mercoledì 29 aprile 2020

pubblicità della macchina da scrivere Olivetti lettera 22 - 1958


recita il testo
Ha la risposta facile

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Olivetti Lettera 22

sabato 25 aprile 2020

Federico Il di Svevia - Saggezza di un Imperatore


Mario Bernabò Silorata,
Federico Il di Svevia. Saggezza di un Imperatore,
 Nardini-Convivio, Firenze 1993, pagg. 244, lire 38.000.

L’ottavo centenario della nascita di Federico II di Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero, cade a proposito per ricordare e celebrare una delle personalità più eminenti della storia europea. In lui si assommarono le qualità dell’uomo di vasta cultura e dello statista illuminato, insieme a quella particolare sensibilità per le virtù sovrane della regalità che ne ha fatto l’esempio massimo del potere medievale.
Il lavoro di Mario Bernabò Silorata ci restituisce con appassionata partecipazione tutta l’immagine dello Stupor Mundi, di colui che anticipò i tempi con una concezione ‘laica” dello Stato supportata da una raffinata impostazione culturale, che divenne fecondo punto d’incontro di più civiltà. Egli seppe far convivere la tradizione latino-germanica portatrice dell’idea della monarchia sacrale, la tradizione normanna, fondata sull’accentramento burocratico e sull’efficienza delle istituzioni, e la tradizione araba, con il suo amore per il sapere e per un certo edonismo, cui l’imperatore svevo indulse con sfarzo spregiudicato.
Quasi già uomo rinascimentale per questo sincretismo e per la capacità di farsi acuto osservatore della natura, Federico non si sottrasse però alla mentalità medievale, ad esempio nell’interesse per l’astrologia, esercitando in tutti i casi uno straordinario fascino, che perdura ancora ai nostri giorni. La forte personalità del nipote del Barbarossa si mostra sia nella salda gestione del potere imperiale, rivendicato nella sua supremazia lungo una lotta pluridecennale col Papato, sia nell’ampiezza degli interessi scientifici e letterari, che attirarono presso la sua celebre Corte un gran numero di intellettuali di alto valore, fonte e prima espressione di cultura e lingua italiana. Gran mecenate della scuola poetica siciliana, poeta egli stesso, ma politico lucido e pervicace nel suo dise­gno di supremazia: questi gli estremi tra i quali un animo nobile ma violento, magnanimo ma vendicatore, risoluto ma a volte stranamente arrendevole, riassunse in sé le contraddizioni dell’epoca, mistica e insieme sanguinaria.
La biografia del personaggio, nelle linee essenziali, è nota a tutti. Figlio di Enrico IV e di Costanza d’Altavilla, rimasto presto orfano, posto sotto la tutela di Innocenzo III, il papa suo futuro nemico, neI 1208 Federico assunse il governo del Regno di Sicilia e Puglia; nel 1215 divenne re di Germania, e nel 1220 il nuovo pontefice Onorio III lo consacrò imperatore. Crociato in Terrasanta, ripristinò il Regno di Gerusalemme per via diplomatica, aprendo col sultano saraceno rapporti amichevoli; domò la ribellione del
figlio Enrico in Germania e quella dei Comuni italiani, che batté a Cortenuova. Nonostante due scomuniche e la deposizione proclamata dal Concilio di Lione nel 1245, il suo prestigio rimase intatto e anzi rappresentò il catalizzatore di quanti vedevano nella Chiesa dell’epoca il tradimento dei postulati evangelici, tanto che Silorata lo giudica un antesignano dei più tardi fermenti riformistici: « Per la sua visione politica e laica, Federico sarebbe stato, forse, l’Imperatore ideale al tempo della grande Riforma Luterana «.
L’ostinata inimicizia portatagli specialmente da Onorio III e Innocenzo IV — sui cui subdoli disegni per eliminare fisicamente Federico l’autore torna più volte, sottolineando la sete di potere che guidava un papato ridotto ormai a centrale di intrighi — non fu però mai tale da far vacillare il trono dello Staufen, che si trovò a dover lottare su più fronti, costretto a tener testa a tutti i contropoteri coalizzati volta a volta dal Papa: da anti-re di Germania frettolosamente oppostigli alla Lega Lombarda, di continuo istigata alla ribellione in qualità di mano militare al servizio del dominio secolare e territoriale del Soglio. Pur in queste ristrettezze di orizzonte politico, cui soggiacquero i suoi antagonisti, e pur vittima dell’immaturità dei tempi, Federico non ebbe che rare cadute di tono; i suoi nervi, diciamo così, saltarono solo poche volte, come nell’occasione