non è un falso», Gli esperti a Berlino: l'analisi chimica lo fa risalire al I secolo dopo Cristo
di Dino Messina

BERLINO — Il papiro di Artemidoro campeggia da ieri in una sala dell'Altes Museum di Berlino, circondato da altri antichi reperti ellenistici ed egizi. E con l'apertura della mostra viene esibita anche un'edizione critica senza eguali, considerata dai curatori, Claudio Gallazzi, antichista dell'università di Milano, Barbel Kramer, dell'università di Treviri, e Salvatore Settis, storico dell'arte antica e direttore della Normale di Pisa, la «prova del nove» che quella sottile e preziosa pergamena acquisita dalla Fondazione per l'arte della Compagnia di San Paolo per 2.750.000 euro sia autentica. O meglio, proprio di Artemidoro non è, ma è una copia che risale «almeno al primo secolo dopo Cristo».
In realtà di argomentazioni per contestare l'ipotesi del falso sostenuta da Luciano Canfora ne sono state portate parecchie. Lo ha fatto ieri sera Settis durante una lectio magistralis, continueranno oggi gli altri studiosi italiani e stranieri in un convegno interdisciplinare.
Innanzitutto per la prima volta verranno resi noti dal fisico Pier Andrea Mandò, del Labec, il Laboratorio per i beni culturali di Firenze, le conclusioni delle analisi chimico fisiche condotte sul papiro e sull'inchiostro. «Le analisi condotte con il carbonio 14, utilizzando la tecnica della spettroscopia di massa con acceleratore su tre campioni del papiro — ci ha detto Mandò — ci fa dire che al 95% il reperto può essere datato tra il 40 avanti Cristo e il 130 dopo Cristo: al 68% l'intervallo di probabilità è compreso tra il 15 e l'85 dopo Cristo». Anche sulla base di questi risultati, ha confessato Gallazzi, «abbiamo spostato, di circa un secolo la datazione del testo, rispetto a una prima ipotesi del 1998. Dal I secolo avanti Cristo al primo dopo Cristo». Non l'originale dunque del II libro della Geografia di Artemidoro, ma una sua copia fatta su un papiro che secondo la famosa teoria delle tre vite, ribadita ieri sera da Settis, fu abbandonato per un errore, quindi servì in un primo tempo come repertorio con disegni di animali reali o fantastici in una bottega artigiana, quindi fu usato per disegni anatomici. Le analisi chimiche hanno riguardato anche l'inchiostro. «Il papiro di Artemidoro — ha detto Mandò — è stato scritto con inchiostro vegetale, a base puramente organica, non con inchiostro metallo-gallico, basato cioè su sali metallici, come si usava nell'Ottocento». Una affermazione che escluderebbe totalmente l'ipotesi avanzata da Canfora secondo cui il papiro potrebbe essere opera di un falsario greco vissuto nell'Ottocento, Costantino Simonidis.
E la prova di polvere di grafite che un anno fa trapelò da un laboratorio di Brescia? «Si tratta di cristallizzazioni di sostanze vegetali avvenute successivamente ». Dall'analisi chimico fisica a quella dello stile, i curatori del volume non hanno trascurato nessun aspetto, tanto da chiedere il contributo del filologo della Sapienza di Roma, Albio Cesare Cassio, convinto assertore dell'autenticità ma anche del fatto che Artemidoro, soprattutto nelle prime due colonne del testo, una sorta di proemio che canta le lodi della geografia, «era scrittore a tratti involuto, diremmo oggi barocco, raro esempio di prosa "asiana". Ma di qui a sostenere, come fa Luciano Bossina, che si tratti di un linguaggio teologico risalente a epoche bizantine ce ne corre. L'errore che fanno i sostenitori dell'ipotesi che il papiro sia un falso è di non considerare quanto sia grande il patrimonio perso della cultura antica, sicché quasi ogni papiro scoperto ci propone una parola che non conoscevano o ci fa retrodatare di secoli l'uso di un altro termine».
Questo è l'argomento usato contro chi come Stefano Micunco ha sostenuto che alcune parole, quali
kenalopex, anatra con volpe, fossero state attinte dal falsario Simonidis addirittura da repertori del 1600. «Considero Canfora — ci confida Cassio — uno studioso di intelligenza e competenze superiori alla media, ma questa volta lui e i suoi allievi si sono innamorati di una ipotesi sbagliata».
Il problema, incalza Settis, «non è l'interpretazione di Canfora, ma i problemi aperti da questo papiro che nemmeno l'edizione critica riesce a risolvere appieno. Qual è per esempio la funzione di quella cartina in cui si vedono strade, fiumi e vignette ma senza precise indicazioni toponomastiche?». Forse si tratta di una parte della Spagna descritta nelle colonne quarta e quinta del testo, ma non ne siamo sicuri.
E l'obiezione di fondo secondo cui il papiro di Artemidoro conterrebbe una sintesi fatta da Marciano, poi ripresa da Stefano di Bisanzio, quindi nel decimo secolo da Costantino Porfirogenito, quindi edita e corretta nel 1800 da August Meinecke? Rivelerebbe insomma tutti questi passaggi e sarebbe perciò un falso.
Secondo Settis, «questa obiezione non sta in piedi. Canfora e i suoi allievi hanno in realtà rovesciato i termini del problema e hanno creduto così di ricostruire il falso». Quanto alle «congetture» apportate da Meinecke, «a mio avviso — aggiunge Cassio — ci restituiscono l'Artemidoro autentico».
Insomma in questi due giorni berlinesi si parla molto di filologia, chimica, fisica, papirologia. Al centro della discussione Artemidoro, ma anche Luciano Canfora, che non si sa perché non sia stato invitato. Avrebbe potuto rispondere alle obiezioni a lui mosse fra le pagine 56 e 60 dell'edizione critica pubblicata dalla Led. Compresa questa: «Se si guardano i disegni al microscopio, si vede agevolmente che essi furono tracciati su un supporto perfettamente integro, giacché non ci sono sbavature di inchiostro nei fori, né segni stesi su fibre scomposte, né tratti interrotti prima dei buchi, che sono indizi di contraffazione. Non è pensabile che un rotolo di 3 metri senza la minima lesione possa essere venuto nelle mani di un falsario, il quale lo avrebbe imbrattato di disegni, per poi farlo a pezzi e nasconderlo dentro un ammasso di papier maché da vendere per pochi soldi a Saiyd Khashaba Pasha».

Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno

Corriere della Sera 13.3.08
Così sarà il mio Baudelaire
Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno
di Roberto Calasso

Vorrei innanzitutto ringraziare Antoine Gallimard e Marc Fumaroli per le loro parole, quanto mai generose e per me tanto più significative, data l'antica ammirazione che provo per entrambi. Ma, oltre che a loro, vorrei dire la mia gratitudine a un testimone muto, che è il luogo dove ci troviamo in questo momento. Devo confessarvi che sono un devoto osservatore e cultore delle coincidenze, nelle quali intravedo le ultime tracce nel nostro mondo di quelli che i veggenti vedici chiamavano i bandhu, le «connessioni». Ora, si dà il caso che questo luogo ne racchiuda una che per me è trascinante.
Innanzitutto da qui sono usciti quei libri che, quando da ragazzino li vedevo schierati in drappelli compatti, nella loro elegante divisa bianca con filetti neri e rossi, sul primo banco a sinistra della libreria Seeber a Firenze, significavano la Francia stessa e la sua letteratura, traboccanti di malie e di misteri. Ma c'è anche qualcos'altro: esattamente qui, al 17 di rue de l'Université, abitò in un periodo cruciale della sua vita e della Francia, nel 1790, un personaggio che sarebbe poi diventato per me lo Hermes psicopompo nell'impresa che ho avviato con La rovina di Kasch:
Monsieur de Talleyrand. Perciò in certo modo è come se la quintessenza della mia doppia vita, di scrittore e di editore, si fosse cristallizzata fra queste mura.
Nulla potrebbe aiutarmi meglio a spiegare quella sorta di compulsione — o altrimenti attrazione magnetica — che ha condotto sempre di nuovo chi vi parla verso questi luoghi. Una compulsione che proverò brevemente a raccontarvi. Tutto comincia con tre volumi Gallimard, la prima edizione della Recherche di Proust nella Pléiade, che fu il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Era il 1954 e avevo tredici anni. Ricordo che mi ero fatto male a un ginocchio e dovevo restare immobile a letto per qualche giorno. Fu allora che mio padre mi portò quei tre volumi, nei quali mi immersi con un senso di ebbrezza che forse non ho più incontrato.
Pochi mesi dopo, Parigi fu la prima città straniera dove mi trovai a vivere da solo. Abitavo da amici dei miei nonni a Montmorency e ogni mattina prendevo il treno per Parigi da Enghien. Poi, fino alla notte, vagavo ovunque. Non credo di aver mai camminato senza meta in un luogo per così tanti chilometri come a Parigi in quelle settimane. E non vi è città di cui abbia mai conosciuto così bene la rete del métro, con una sorta di partecipazione erotica ai nomi delle stazioni, un po' come accadeva a Marcel per le stazioni ferroviarie intorno a Balbec. E il métro anche mi nutriva, con i suoi automates pieni di sucreries che mi fornivano energia per camminare.
Da quei giorni un filo teso e ininterrotto mi collega al punto in cui, circa trent'anni fa, tracciai un primo disegno, piuttosto temerario, di un'opera composta da vari pannelli al tempo stesso autosufficienti e interconnessi. A oggi, di quell'opera sono apparsi cinque volumi, che formano un insieme di più di duemila pagine. Li si potrebbe definire il romanzo di una famiglia capillarmente ramificata, eccentrica e migratoria, i cui membri si possono incontrare nella Francia sia di Port-Royal sia del Palais-Royal come nella Grecia di Omero e di Nonno, nell'India dei veggenti vedici o nel paese senza nome di Franz Kafka o nella Venezia di Giambattista Tiepolo. Per introdurre le storie di questa turbolenta famiglia avevo bisogno di un maestro di cerimonie — e uno solo si impose di autorità: era M. de Talleyrand, il quale a pochi metri da qui una sera introdusse in società, nel corso di un ballo memorabile per Joséphine all'Hôtel Galliffet, colui che avrebbe istituito la Légion d'Honneur ed era allora il generale Bonaparte. E così come, nella Rovina di Kasch, Talleyrand guida il racconto attraverso una fuga di saloni, nella sesta parte di questo romanzo di famiglia, che dovrebbe essere pubblicata nell'ottobre di quest'anno, a fare da guida sarà ancora una volta qualcuno che è nato non lontano da qui, a un incrocio di boulevard Saint-Germain. Si tratta di Charles Baudelaire — e i primi passi della narrazione non saranno nei salons descritti dalla duchessa d'Abrantès ma nei Salons della pittura, dove Baudelaire cominciò a esercitare la sua prosa.
Tutto questo mi induce a pensare che, quando mi trovo a uno snodo decisivo in questo abnorme romanzo di famiglia, qualcosa mi spinge irresistibilmente verso l'aria e le storie dei luoghi dove ci troviamo in questo momento. E, se mi domando perché, penso subito a Cioran, il quale preferiva la sua mansarda della rue de l'Odéon a ogni altro domicilio, non solo perché gli permetteva di fare agevolmente lunghe passeggiate solitarie al Luxembourg, ma perché aveva la vaga impressione che la stessa rue de l'Odéon fosse una sorta di perno cosmico, in qualche modo congeniale alla sua ipocondria ed euforia balcaniche. Cioran era convinto che in questa lingua, in queste strade e nella loro storia si celasse qualcosa che coinvolge nella sua interezza quel «piccolo capo del continente asiatico » (come diceva Valéry) in cui ogni europeo ha avuto in sorte di nascere. È un punto su cui ho sempre concordato pienamente con Cioran — e oggi vorrei solo aggiungere, come preliminare a ogni altra considerazione, le parole che ha detto una volta in un'intervista del 1985 (si osservi la data), il glorioso decano degli scrittori francesi, Claude Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere in un'epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture — e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l'esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura».

martedì 11 marzo 2008

Il Papa che si imprigionò per punire l’Italia

Corriere della Sera, 30/10/2005

Il Papa che si imprigionò per punire l’Italia
Un saggio di Kertzer ricostruisce lo scontro tra Stato e Chiesa subito dopo l’Unità Pio IX si chiuse in Vaticano contro la politica laica del governo

