martedì 3 giugno 2008

L'illusione del capitalismo eterno

Corriere della Sera 3.6.08
Scenari Un libro dello scienziato, edito da Mondadori, riapre il dibattito sugli obiettivi della crescente industrializzazione: profitto o miglioramento della vita
L'illusione del capitalismo eterno
Effetto serra e benessere: Severino replica all'«ambientalista scettico» Lomborg
di Emanuele Severino

Dopo la fine dell'Unione Sovietica è divenuta dominante — sebbene da qualche tempo discussa — la convinzione che il capitalismo sia la forma sociale ormai incontrastabile. Molte le conferme. Ad esempio il fatto che l'unica «superpotenza » mondiale rimasta in campo, gli Usa, sia insieme il luogo per eccellenza dello sviluppo capitalistico. Oppure la paradossale adozione del capitalismo da parte della stessa Cina «comunista». O, anche, la consapevolezza che il supporto teorico del socialismo reale, cioè il marxismo, appartenga ormai al passato dell'indagine filosofica ed economica. È una conferma di questo modo di pensare la stessa mobilitazione contro il capitalismo da parte delle forze che ne sentono l'incombere, tra le quali l'Islam, la Chiesa cattolica, i movimenti ecologici e «di sinistra» che vedono nel capitalismo il principale responsabile della devastazione della Terra.
Che ciò sia scientificamente provato è però tutt'altro che pacifico. Anzi, quanto più i mass media, i politici, gli ambientalisti vanno da qualche tempo additando all'opinione pubblica il pericolo di una catastrofe imminente, provocata dalla crescente industrializzazione, tanto più la scienza ufficiale tende a scagionare quest'ultima da tale responsabilità. Esempio notevole di questa tendenza il libro dello scienziato danese Bjorn Lomborg, che Mondadori ha appena pubblicato con il titolo Stiamo freschi. Perché non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale. Chiaro, compatto, impressionante per la mole e la qualità delle informazioni. Se non erro, l'autore non usa mai la parola «capitalismo», ma si preoccupa di dissipare il sospetto che egli scriva per conto di qualche multinazionale del petrolio. La sua tesi di fondo è, cioè, che l'accusa al capitalismo di devastare la Terra e il conseguente proposito di detronizzarlo non abbiano alcun fondamento scientifico.
Da più di trent'anni i miei scritti sviluppano invece la tesi che anche il capitalismo è destinato al tramonto, come lo era il socialismo reale e come lo sono tutte le altre grandi forze della tradizione occidentale (e orientale). In Declino del capitalismo (Rizzoli, 1993) rilevo che anche supponendo che il carattere distruttivo del capitalismo non abbia alcun riscontro scientifico, anche in questo caso la convinzione dell'esistenza di questa distruttività sta però vistosamente diffondendosi (né Lomborg lo nega, anzi lo depreca vivacemente), e a tal punto da prender piede all'interno dello stesso mondo capitalistico, tanto da indurlo a cambiar strada e, alla fine, a rinunciare a se stesso. Il maggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso, non i suoi avversari dichiarati. Ma Lomborg ritiene, insieme a tanti altri, che la scienza possa aver partita vinta sull'«oscurantismo» (e si dà in molti modi da fare per fargliela vincere); il che implica che, contrariamente a quanto sostengo, non vi sia alcuna destinazione del capitalismo al tramonto. E allora?
Egli mostra in modo persuasivo i gravi pericoli del fatto che a livello mondiale l'unica iniziativa politica per ridurre il riscaldamento del Pianeta sia il protocollo di Kyoto (1997), che sarà probabilmente rinnovato tra pochi anni. Esso stabilisce che tra il 2008 e il 2012 i Paesi industriali riducano del 20 per cento le emissioni di anidride carbonica. Lomborg mostra dettagliatamente che, qualora sia attuata per tutto il XXI secolo, l'applicazione del protocollo avrà un costo elevatissimo e un'efficacia molto bassa, cioè una riduzione molto bassa delle morti dovute al riscaldamento globale, un pericolo peraltro certamente sempre più grave. Molto bassa, tale riduzione, in rapporto al numero delle vittime della fame, della