della ribellione del figlio Enrico, che fu costretto a lunga e dura prigionia, o come quando, neI 1249, scoprì una congiura a suo danno ordita da nobili del Regno, tutti brutalmente torturati e uccisi con impassibile crudeltà. Per il resto, le sue repressioni contro gli eretici — giudicati pericolosi per motivi politici e non religiosi — o le devastazioni di città infedeli rientrano nelle “normali” misure dell’epoca; stupisce semmai l’estrema pacatezza di cui dette prova più volte (ad esempio con le offerte di pace indirizzate a Innocenzo IV nel 1245, in cui fu inclusa la rinunzia al trono), con punte di moderazione di fronte alle quali anche Bernabò Silorata si interroga: « E difficile dare una spiegazione a quella resa totale, così come è difficile credere che un uomo come Federico avrebbe potuto rinunciare tanto facilmente al suo grande capolavoro. Possiamo solo tentare di intuire i pensieri di Federico in quel momento cruciale della sua vita: voleva salvare l’Impero affidandolo nelle mani del figlio «. Forse fu reso un po’ fatalista dalla dimestichezza con la mentalità araba, o forse era sinceramente preoccupato di non sospingere la lotta contro il Papato fino all’estremo limite, dando il via ad una guerra senza quartiere dall’esito incerto, comunque pericolosa per l’integrità dell’Impero. Fatto sta che la temperanza federiciana pare inusuale per un sovrano a più riprese bollato come eretico, Anticristo, sentina di ogni vizio.
Al di là dell’estenuante prova sostenuta con quattro Papi, con i Comuni lombardi e con i feudatari siciliani e tedeschi, al di là del dualismo con le pretese temporali dei successori di Pietro, Federico Il ha comunque lasciato alcune tracce nella storia che sono ditale portata da farne in ogni caso un unicus. Dalle Costituzioni di Melfi, monumento della legislazione medievale cui non furono estranei influssi tanto normanni quanto bizantini (questi ultimi nella figura del sovrano despota assoluto ma benevolo e saggio), parte una serie di indicazioni sorprendentemente moderne, come la proclamata intenzione di preferire la prevenzione dei delitti alla loro repressione o l’istituzione di una specie di previdenza sociale per i sudditi indigenti. Ma da esse muovono anche suggestioni prettamente tradizionali sulla natura divina e trascendente del potere, che possono essere riassunte da quei particolare statuto giuridico chiamato invoca­tio nominis Imperatoris, un appello aperto a tutti al nome sovrano, di per sé riconosciuto come valido per assicurare “alla voce” l’intimidazione del reo e l’ottenimento di giustizia: istituto arcaicissimo nei suoi risvolti magico-sacrali. Le Costituzioni melfitane segnano in ogni caso il trionfo di una concezione cen­tralista, rivolta all’ecumene imperiale pur in una real­tà disarmonica e spezzettata dai forti poteri feudali ancora in grado di opporre resistenze tenaci.
Ma la traccia di Federico è anche altrove: nella fondazione dell’Università di Napoli, pensata in opposizione a quella ecclesiastica di Bologna, oppure nella promulgazione della Bolla d’oro di Rimini (1226), la carta che, elevando il Gran Maestro dell’Ordine Teutonico a principe dell’Impero in qualità di sovrano territoriale, sta a fondamento della Prussia germanica, di cui costituisce il primo atto storico. Conoscitore di cinque lingue, circondato da dotti di ogni razza, scrittore, padre di una pletora di figli, legittimi e illegittimi, divulgatore di quel trobarclus provenzale che ne sollecitò certe non chiarite simpatie per i Fedeli d’Amore, Federico li ebbe in più la tempra guerrie­ra del nonno Barbarossa e la rara capacità di saper scegliere i collaboratori e gli alleati. E ne ebbe di prestigiosi: il dantesco Pier delle Vigne, massimo giurista del tempo, il Gran Maestro Hermann von SaIza, diplomatico, lo statista Taddeo di Sessa, fino al fa­migerato ma fedele Ezzelino da Romano. Federico, che, come scrive Bernabò SiIorata, « sarebbe potuto diventare fondatore dello Stato italico » se non fosse stato intralciato dal malconcepito cesaropapismo romano, morì all’apice dei potere e praticamente invitto. Scomparso lui, alla metà del secolo, l’impero imboccò la strada di un lento tramonto, e invano Dante ed altri ingegni dopo di lui scrutarono l’orizzonte della storia per indovinare un suo erede. il « figlio del vento di Svevia» non ebbe continuatori politici della sua portata, e il messaggio di un Impero continentale rimase solo un sogno generoso.