Chissà se l’erudito Papa tedesco lo sapeva, nell’agosto scorso, quando ha scelto la città di Colonia per il suo primo viaggio apostolico all’estero. Chissà se Benedetto XVI sapeva che un illustre suo predecessore ottocentesco, Pio IX, in tutt’altre condizioni aveva meditato di compiere analogo viaggio. Non come trionfale inaugurazione di un pontificato nuovo di zecca, ma come esito fatale di un pontificato interminabile. E non per una visita di qualche giorno, ma per rimanerci non si sa quanto, forse per il resto della vita. Era successo a fine settembre del 1870, dopo che l’Italia di Vittorio Emanuele II aveva profittato della disfatta di Napoleone III a Sedan per sbrecciare Porta Pia e conquistare Roma. Allora, il Cancelliere del neonato Impero prussiano, Otto von Bismarck, aveva fatto sapere che Pio IX poteva ormai contare sulla sua protezione e che una città come Colonia si sarebbe prestata magnificamente a servire da nuova casa del Santo Padre. Nei panni del profugo - aveva spiegato Bismarck - il Papa non avrebbe potuto che migliorare la propria immagine di vegliardo intransigente e bisbetico: sarebbe parso «un vecchio che cerca aiuto, un buon vecchio, come un vescovo che, come gli altri, mangia e beve, fa un tiro di tabacco oppure fuma un sigaro»... In quale misura il Cancelliere protestante fosse sincero nella sollecitudine verso il capo della Chiesa cattolica, lo si sarebbe visto una manciata d’anni più tardi, nel febbraio del 1878: quando la morte di Pio IX pose fine al pontificato più lungo e più drammatico dell’intera vicenda petrina. Raggiunto dalla notizia nella sua residenza di campagna, Bismarck ordinò al servitore di portargli una bottiglia di grappa e propose: «Brindiamo!». Resta il fatto che negli anni Settanta del XIX secolo e poi ancora negli anni Ottanta e Novanta - durante il pontificato di Leone XIII - sia il Vaticano sia le maggiori cancellerie europee misero seriamente in conto la possibilità che il Papa lasciasse una Roma, in cui si sentiva ormai prigioniero, per stabilirsi altrove sul continente. Dove? Si ipotizzò un po’ di tutto, da Colonia a Malta, da Auch a Barcellona, dalla Corsica al Canton Ticino... E per quanto vaga, tale prospettiva rappresentò un incubo per il governo dell’Italia unita da poco, che rischiava di non reggere le conseguenze politiche (o militari) di una fuga del Papa da Roma. Il Santo Padre prigioniero nelle sue stanze del Vaticano: è questa - più che avventurosa, claustrofobica e ossessiva - la storia raccontata adesso, con la consueta felicità di scrittura, dal migliore studioso americano del nostro Risorgimento, David Kertzer. Il quale, a partire da una messe di materiali archivistici finora trascurati o del tutto inaccessibili, è riuscito nell’impresa di restituire gli esordi dell’Italia unita al clima che fu loro proprio e che una storiografia troppo eufemistica si è curata di occultare: il clima di una lotta senza quartiere, di uno scontro a morte fra l’Italia laica e la Chiesa cattolica. Adusi come siamo oggi - dopo il pontificato itinerante di Karol Wojtyla - all’idea di un Papa pellegrino, noi fatichiamo a comprendere la scelta di vita di Pio IX, a cui i successori si sarebbero uniformati fino ai Patti Lateranensi del 1929: la decisione di non mettere piede fuori dal Vaticano, di non spingersi neppure fino al Laterano o a Castelgandolfo, per qualcosa come 59 anni di soggiorno obbligato. Kertzer ci aiuta a decifrare la logica di una scelta così grave. Era la volontà di mettere sotto scacco il governo italiano (fosse questo espressione della destra o della sinistra: di Lanza o di Depretis, di Lamarmora o di Crispi), presentando come il più odioso dei soprusi la politica laica di una separazione netta fra lo Stato e la Chiesa. Ai quattro angoli dell’Italia e dell’Europa, e particolarmente in Francia, i devoti di Pio IX furono abilissimi nel brandire l’icona del Papa prigioniero in Vaticano come un’arma di propaganda. Preti e suore presero a vendere come una reliquia sacra la paglia sulla quale - dicevano - il Santo Padre era costretto dal governo italiano a passare le sue notti d’infelice. E il conte di Montalembert, figura chiave della Chiesa cattolica francese, mise in guardia i presunti carcerieri del Papa: «Badate bene, che gl’italiani non diventino i giudei della cristianità futura. Badate che dai lidi dell’Irlanda a quelli dell’Australia, i nostri figliuoli non imparino infin dalle fasce a maledirli». Il governo italiano tenne duro, anche quando - dopo il 1887 - il nuovo segretario di Stato di Leone XIII, il machiavellico cardinale Rampolla, cercò di utilizzare l’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza con l’Austria e la Prussia come pretesto per scatenarle contro la Terza Repubblica francese. Ma se pure le trame del Vaticano intorno al Papa prigioniero non approdarono a nulla di concreto, la puntuale ricostruzione di Kertzer vale a illuminare la storia moderna d’Italia secondo una prospettiva di lungo periodo. Dopo il 1870, Pio IX non esitò a scomunicare collettivamente la classe dirigente dell’Italia unita e poi, nel 1873, il re sabaudo in persona, Vittorio Emanuele II. Da allora tante cose sono cambiate, ma non l’abitudine di certi inquilini d’oltre Tevere di levare il dito accusatore contro chiunque osi presumere che il nostro è uno Stato laico. Il libro: David I. Kertzer, «Prigioniero del Vaticano. Pio IX e lo scontro tra la Chiesa e lo Stato italiano», traduzione di Giovanni Giri, Rizzoli, pagine 366, 21

Bomba su Nagasaki, il reportage censurato

Corriere della Sera, 20/06/2005

Bomba su Nagasaki, il reportage censurato

Le copie delle corrispondenze scritte dal giornalista Weller trovate dal figlio nella sua casa di Roma. Ora un quotidiano giapponese le ha pubblicate Dopo 60 anni rispuntano gli articoli sequestrati dai comandi americani

