lunedì 3 marzo 2008

Silenzio, la storia parla con gli occhi

La Stampa, 25/07/2002

Giovanni De Luna

COME LE IMMAGINI HANNO CAMBIATO IL LAVORO DEGLI STUDIOSI: UN SAGGIO DI BURKE
Silenzio, la storia parla con gli occhi

LA tesi di fondo dell'ultimo libro di Peter Burke (Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, appena uscito dall´editore Carocci) è che le immagini, proprio come i documenti scritti e le testimonianze orali, rappresentano una «prova» storica di grande importanza, quasi fossero vere e proprie testimonianze oculari. Dipinti, fotografie, fotogrammi cinematografici, manifesti scaturiscono in genere da una norma alla quale gli artisti si sono attenuti in alcune culture - dagli antichi greci in poi - per rappresentare quello - e soltanto quello - che avrebbe potuto vedere un testimone oculare da un particolare punto di osservazione in un momento particolare. Burke è una grande storico del Rinascimento e ha alle spalle una lunga frequentazione con le fonti iconografiche, così che è in grado di fornire esempi di grande suggestione che spaziano fino alla cronaca e all'attualità, confrontandosi con immagini di ogni genere, immagini del sacro, immagini del potere, immagini della società, immagini di avvenimenti storici e così via. Ma non si nasconde le difficoltà metodologiche legate al ricorso alle immagini come prova. Non è solo il problema della loro autenticità, del loro numero straripante, della loro predisposizione alla falsificazione, quanto quello della loro «intenzionalità». Mentre la critica delle fonti sui documenti scritti si è consolidata nel tempo, quella sulle immagini si sta ancora faticosamente elaborando. Studiare le «intenzioni» di chi ha creato quelle immagini è il suo aspetto decisivo. Non esiste, ricorda Burke, un occhio innocente, ovvero un punto di vista del tutto obiettivo. Così è sempre indispensabile riconoscere «le intenzioni» dell'autore, il suo progetto politico e culturale, il suo retroterra psicologico; subito dopo, però, occorre anche far parlare quei documenti «malgrado se stessi», scavalcare le intenzioni dell'autore e valorizzare, alla fine, proprio i loro elementi «non intenzionali», quelli cioè che sono rimasti impigliati nelle immagini al di fuori della capacità di controllo degli autori. Importante è, come diceva Michelet, «mettere la fonte sul tavolo della tortura e estorcerle informazioni»: in questo senso, paradossalmente, una fotografia «falsa» ci può dare molte più informazioni di quelle «vere». Tra i numerosi falsi citati da Burke (compresa la famosa foto del miliziano morente di Robert Capa, pubblicata nel 1936), su uno, in particolare, vale la pena soffermarsi per approfondire il suo ragionamento. Forse la più famosa collezione di fotografie documentarie degli Stati Uniti è quella che proviene dalla Farm Security Administration, un ente del governo federale guidato da Roy Stryker che, fra il 1935 e il 1943, scattò più di trecentomila fotografie. In questo straordinario archivio è rimasta impigliata gran parte della vita quotidiana e dell'esistenza collettiva della società americana negli anni Trenta. La più nota tra queste immagini, è la fotografia di Dorothea Lange, la Madre profuga: il ritratto della famiglia dolente, con le tre figlie strette intorno alla mamma in un desolante quadro di povertà e di tristezza, è ancora oggi l'immagine più carica di sapore evocativo delle condizioni in cui versava l'America caduta nei gorghi provocati dal crollo di Wall Street nel 1929. Ebbene, come ha fatto notare Jane Curtis, quella fotografia scaturisce da un certo numero di sottrazioni: mancano il padre e gli altri quattro figli e la figlia adolescente è assente da quattro delle cinque foto della serie intitolata alla Madre profuga. Per gli scopi che si prefiggeva la Lange, per emozionare e commuovere un'opinione pubblica affollata di piccoli borghesi e classi medie, una famiglia di nove membri rappresentava un «eccesso» poco edificante; inoltre, l'assenza del padre poteva far pensare che tutto il peso del sostentamento della famiglia fosse scaricato sulle spalle della «madre profuga». L'eliminazione della ragazzina adolescente rende poi chiara l'intenzione della Lange di emozionare senza indignare, di sollecitare l'opinione pubblica ma rassicurandola: laddove i bambini piccoli negli anni Trenta erano simbolo di una innocenza smarrita, gli adolescenti rinviavano all'assillante problema della delinquenza giovanile ed era meglio, perciò, rimuoverli. «Vere» o «false» che siano, le immagini racchiudono sempre straordinarie conoscenze per gli storici. Per potersene servire, però, occorre che gli stessi storici facciano un passo avanti anche in relazione ai risvolti soggettivi del loro lavoro. Burke non se ne occupa, ma forse vale la pena riflettere su cosa comporta per chi fa quel mestiere confrontarsi con le trasformazioni delle forme sensoriali che derivano dal bagno di immagini e suoni in cui siamo immersi; lo ha scritto Paul Valéry: «come l'acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Questa familiare, assidua frequentazione di sensi come la vista e l'udito cambia il modo stesso degli uomini di entrare in relazione tra di loro e con il mondo esterno. È stato così, ad esempio, con l'irruzione della fotografia nel processo della riproduzione figurativa e la relativa sostituzione dell'occhio alla mano: «un occhio è più rapido a afferrare che non la mano a disegnare». Rudolph Arnheim aveva vaticinato negli anni Trenta che, attraverso il cinema e la televisione, «gli esseri umani sarebbero arrivati a confondere il mondo percepito dai loro sensi e il mondo interpretato dal pensiero e avrebbero concluso che vedere è capire». E, d'altra parte, l'occhio può essere a sua volta scavalcato dall'orecchio; nel caso dei film, della televisione e dei media audiovisivi in generale si suscita nello spettatore «una specifica disposizione percettiva», disposizione che può essere definita audiovisione. In questo caso, l'occhio e l'orecchio procedono affiancati in un'unica combinazione audiovisiva, in cui una percezione influenza l'altra, trasformandola: non si «vede» la stessa cosa quando si sente; non si «sente» la stessa cosa quando si vede. Così, oggi, gli storici, oltre a voler descrivere e interpretare i loro personaggi, li vogliono anche vedere. Goethe ha detto in una sua elegia che le mani vogliono vedere, gli occhi desiderano accarezzare; per lo storico lo sguardo vuol diventare parola e viceversa, in un'operazione intellettuale in cui tutti i suoi sensi sono messi contemporaneamente al lavoro. Questo è un banco di prova decisivo per lo storico di oggi: deve essere in grado di conoscere le diverse rappresentazioni del sistema sensoriale e delle modalità del suo funzionamento. In passato, la descrizione del piacere del corpo, del gusto, dell'olfatto e degli umori della voluttà gli era tradizionalmente inibita, gravata dall'interdetto che rendeva indicibile tutto quanto si avvicinava alla soglia del pudore; lo storico della contemporaneità sceglie invece di attraversare consapevolmente quella soglia, avvicinandosi a una modernità che è fondamentalmente costituita dalle trasformazioni delle forme sensoriali, visive, tattili, olfattive. Giovanni De Luna