Luca Leonello Rimbotti

Da Diorama Letterario - Firenze

domenica 19 aprile 2020

Barbarie ecologica Usa contro il Vietnam


Da Tempi Nuovi, edizione italiana, marzo 1984, pagina 11
Barbarie ecologica Usa contro il Vietnam

Boschi sempreverdi, una volta rigogliosi, dei quali sono rimasti solo tronchi nudi e deformi. Terreni, così ubertosi, ora incoltivabili, Bambini che nascono con deformazioni genetiche.. Queste le conseguenze della guerra chimica, barbara, condotta per 10 anni dagli USA contro Il Vietnam. Per la prima volta nella storia delle guerre vennero sterminati — con cinica costanza — non solo uomini, ma anche l’ambiente: aree agricole, boschi, la giungla. Anche oggi è difficile fornire dati completi sulle proporzioni dei danni arrecati dagli USA alla salute della popolazione e all’ambiente del Vietnam.

Le truppe USA hanno rovesciato sulla terra del Vietnam oltre 90 mila tonnellate di erbicidi e di defolianti. Queste sostanze — quando sono utilizzate nell’agricoltura in quantità rigorosamente dosate e controllate — portano vantaggi all’uomo. Ma, impiegate in quantità enormi, hanno minato l’intero sistema rurale della sussistenza” dei vietnamiti, è scritto nel documento finale del simposio scientifica internazionale, svoltosi un anno fa nella città Ho Chi Minh (Vietnam), Noti ecologi e medici degli USA, inghilterra, URSS, Vietnam e di altri paesi hanno discusso a questo incontro i risultati preliminari dello studia delle conseguenze della guerra chimica condotta dagli USA nel sud del Vietnam.

Non è stata una scoperta inaspettata, questa, Già nel 1966, nel pieno della guerra chimica USA nel Vietnam, 5 mila studiosi americani — tra cui 17 laureati del premio Nobel e 127 membri dell’Accademia delle scienze newyorkese — hanno protestato contro l’impiego delle tossine, rilevando il fatto che gli aggressivi chimici sono molto nocivi per la salute della popolazione e per l’ambiente. Alla conferenze svoltasi nel 1970 ad Orsay (nei pressi di Parigi) gli scienziati hanno riconfermato che le sostanze tossiche impiegate nel Vietnam avevano esercitato ed eserciteranno in futuro un influsso micidiale su tutte le forme della vita, il loro effetto orribile si ripercuoterà sulla salute delle future generazioni. Lo hanno ammesso a suo tempo anche alcuni politici degli USA. Il senatore Nelson ha detto nell’agosto ‘70 al Congresso degli USA che, ovviamente, gli USA “hanno Innestato nel Vietnam una mina ecologica ad azione ritardata”.

Il Vietnam ha subito solo una parte minuscole del potenziale chimico bellico statunitense, I tipi principali di tossine vengono preparati dal Pentagono per una futura guerra chimica. Le loro scorte bastano per creare in un istante una nuvola di gas micidiali su un intero continente. Circa la stessa quantità di tossine può essere prodotta dagli stabilimenti chimici militari USA nell’arco di un anno, I fabbricanti della morte aspettano solo il segnale, Per comprendere la gravità del pericolo insito nell’impiego delle armi chimiche, bisogna moltiplicare per migliaia di volte gli orrori sofferti dal Vietnam.
Pavel Akimov

mercoledì 8 aprile 2020

copertina di 100 vignette per la libertà di espressione

copertina di 100 vignette per la libertà di espressione.
100 dessins de cartooning for peace
pour la libertè
de la presse