« Nagasaki è un’isola che assomiglia a Manhattan in forma e dimensioni . Quelli che corrispondono ai versanti del New Jersey e di Manhattan affacciati sul fiume Hudson sono punteggiati di stabilimenti industriali di proprietà delle famiglie Mitsubishi e Kawanami ». Le prime righe del diario di George Weller, il primo reporter straniero entrato a Nagasaki dopo il bombardamento del 9 agosto 1945. « Negli stabilimenti di Kawamani, dove si costruivano navi, lavoravano circa ventimila persone. Gli impianti si trovano a cinque miglia dall’epicentro dell’esplosione. Le verdi colline sono vicine, al di là delle lunghe file di stabilimenti industriali. La stazione ferroviaria, quasi totalmente distrutta, è già attiva ». Weller descrive il risveglio lento e stupefatto della città giapponese. E il tentativo di spiegare la catastrofe. « Un allarme generale era stato dato alle 7 del mattino, quattro ore prima che comparissero i due B-29. La maggior parte della popolazione lo ha ignorato ». Radiazioni letali « I giapponesi hanno sentito alla radio americana che il terreno conserva le radiazioni letali. Ho camminato per ore tra le rovine, lì dove l’odore dei cadaveri in decomposizione è ancora forte: ho provato nausea ma nessun malessere . « Qui a Nagasaki nessuno è ancora riuscito a dimostrare che questa bomba sia diversa dalle altre - prosegue il giornalista, come intenerito di fronte a cittadini sprovveduti e soccorritori impotenti - tranne che per l’intensità dei raggi luminosi ». Weller trascorre un’ora nei locali ormai inanimati dell’Istituto medico di Nagasaki. « Nelle stanze invase dai detriti, solo ratti. Sul lato opposto della vallata, al di là del fiume Urakame, c’è un college americano in cemento di tre piani. Il college si chiama Chin Jei ed è quasi totalmente distrutto. Le autorità giapponesi evidenziano che l’area bombardata era tradizionalmente destinata ai cattolici e ai cristiani. «A guardare la facciata sventrata del consolato americano o quella della cattedrale cattolica, accartocciata come fosse di pan di zenzero, sembra che l’atomica non risparmi nulla di ciò che incontra sul proprio cammino ». L’ospedale L’8 settembre Weller attraversa i corridoi dei due ospedali di Nagasaki, parla con i medici, annota minuziosamente le scene di dolore che gli trafiggono gli occhi. La principale preoccupazione dei medici, poche settimane dopo il bombardamento, resta quella di spiegare l’origine dei sintomi registrati in centinaia di casi. « Gli scheletri degli edifici, che prima ospitavano l’esercito giapponese, rivelano quello che la bomba atomica è in grado di fare all’acciaio e alla pietra, ma gli effetti su carne e ossa umane sono custoditi nei due ospedali della città . « Sono il primo americano ad aver raggiunto Nagasaki, la guida che mi accompagna lo sa bene e puntandomi gli occhi in viso pare chiedere: "Che ne pensi?" «Cosa vorrebbe dirmi? Che l’America ha fatto qualcosa di inumano sganciando quest’arma sul Giappone? Vorrebbe che scrivessi questo? « Ci sono dei bambini, alcuni ustionati, che siedono tra le loro madri. Ieri i giapponesi hanno scattato molte foto qui. Uno su cinque di questi bimbi è quasi interamente fasciato, nessuno dà segni di sofferenza. Alcuni adulti giacciono sulle stuoie. Gemono. C’è una donna che si prende cura del marito, ha gli occhi pieni di lacrime. La guida continua a fissarmi. «Cammino tra i rifiuti, parlo con due fisici generici e uno specialista di raggi X. Ottengo così un gran numero di informazioni e opinioni. Le cifre cambiano continuamente. Questa settimana l’ospedale ha accolto 750 pazienti colpiti dalle radiazioni originate dalla bomba e ne ha persi 360. Il 70% circa dei decessi è dovuto alle ustioni». Un miglio di morte «I giapponesi sostengono che chiunque sia stato raggiunto dalle radiazioni nel raggio di un miglio è morto per le bruciature. «Vedo una donna sistemata su una stuoia gialla. I medici mi dicono che è stata appena portata in ospedale. Le sue gambe nude sono punteggiate di macchie rosse che traspaiono dalle bende. Accanto a lei, una ragazzina di 15 anni con le stesse macchioline ha delle croste di sangue sul naso. Più avanti, alla finestra, quattro bambini sotto gli otto anni. I due più piccoli hanno perso i capelli». Gli ex prigionieri Weller avvicina alcuni militari americani sopravvissuti alla prigionia nei campi giapponesi. I soldati vagano tra le macerie. «Sono i prigionieri dei campi di Kyushu, l’isola più a Sud del Giappone, a fornire ulteriori tasselli del mosaico. Dal campo n.3 di Tabata nei pressi di Mojie, a Nord di Kyushu, arrivano tre ex prigionieri venuti qui per verificare gli effetti della bomba atomica. Miles Mahnke è nato a Chicago, racconta: "Ero a Bataan. Non immagini cosa è stato". «Altri quattro ex prigionieri vagabondi arrivano da campi in cui i comandanti e le guardie giapponesi sono semplicemente scomparsi: Albert Johnson, dall’Ohio; Hershel Langston, dal Kansas; Morris Kellogg, dal Texas, tutti membri dell’equipaggio del Connecticut, che ora girano il Giappone. A Kyushu ci sono circa diecimila prigionieri. Nel campo n.2, all’ingresso di Nagasaki Bay, trovo 68 sopravvissuti del British Cruiser Exeter, affondato nella battaglia del Mare di Giava». Spettri tra gli spettri. Il 9 settembre Weller torna in ospedale. « Il male causato dalla bomba, senza cura perché senza diagnosi, continua a mietere vite. Uomini, donne, bambini apparentemente privi di segni di malattia e ferite muoiono ogni giorno, alcuni dopo essersi trattenuti nei dintorni per settimane nella speranza di sottrarsi agli effetti della bomba. I medici dispongono di medicinali moderni ma confessano candidamente che la risposta alla situazione è al di sopra delle loro capacità. «Secondo il dott. Yosisada Nakashima, specialista in raggi X giunto oggi da Fukuoka, i pazienti sono tormentati dalle conseguenze dei raggi beta gamma. Nakashima non è d’accordo con i fisici generici che hanno raccomandato di chiudere l’area bombardata, convinti che le persone provenienti dalla zona siano state infettate dopo essere state a contatto con il terreno contaminato . Lo scienziato analizza i sintomi: tutti simili: vomito, emorragie sottocutanee. I bambini perdono capelli. Sintomi ricorrenti in caso di sovraesposizione ai raggi Roentgen. Tutte manifestazioni normali ».

«Il nostro avo bambino rapito e plagiato da Pio IX»

Corriere della Sera, 17/06/2005

«Il nostro avo bambino rapito e plagiato da Pio IX»
Il memoriale anticipato dal «Corriere» riaccende la disputa sul piccolo ebreo sottratto alla famiglia nel 1858 e poi divenuto sacerdote

