lunedì 3 marzo 2008

Guerre sante: per Maometto o per la Croce

Corriere della Sera, 06/02/2003

Guerre sante: per Maometto o per la Croce

Un saggio di Dag Tessore sulla «spiritualità delle armi nel Cristianesimo e nell’Islam». Dagli scritti dell’Antico Testamento alla jihad

Tra le infinite definizioni che sono state date della guerra, una ha avuto particolare fortuna. Si deve a Karl von Clausewitz, generale e teorico tedesco tempratosi nelle battaglie contro Napoleone, attento lettore di Kant: «La guerra è un vero strumento della politica... una sua continuazione con altri mezzi». Il saggio di Dag Tessore, presentato in questa pagina, porta alla luce in un periodo critico come l’attuale testi e interpretazioni che hanno cercato di giustificare e di opporsi alla guerra. L’uomo l’ha sempre fatta e l’ha sempre temuta. La Bibbia e il Corano ne accettano la presenza, anche se aggiungono un aggettivo, a seconda di epoche o esigenze: la guerra può essere «santa», «giusta», intrapresa per debellare il male, l’eresia o altro. La politica, dal canto suo, ci ha abituati a guerre «inevitabili», «difensive», per la pace e così di seguito. Tommaso d’Aquino e Agostino, che l’accettavano per il bene comune, per il medesimo motivo acconsentivano alla pena di morte e ai mezzi energici contro eretici e infedeli (Tommaso nella Summa theologiae : «Non per costringerli a credere... ma solamente per costringerli a non ostacolare la fede di Cristo»). La guerra però è guerra. È tempo di non aggiungere più aggettivi. Il Corano ha almeno una ventina di versetti che invitano alla pace. La Bibbia ne ha di più e il Nuovo Testamento resta una delle fonti indispensabili per la non violenza. Tuttavia, non ci si deve dimenticare dei passi opposti, delle mille interpretazioni, dove l’invito al conflitto è palese. Se qualcuno si turba leggendo la Cantica del Mare nel libro dell’Esodo perché in un passo si legge: «Il Signore è uomo di guerra» («Ha-Shem ish milchamà», 15,3), sappia che Dio non è soltanto questo. Così se nella seconda sura del Corano si trova: «Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate e scacciateli da dove hanno scacciato voi, poiché lo scandalo è peggio dell’uccidere», legga anche quel versetto della sura 56: «E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato ma solo una parola: "Pace, Pace!"». C’è sempre una ragione (e un versetto) in più per non fare la guerra, anche se Hegel era molto favorevole ad essa e scrisse nei Lineamenti di filosofia del diritto che si deve considerare un bene in cui si conserva «la salute etica dei popoli», così come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione. La medesima salute era stata caldeggiata nel Medioevo per le anime, tanto che un fine teologo e santo come Pier Damiani poteva rivolgersi a chi difendeva la Chiesa invitandolo a «trafiggere i colli di coloro che si oppongono a Dio». Sull’argomento si possono scrivere tutti i libri che si vogliono, ma non bisogna mai dimenticare le quattro parole latine che Livio ci ha lasciato nel XXXIV libro della sua storia romana: «Bellum se ipsum alet», ovvero: «La guerra nutre se stessa». Le guerre cominciano per egoismi camuffati da questioni di principio. I vincitori, nota von Clausewitz - in tal caso lettore di Machiavelli - detteranno le nuove leggi e avranno, almeno per un buon periodo, ragione. Può essere, però, che l’umanità sia giunta a un punto critico, oltrepassato il quale queste vecchie regole possano saltare. Non è facile capirlo oggi. Di certo il nuovo millennio ci dirà qualcosa.