sabato 31 maggio 2008

LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA

Corriere della Sera 23 mag. ’08

LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA

Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città
di PIERLUIGI PANZA
Il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi
architetti e ucciso l'urbanistica. È la sostanza della tesi che l'antropologo
dell'Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà della situazione
dell'architettura in un saggio ( Contro l'architettura, Bollati Boringhieri,
pp.118, e 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione
di uno studioso «fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti
di Tom Wolf (1982). E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell'architettura,
ha per lo più «ridotto » gli architetti ad artisti creatori di oggetti «alla
moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e
della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come «stilisti») al
«servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace — afferma La Cecla — non
ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono
state le marche di moda a trasformare l'architettura in moda». Quello che gli
artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato
dell'arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi,
afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della
maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E
una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli
architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo
il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare
l'architettura, l'arte e il design dal «giornalismo culturale» al «giornalismo
di moda», direi dell'«intimo », con responsabilità gravi per il nostro
territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune
«archistar » che finiscono con l'occuparsi «di decoro, di cose carine», come
mutande disegnate da calciatori o starlet. Morti Tafuri e Zevi, alla critica e
alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione collegata ai problemi
dell'immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom non
sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del
consenso. Così c'è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter,
qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c'è qualcun altro, come
Frank O. Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato
che sulla sua testa piovano accuse come quelle contenute nel libro di John
Silber della Boston University dal titolo esplicito: Architettura dell'assurdo.
Come il genio ha sfigurato la pratica di un'arte. Ma La Cecla accusa anche la
«continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una volta che
questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che
diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in
generale, a tutta l'architettura di quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine
degli anni 80 hanno promosso l'idea che l'abitare andasse risolto con grandi
costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città», generando
mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel
Foucault. Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa»
ad «alloggio » l'orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha
spianato la strada all'affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al
decostruttivismo internazionale. L'idea tayloristica di stoccare gli individui
come ingranaggi di un sistema all'interno di alloggi razionali ha distrutto
l'orizzonte storico-simbolico dell'architettura, ovvero quello delle relazioni
primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli
architetti dovranno pur portare una responsabilità! Naturalmente, di fronte alle
accuse di La Cecla, la comunità che si autolegittima «addetta ai lavori» già
stringe le fila, cercando di depotenziare l'analisi a «logica di gossip» (Fulvio
Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al
progetto». Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si
lascia andare a una adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma
mette a nudo le responsabilità del mondo dell'architettura. Gli architetti sono
rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo
dall'interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole
stilistiche) e non dal confronto con gli altri nuovi campi del sapere,
strutturando per decenni un pensiero «unico» di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti ». Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile perdita di centralità dell'architettura.
L'essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso. Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società. Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l'architettura di fronte alle difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l'affermarsi o meno di città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l'interrogarsi su cosa voglia dire declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell'architettura organica.