«Vorrei rassicurare Vittorio Messori: noi discendenti dei Mortara non siamo stati sollecitati da nessuno, come lui insinua nel suo libro, ma soltanto dalla nostra coscienza, a criticare la beatificazione di Pio IX. Semplicemente ci ha lasciati stupefatti che si proponesse come esempio da ammirare il responsabile del sequestro di un bambino sottratto alla sua famiglia». Sorride amaramente Elèna Mortara, docente di Letteratura angloamericana all’Università di Roma Tor Vergata e pronipote di una sorella di Edgardo, mentre respinge l’idea che qualcuno l’abbia aizzata contro l’ultimo Papa-re. E si dice «allibita» per il modo in cui la questione del bimbo ebreo strappato ai genitori nel 1858 viene ora ripresentata. «Non c’è niente di realmente inedito - continua - nel memoriale pubblicato da Messori, perché Edgardo aveva difeso Pio IX in molti altri scritti già noti. Segregato e indottrinato dai sei anni in poi perché diventasse sacerdote, aveva sviluppato il tipico attaccamento del prigioniero verso i suoi carcerieri che si osserva a volte anche nelle vittime adulte dei sequestri di persona. E aveva visto nel Pontefice una figura paterna, sviluppando un forte senso di colpa per i "dolori immensi" che, secondo quanto gli veniva ripetuto dallo stesso rapitore, pensava di avergli arrecato attirandogli contro tante polemiche. Non a caso soffriva di momenti di profonda angoscia, che Messori, con insinuazione di dubbio gusto, vorrebbe far risalire a un fattore ereditario, piuttosto che all’effetto degli incontestabili traumi subiti». Nei rimproveri dello scrittore cattolico ai famigliari del bambino, la loro discendente avverte un grande astio: «Come si fa a dire che i genitori di Edgardo protestarono perché sobillati? Non è naturale che un padre e una madre reagiscano, quando si vedono portare via un figlio? La loro fu la legittima reazione ad un sopruso. E il padre Momolo fu un eroe coraggioso e sfortunato, "pellegrino del dolore", che cercò di combattere con la semplice parola un potere così crudele. Ed è grave che si difenda il sequestro e si accusino i Mortara di aver violato le leggi discriminatorie dello Stato pontificio, assumendo la domestica cristiana che impartì al bambino il presunto battesimo, di validità assai dubbia, del quale si ricordò solo cinque anni dopo, quando fu licenziata. È come se oggi si parlasse delle conseguenze delle leggi razziali fasciste (che tra l’altro prevedevano per gli ebrei lo stesso divieto di prendere a servizio i non ebrei), come se si trattasse di un semplice dato di fatto ineluttabile, senza esprimere un giudizio di valore su quelle stesse leggi». Quanto poi all’atteggiamento della comunità ebraica romana, che non vide di buon occhio le proteste internazionali contro Pio IX, per Elèna Mortara è facilmente spiegabile: «Si trattava di persone intimorite, che vivevano chiuse da secoli in un ghetto, sotto il giogo di un potere dispotico, sottoposte a continue angherie (se ciò nonostante non se ne andavano, come si domanda ironizzando Messori, è perché a Roma vivevano da oltre duemila anni, da prima dei Papi, e sentivano la città come anche loro). È logico che il segretario della Comunità, Sabatino Scazzocchio, si riferisse a Pio IX con la massima deferenza; e tuttavia, anche in un contesto così difficile, ogni sforzo fu compiuto dai massimi esponenti della Comunità di Roma per cercare di far recedere il Papa dal suo atto. In realtà la pratica delle conversioni forzate durava da lungo tempo e il caso Mortara ne era all’epoca l’ultimo esempio. Solo che in quel caso l’abuso non venne sopportato in silenzio. E la famiglia trovò una vasta solidarietà nell’opinione pubblica mondiale, ormai sensibile al problema dei diritti umani». Proprio quella mobilitazione, però, è nel mirino di Messori, che la giudica strumentale. «Sì, nel suo linguaggio allusivo sull’influenza degli ebrei affiorano pregiudizi antichi e pericolosi. Ma la campagna sul caso Mortara, soprattutto in Francia, coinvolse anche i cattolici liberali. Per esempio lo scrittore Victor Séjour, autore di un’opera teatrale sulla vicenda, rivendicava la sua fede nella Chiesa, ma si stupiva che il Papa potesse compiere un’azione contraria al valore cristiano della famiglia. Se il potere temporale dei pontefici ricevette allora un colpo così duro, come ammette Messori, fu perché la vicenda di Edgardo mostrò a tutti che si trattava di un regime oppressivo ormai anacronistico». Ma perché Pio IX insistette tanto su una posizione che lo indeboliva politicamente? «Mi sembra il tipico errore di chi si considera il detentore assoluto della verità. Del resto tutta la vicenda si fonda su questa pretesa, fonte dell’intolleranza religiosa. Io auspico la comprensione e il dialogo tra le fedi. Amo il passo biblico di Isaia (11, 6-7) in cui si legge che il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà con il capretto. Mi pare che prefiguri un futuro di dialogo e convivenza nel rispetto reciproco. Devo aggiungere però che il libro di Messori va nella direzione opposta. E mi auguro che dal mondo cattolico, specie dalle più alte autorità ecclesiastiche, giungano segnali diversi. Tra l’altro mi sconcerta l’affermazione di Messori che il caso Mortara, a norma del diritto canonico, potrebbe ripetersi ancora oggi. Sarebbe opportuno che la Chiesa facesse chiarezza su un punto tanto delicato». Tuttavia, secondo Elèna Mortara, il libro di Messori non chiama in causa solo il mondo cattolico. «Mi rattristano attacchi così violenti al Risorgimento, che presentano l’unità dell’Italia come un evento negativo, quasi una conseguenza deprecabile del caso Mortara. Ma io rovescio l’impostazione di Messori. Secondo lui "Dio scrisse dritto su righe storte" perché da quel dramma derivò la conversione di Edgardo. Secondo me l’aspetto provvidenziale sta nel fatto che l’abuso compiuto da Pio IX, per lo scandalo che ne nacque, contribuì all’unificazione italiana sotto un regime liberale e alla fine della teocrazia pontificia».

Caso Mortara: dopo 150 anni esce il memoriale del protagonista

Corriere della Sera, 13/06/2005

Caso Mortara: dopo 150 anni esce il memoriale del protagonista
INEDITO Battezzato di nascosto, venne sottratto ai genitori ebrei:

Messori, dove e come ha ritrovato l'autobiografia di Edgardo Mortara? «Padre Mortara la scrisse nel 1888, a 37 anni, in spagnolo, visto che allora predicava nei Paesi Baschi. Se ne fece (forse, ma non è certo) un opuscolo che non sappiamo quale diffusione abbia avuto all’epoca in Spagna ma che, a quanto consta, non fu tradotto in altre lingue né risulta in alcuna bibliografia. Che padre Mortara abbia condotto una vita devota sino alla morte, a quasi 90 anni, e proclamato e difeso sempre la santità del suo padre spirituale Pio IX, era noto. Ma questo suo memoriale si può considerare inedito. Il testo ricostruisce il caso del bambino ebreo bolognese, dal battesimo furtivo da parte di una domestica nel 1852, al trasporto a Roma per ordine di Pio IX nel 1858, all'ordinazione sacerdotale del 1873 a Poitiers, in Francia. E' custodito nell'archivio romano dei Canonici Regolari Lateranensi, presso la chiesa di San Pietro in Vincoli. Ma nessuno dei saggisti che si sono occupati di Mortara ha mai ritenuto di dover consultare questa autobiografia, scritta in terza persona dal protagonista stesso». Perché? «Perché del Mortara "vero", non quello dello strumento polemico, non è mai importato molto a nessuno. Da subito, la sua vicenda fu utilizzata. Da Cavour, che ne fece uno straordinario mezzo di propaganda contro lo Stato pontificio: senza il caso Mortara, che mise in difficoltà i cattolici francesi, Napoleone III non avrebbe potuto stringere gli accordi di Plombières e scatenare la guerra contro l'Austria. Dalle logge massoniche. E dalla comunità israelitica internazionale. Come il caso Dreyfus fu un propellente decisivo per il sionismo (e infatti Herzl se ne rallegrò), che altrimenti sarebbe rimasto una delle tante utopie ebraiche, così il caso Mortara fu alle origini della formazione dell'«Alliance Israélite Universelle», la prima organizzazione ebraica di autodifesa in una prospettiva mondiale, e poi dell'influente Board of American Israelites». Queste sue affermazioni desteranno polemiche. «Non sono io a farle. E' lo stesso responsabile della comunità ebraica romana dell'Ottocento, Sabatino Scazzocchio, a lagnarsi delle incursioni di estranei, compresi potenti rappresentanti dell'ebraismo mondiale, senza cui il caso si poteva risolvere. E' la politica, dice, non il bambino che interessa. Scazzocchio lo scrive al padre, Samuele Levi Mortara detto Momolo, in una lettera in cui loda "l'indole benigna e caritatevole di chi siede in alto". Cioè di Pio IX». Lei stesso, nella lunga introduzione che precede il memoriale, ricorda che alla metà dell'Ottocento Roma è l'unica città occidentale ad avere ancora un ghetto. «Però gli ebrei, pur liberi di farlo, non se ne vanno. E' singolare: negli anni in cui fuggono a navi intere dall'Europa orientale verso l'America, gli ebrei restano a Roma. Rifiutano di appoggiare la Repubblica mazziniana, e al ritorno di Pio IX vanno a rendergli omaggio. Quanto all'"indole benigna e caritatevole" di quel Papa diffamato, nel memoriale Mortara fa una rivelazione: Pio IX aveva deciso di crescerlo in un istituto bolognese, dove la famiglia avrebbe potuto visitarlo regolarmente; dopodiché, verso i diciassette anni, avrebbe deciso se proseguire sulla via del cristianesimo o tornare alla religione dei padri. Fu la resistenza dei suoi, sobillati da altri, a cominciare dal medico di famiglia massone, a costringere il Papa a condurre il piccolo Mortara a Roma. Dove lo accolse e lo amò sempre come un figlio». Un figlio di soli sette anni. Le pagine dove racconta l'allontanamento dalla famiglia sono tragiche: la disperazione della madre, l'ira del padre, il suo sbigottimento infantile. Alla guardia chiede: «E ora mi taglierete la testa?» . «E' vero. Fu un dramma. E' anche vero che i funzionari pontifici presero accorgimenti per rendere il distacco il meno traumatico possibile. Ma è lo stesso Mortara a raccontarci come subito dopo la separazione della famiglia fu una misteriosa quiete, anzi gioia, a impadronirsi di lui; e come le prime parole della dottrina cattolica gli parvero familiari, al punto che se ne impadronì sin da subito. Un fenomeno in cui Mortara addita un disegno provvidenziale. Quando, dopo Porta Pia, arrivarono i piemontesi, fuggì all'estero per non farsi "liberare" dal seminario in cui volontariamente era entrato». Messori, il caso Mortara è una ferita ancora aperta. Gli ebrei italiani protestarono quando Wojtyla beatificò Pio IX. E' possibile sostenere che il Pontefice non potesse comportarsi diversamente con quel bambino? «Del caso Mortara, Pio IX avrebbe fatto volentieri a meno. Gliene vennero accuse, calunnie, dolori immensi; non a caso lo definì "il figlio delle lacrime". Subì pressioni di ogni tipo; anche da James Rothschild, finanziatore di tutti i governi d'Europa, compreso quello pontificio. Ma sempre il Papa rispose: Non possumus . Perché non aveva scelta; sia per il diritto civile, sia per il diritto canonico». Che cosa c'entra il diritto civile? «I Mortara avevano violato la legge dello Stato pontificio che imponeva agli ebrei di non tenere a servizio cristiani; e questo, proprio per evitare casi analoghi». Proprio per questo? «Fin dal Medioevo i Papi proibivano con norme severissime il battesimo di figli di genitori non cattolici; a meno che il bambino non fosse in pericolo di vita. E il piccolo Edgardo Mortara lo era. Per questo il battesimo impartitogli dalla domestica fu un atto non solo valido, per un cattolico, ma legittimo. Il diritto canonico non lascia alternative: il battesimo introduce un mutamento irrevocabile, impone di dare al battezzato un'educazione cattolica. Ancora oggi, dopo il Vaticano II, il nuovo codice canonico non innova al riguardo». Sta dicendo che il caso Mortara potrebbe ripetersi ancora oggi? «In punto di fatto, un nuovo caso Mortara oggi non è concepibile; e sono il primo a rallegrarmene. In punto di diritto, nel suo minuscolo Stato il Papa non potrebbe fare nulla di diverso da quel che fece Pio IX». In ogni caso, questo riguarda i cattolici. Per gli ebrei, Mortara resta comunque un figlio sottratto alla famiglia. «Sono consapevole, lo ripeto, che il caso Mortara fu un dramma. Lo riconobbi fin da quando me ne occupai per la prima volta, anni fa. Ma sostenni pure che Dio seppe scrivere dritto su righe storte. Ora le parole stesse del protagonista, rimaste inascoltate per un secolo e mezzo, lo confermano. Quanto alla malattia nervosa che fece penare a lungo questo sacerdote, potrebbe trattarsi di un male ereditario, di cui soffrivano altri membri della sua famiglia, compreso il padre, Momolo; come rivelò il processo intentatogli dopo l'Unità per l'omicidio di un'altra domestica, in cui alla fine, in appello, fu assolto». Messori, ci sono altri passi della sua introduzione che accenderanno polemiche. Come quando racconta che l'«Alliance Israélite Universelle» promise 20 mila franchi a chi avesse organizzato un'incursione armata a Roma per liberare il bambino e lo definisce «quasi una prefigurazione degli "omicidi mirati" dell'esercito israeliano». «Queste non sono opinioni; sono fatti. E i fatti, per restare in Francia, sono têtus , testardi. Quanto a eventuali sospetti: so bene che è esistito, purtroppo, un antigiudaismo cristiano. Ma su base religiosa; non razziale. L'antisemitismo nasce dopo il darwinismo, con il positivismo ateo, ed è messo in pratica dal nazismo. Non a caso l'ebreo Mortara è accolto dal Papa come un figlio e fu sempre un beniamino della Chiesa; ma, se non fosse morto in Belgio nel 1940, alla vigilia dell'invasione tedesca, sarebbe finito nei lager, come un'altra grande ebrea convertita, santa Edith Stein».