domenica 5 aprile 2020

Non ne possiamo più della Moda

Ugo Volli 
Contro la Moda
 Feltrinelli, 1988  

Dall’introduzione

Non ne possiamo più. Di stilisti, di modelli, di tendenze, di revivai. Di mode culturali, di malattie del tempo, di pensieri obbligatori, di quel che è “in” e quel che è “out”. Di opinion leader,   reincarnazioni punk di Lord Brummell, neo-dandies che si vantano di esistere. Di nuovi galatei, ultimissimi elenchi di dove andare   in vacanza, innamoramenti collettivi, cantanti costruiti con la plastica, ristoranti da non perdere, mostre che fanno epoca. Di voti    stelline e asterischi ai film ai libri e ai cibi, di classifiche dei bestsellers, sondaggi d’opinione, copertine di settimanali. Non ne possiamo più di false novità, di informazioni inesistenti, di immagini    e superfici esaltate per la loro inconsistenza. Di stilisti, sarti, parrucchieri; dei loro profeti, venditori, apologeti, poeti di corte e    adoratori ufficiali.      

Non ne possiamo più della Moda.      

Vorremmo forse abolirla, ci piacerebbe forse tornare al tempo    lungo del mondo egizio, dove il costume non cambiava quasi per    migliaia d’anni e gli scocciatori dell”ultima novità” erano altrettanto rari. Eppure ci viviamo dentro, tutti quanti. Alcuni, in numero sempre maggiore — non solo gli stilisti, i fabbricanti di scarpe    e i bottegai ma anche i giornalisti, gli editori, gli architetti, la gente    della televisione e della pubblicità, gli.” operatori del terziario    avanzato” — ci mangiano. Il pane quotidiano non è probabilmente    un buon motivo teorico per sostenere l’importanza di un fenomeno, ma a molti importa.

mercoledì 1 aprile 2020

La Befana dello scrutatore


La Befana dello scrutatore
Da “Il Male”, 20 giugno 1979, pagina 6 

All’apertura delle urne, nei seggi c’era un’atmosfera di tiepida e gioiosa attesa.
Si era capito da mille segni, che l’area creativa si era scatenata, si erano visti elettori entrare nella cabina con grossi involucri e uscirne con l’aria furbetta e il sorriso sulle labbra e che, mentre consegnavano la scheda al presidente del seggio, ammiccavano compiacenti quasi a voler dire: “vedrai che sorpresa”.
In questa atmosfera festosa si dava inizio allo spoglio delle schede. Le gags più divertenti, le frasi più spiritose, i disegni sconci giravano di mano in mano e venivano commentati da tutti i presenti. Quando poi dalla scheda. usciva una fetta di salame o di mortadella era una festa; si assaggiava, si commentava, si facevano confronti. Ogni tanto, è vero, dall’urna usciva qualche scheda con il vecchio voto tradizionale e magari anche con le preferenze, che faceva spegnere i  sorrisi. Ma subito dopo, ecco comparire un “Viva Bartali”. 1’atmosfera si ravvivava e il voto veniva attribuito al PRI, che aveva provveduto  a far circolare le foto di Biasini in bicicletta.

Ma questo happening, non deve farci dimenticare i problemi che si sono verificati e che si verificheranno in misura ancora maggiore, se è vero — come ormai sembra appurato
— che alle prossime elezioni ad ogni elettore verrà consegnata una scheda completamente bianca e delle matite colorate in modo da permettergli di esprimere la propria creatività. (l’esperimento è già stato tentato a Reggio Calabria dove sono state distribuite matite rosse e bleu).


Se è vero infatti che alcuni epiteti scritti sulle schede non lasciano dubbi sulle intenzioni dell’elettore nessuno ha avuto e nessuno ha avuto da ridire che i 22.384 «stronzi » fossero attribuiti
alla DC, non ci sembra giusto che tutti i  «LADRI, ubriaconi, galeotti ; mariuoli, scassinatori, rubagalline, lesti di mano » siano andati ad incrementare il monte voti del PSDI. Bene hanno fatto i socialisti a non accontentarsi dei loro indiscutibili “maiali, venduti, terroni” e a chiedere che almeno “ladri” venisse equamente diviso tra tutti i partiti.
Anche in questo caso si sono distinti comunisti e i democristiani che si sono scannati per l’attribuzione dei circa 57.765 «gesuiti, preti, servi del Vaticano ».
Alle prossime elezioni gli elettori cerchino di essere più chiari! Non facciamo la solita figura di merda con i partners europei.

Da “Il Male”, 20 giugno 1979, pagina 6