Dietro le sbarre delle prigioni di Dio

il Manifesto, 18/02/2005, Iaia Vantaggiato

Dietro le sbarre delle prigioni di Dio

Tutti gli uomini del Libro Tra fede e appartenenza, mito, storia e poesia il destino già scritto del popolo ebraico. Incontro con Jean Daniel, fondatore e direttore de «Le nouvel observateur», in Italia per presentare il suo ultimo libro

Neanche il tempo di stringergli la mano che Jean Daniel - fondatore e direttore de Le nouvel observateur - chiede notizie di Giuliana Sgrena: «C'è qualche novità? Forse potrei fare qualcosa, anche se ho difficoltà ad esprimere opinioni obiettive: mia figlia ha passato due anni tra l'Irak e l'Afghanistan e ogni volta che si metteva in viaggio per me era un'angoscia». Ma altro è il tema dell'incontro perché di Jean Daniel, Baldini Castoldi ha appena tradotto l'ultimo saggio - titolato La prigione ebraica - che in Francia ha già acceso animi e discussioni. Lei descrive la prigione ebraica come il luogo che gli ebrei stessi si sarebbero costruiti sulla base di una indebita confusione tra mito e storia, religione e politica. In realtà, non esiste solo una prigione ebraica. Tutte le grandi religioni monoteiste si sono costruite le «proprie» prigioni, luoghi nei quali nessun uomo si sente veramente libero e dai quali è pressocché impossibile uscire. A meno che, beninteso, non si accetti di passare per traditori, rinnegati o apostati. Poi, certo, ogni prigione ha le sue sbarre e quelle degli ebrei sono diverse da quelle dei musulmani o dei cattolici. Messa così, tuttavia, la questione sembra riguardare solo i credenti. E' proprio qui la specificità dell'ebraismo che anche ai non credenti nega la libertà. Basta sostituire alla fede il senso d'appartenenza ed è fatta. Per tutti, il Libro attiene all'ambito della fede. Per tutti, ma non per gli ebrei che nel Libro leggono e ricostruiscono la propria storia, compreso il presente. Il problema è che la Bibbia non è stata scritta oggi e che - pur essendo un magnifico testo poetico - manca del rigore e del metodo propri della storia. Intende dire che è sempre alla storia biblica che si richiamano gli ebrei non credenti? Sì, e si tratta di una storia che intreccia mito e poesia. Di quali miti parla? Di quello dell'Elezione, per esempio, che costringe tutti gli eletti al ruolo di sacerdoti o testimoni. Ma non può esistere un popolo fatto solo di sacerdoti o testimoni. Non si può fondare uno stato sulla base di queste premesse. Perché? Perché - come dicono alcuni tra i maggiori pensatori ebrei da Levinas a Leibowitz - il richiamo all'Elezione è richiamo all'eccellenza: per gli ebrei non ci sono diritti ma solo doveri e l'elezione va guadagnata tutti i giorni. Come si fa a vivere così? Come si fa a comportarsi secondo le regole comuni della vita collettiva, come si fa a fondare uno Stato e - nello stesso tempo - a osservare i Dieci Comandamenti? L'Elezione è una delle sbarre della nostra prigione. Il suo libro procede per interrogazioni continue e lascia aperte le risposte. O, meglio, ne ammette di diverse. Non le sembra una modalità argomentativa specificamente ebraica? Lei sta cercando di psicoanalizzarmi. Passiamo, allora, all'altra sbarra. L'Alleanza. Cioè l'ingiunzione, l'ordine dato da Dio ad Abramo di lasciare tutto per andare verso una terra sconosciuta ma promessa. Non c'è ancora il popolo ebraico ma c'è già la costruzione del mito di Israele nella quale - peraltro - interviene la volontà divina. Quando Theodor Herzl - peraltro ateo - comincia a concepire la creazione di uno stato ebraico, non pensa alla Palestina, cerca solo un paese. Ma quando i sionisti arrivano in Giudea e in Samaria tutti dicono: non è un caso. Anche i non credenti. E' il mito delle origini. Lei parla spesso di teologia ebraica ma è difficile trovare nella Torà un passo in cui si disquisisca dell'essenza di Dio. Piuttosto prevale il dialogo, quello stesso in cui si cimenta Giobbe da lei spesso citato. Sono assolutamente d'accordo. Il dialogo è essenziale, nella leggenda e nella storia. Quanto a Giobbe, mi è simpatico mentre non mi soddisfa la risposta di Dio. Che perlatro riesce solo ad esprimere un desiderio estremo di essere amato. Forse si sente solo. Si, però dispone di tutto il potere necessario a riempire la sua solitudine. Sharon sembra essere riusciuto laddove Rabin aveva fallito. Crede a quella stretta di mano con Abu Mazen? Sharon è stato l'ideatore e il fondatore delle colonie che ritengo essere la fonte più tragica del conflitto israelo-palestinese. Proprio per questo il suo cambio di rotta mi rallegra e penso che ci siano buoni motivi per non essere troppo pessimisti. Quanto a Rabin - se non l'avese ucciso un fanatico ebreo - avrebbe potuto realizzare il progetto di pace. Nessuno ha mai goduto più di lui di prestigio nel mondo arabo. E quando è morto ho visto gli arabi piangere. Cosa vuol dire per lei essere ebreo? Avere solidarietà accorta verso tutti i perseguitati. E, quando gli ebrei soffrono più degli altri, avere nei loro confronti un'attenzione più accorta.

Totò, il governo e le forbici della censura. Sesso e politica gli argomenti tabù.

Corriere della Sera, 28/01/2005, RANIERI POLESE

Totò, il governo e le forbici della censura. Sesso e politica gli argomenti tabù.
È in uscita un libro-documento sulla campagna di sospetti e persecuzioni che colpì l’attore dagli anni ’50

Ercole Pappalardo, impiegato statale con famiglia numerosa, rischia il licenziamento: l’odioso superiore ha scoperto che non ha la licenza elementare. Se non passa l'esame perderà il posto. Così, eccolo presentarsi alla commissione. Gli domandano di nominare un pachiderma, lui resta muto. Il presidente compassionevole gli mima una proboscide, Pappalardo s’illumina e risponde: «De Gasperi!» pensando al gran naso del presidente del Consiglio. Italia 1952: la gag contenuta nella sceneggiatura del film Totò e i re di Roma , scritta da Mario Monicelli e Steno che firmano anche la regia, non arriverà mai sullo schermo. Gli spettatori udranno invece, come risposta, «Bartali!». Non fu quello il solo intervento riservato dalla censura al film, che a più di un anno dall’inizio delle riprese uscirà fortemente mutilato e cambiato. Il punto più scabroso per i censori era il suicidio dell’impiegato che spera, dall’Aldilà, di mandare i numeri del lotto alla moglie. Produttori e registi dovranno accettare di far passare la storia per un sogno; il Paradiso, poi, diviene l’Olimpo e il dialogo fra il defunto Pappalardo e l'Onnipotente («chi più truffa più è rispettato, chi più mena più ha ragione, e gli imbroglioni i mascalzoni i delinquenti i farabutti sono quelli che comandano») viene cassato per intervento dello stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Un anno dopo il già tartassato Guardie e ladri (Steno e Monicelli: l’immagine di Fabrizi, agente di Ps che fraternizza con un ladruncolo sembra inaccettabile) comincia nei confronti di Totò una campagna di sospetti e di persecuzioni. Che si appunteranno su due temi: il sesso e la politica (che comprende non solo le battute su onorevoli e ministri, ma anche la rappresentazione comica o troppo umana delle forze dell’ordine, dei magistrati ecc.). «In realtà - dice Alberto Anile, autore di Totò proibito che esce in questi giorni da Lindau - l’offesa al comune senso del pudore serve spesso da paravento per più decisi interventi su temi propriamente politici. Un esempio: di Sua eccellenza si fermò a mangiare , un tardo film di Mattoli, 1961, che già si doveva chiamare E il ministro si fermò a mangiare , viene molto tagliata la visita che Totò, finto medico del Duce, fa alla contadinotta opulenta. Ma intanto scompaiono tutte le battute sui ministri ladri («Se è ministro, per forza!»)». Così, ne I tre ladri (1954) si taglia Simone Simon discinta sul letto, ma parte anche la scena finale di giudici e poliziotti che si tuffano a raccogliere i soldi lanciati dal ladro impunito. Di Totò all’inferno , 1955, si alleggerisce la scena della seduzione di Fulvia Franco ma cade anche la battuta del diavolo: «E’ un onorevole, dallo in pasto agli elettori». E nello stesso anno Siamo uomini o caporali viene sforbiciato sia nelle immagini di «signore nude, indossatrici semisvestite» ma anche di frasi come: «questi ministri (...) sono brutti, brutte espressioni, brutti visi»; o anche: «si stava meglio quando si stava peggio». Contenuta già nella legge del 1923, la censura è assunta dall’Italia repubblicana senza grosse modifiche rispetto a quel testo. Ma in più entra in uso la prassi, per i produttori, di consegnare le sceneggiature già prima dell’inizio delle riprese. Questo dovrebbe consentire ai funzionari di indicare subito eventuali cambiamenti, ed evitare la bocciatura a film ultimato. Il cinema e lo spettacolo, in assenza di un ministero, fanno capo alla presidenza del Consiglio e, per delega, al sottosegretario. Giulio Andreotti riveste questo ruolo nei governi De Gasperi dal 1947 al ’53. Lavora alla rinascita della cinematografia nazionale («dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima e nello stesso tempo attraente»), anche se il suo nome resterà legato ai «panni sporchi» che il neorealismo, e De Sica in particolare, avevano secondo lui il torto di esporre in pubblico. I primi guai, Totò e i suoi film li passano sotto Andreotti; di certo, per i censori il comico surreale e burattino che si cala nei problemi sociali della ricostruzione non va bene. Totò non è, non è mai stato di sinistra; però - si ragiona così nelle commissioni censura - certi registi (Monicelli) e certe tematiche populiste possono trasformarlo in una pericolosa arma di critica al governo. Così, quando dopo varie traversie i film ottengono il nulla osta, sono spesso bollati con il divieto ai minori di 16 anni (e contemporaneamente dal giudizio «Escluso» del Centro Cattolico Cinematografico). Il culmine dell’accanimento si registra nel ’54, per Totò e Carolin a di Mario Monicelli. La strana coppia formata dal poliziotto buono e dalla ragazza incinta scappata di casa eccita i più efferati interventi che, dopo un anno e mezzo di battaglie, audizioni, polemiche, arriverà nelle sale con oltre venti minuti in meno e un’infinità di cambiamenti nelle parti parlate. Di questo film, il caso monstre dei nostri anni ’50, si era occupato Tatti Sanguineti che nel 1999 presentò a Venezia i risultati delle sue ricerche. «Faceva parte del progetto "Italia Taglia" nato due anni prima» spiega Sanguineti. «Una esplorazione sulla censura in Italia, una ricostruzione della storia proibita del cinema italiano. Che oggi, dopo una interruzione, può riprendere grazie a un nuovo finanziamento ministeriale». Il ’54 però vede un cambiamento di ruoli. Quell’anno al posto di Andreotti subentra Oscar Luigi Scalfaro, certo meno addentro alle cose del cinema. E che forse, insinua Alberto Anile, aveva ancora il dente avvelenato con Totò. Tutto per via della lettera all’ Avanti che il comico mandò dopo l’episodio (1950) della signora Toussan, apostrofata dall’onorevole Dc come "donna disonesta" perché in un locale pubblico esponeva spalle e braccia scoperte. Sfidato a duello dal padre e dal marito della donna, Scalfaro si rifiutò in nome del «sentimento cristiano». E il principe Antonio Focas Comneno De Curtis, in quella lettera, gli impartì una lezione di cavalleria. Dal ’54 al ’62, anno della nuova legge sul cinema (che introduce due divieti, ai minori di 14 e di 18 anni, e apre le commissioni di censura ai rappresentanti delle categorie dello spettacolo), i guai di Totò si moltiplicano. Si creano problemi per I soliti ignoti (titolo originario, bocciato, Le madame ) , per I due marescialli , per Chi si ferma è perduto . Prevedibili difficoltà incontra Arrangiatevi! girato in una ex casa chiusa. Ma l’episodio più bizzarro tocca a Totò Peppino e la dolce vita (1961) che sconta, insieme, gli ultimi rigori della vecchia legge e le vendette dei censori che nulla avevano potuto fare contro il film di Fellini. Cadono fotogrammi di feste, si cancellano battute sui ministri che deviano l’autostrada per contentare i propri elettori, si cassano allusioni alle «polverine», i giochi di parole con i Proci. Insomma, un’ecatombe. Totò, ormai quasi cieco del tutto, assillato dalle tasse, si appresta a girare le cose più alte della sua carriera: con Pasolini fa Uccellacci uccellini e i due episodi, Il mondo visto dalla luna e Cosa sono le nuvole . Potrebbe accomiatarsi sereno, se non fosse per l’ultimo spregio che viene dalla Rai-Tv che, nel fargli confezionare gli episodi di un TuttoTotò (1967), torna a vessarlo con assurdi tagli e rigidissime censure. E pensare che lui sulla televisione aveva sempre avuto dei sospetti, almeno da quando, 1958, durante una puntata del Musichiere , gli era scappato un «Viva Lauro!» che gli costò un lungo ostracismo. Conservatore, aristocratico, monarchico e qualunquista si era trovato a far la parte del sovversivo per troppi anni. Oramai, era veramente tempo di chiudere.