povertà, delle malattie, del freddo: «problemi ben più urgenti», questi, che però possono essere affrontati «con una spesa più bassa e probabilità di successo molto più elevate di quelle offerte dalle severe politiche climatiche, che hanno un costo di miliardi e miliardi di dollari». Evitando questo esborso irrazionale, l'umanità può dotarsi delle tecnologie specifiche capaci di ridurre il riscaldamento del pianeta, ma non promosse dal protocollo di Kyoto. Alla base di tutto il discorso di Lomborg sta infatti la tesi che «l'obiettivo finale non è la riduzione dei gas serra o del riscaldamento globale in sé, ma il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente» e che la condizione fondamentale per realizzare questo obiettivo è costituita dalla tecnica.
Ma, quando il discorso è impostato in questo modo, la convinzione di proporre soluzioni che, sebbene più razionali, si muovano pur sempre all'interno dell'orizzonte della produzione capitalistica è un'illusione. Lomborg la coltiva. L'«obiettivo finale» di ogni forma di capitalismo, infatti, non è «il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente», non è il benessere dell'umanità, ma è la crescita indefinita del profitto, anche se, per ottenerla, la produzione capitalistica deve portare sul mercato merci che diano o che i consumatori ritengano che diano benessere e miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente. Ma — eccoci al punto decisivo — se si agisce affinché l'«obiettivo finale» della produzione e distribuzione capitalistica delle risorse sia il benessere dell'umanità, si agisce per far diventare il capitalismo qualcosa di diverso da ciò che esso è, ossia si agisce per distruggerlo. Si agisce così anche quando non si è consapevoli di ciò che propriamente si sta facendo, come accade ad esempio alla Chiesa cattolica quando sollecita il capitalismo ad assumere come obiettivo finale il «bene comune» della società. (Si agisce così anche quando, seguendo la Chiesa, ci si oppone, come ha fatto Giulio Tremonti anche qualche giorno fa sul Corriere, all' «idea del primato del mercato su ogni altra forma sociale»; o quando si limita questo primato auspicando, come mi sembra abbia fatto più volte Mario Monti, che l'«obiettivo» costituito dalla capacità di competere con gli altri Paesi industrializzati sia affiancato, almeno in Italia, dagli «obiettivi di solidarietà»).
Si agisce così, perché nell'agire umano un'azione o un sistema di azioni sono ciò che esse sono proprio in virtù dell'obiettivo che esse si propongono; sì che, se quest'ultimo viene cambiato — e, nella fattispecie, ci si adopera affinchè l'obiettivo del capitalismo sia il benessere dell'uomo o il «bene comune», e quindi il mercato non abbia più il «primato sulle altre forme sociali» —, tali azioni restano distrutte e ci si trova davanti ad azioni diverse, anche se vengono chiamate con i vecchi nomi e si crede che quelle di prima siano ancora in vita.
Questo discorso vale anche per Lomborg, che affida alla tecnica e alle energie alternative il compito di evitare che la produzione capitalistica, lasciata a se stessa, distrugga la Terra. Anch'egli si adopera quindi per un «capitalismo» che abbia come obiettivo finale il benessere dell'uomo e, insieme, la condizione ormai imprescindibile per la realizzazione di tale benessere, cioè lo sviluppo tecnologico. Anche qui, si assegna cioè al «capitalismo» un obiettivo diverso da quello che fa vivere il capitalismo vero e proprio: anche qui si mira, senza rendersene conto, alla distruzione del capitalismo. O anche, se — e poiché — il capitalismo dà ascolto a questo tipo di sollecitazione, è esso stesso a cambiar strada, a rinunciare a se stesso.
Anche accettando la tesi di Lomborg che la scienza ridimensiona fortemente il carattere distruttivo della produzione capitalistica, questa tesi non è dunque una smentita di quel «declino del capitalismo» che da parte mia vado sostenendo, non è una smentita della destinazione del capitalismo al tramonto. E riconoscendo che, su questa Terra, al nostro «obiettivo finale» appartiene lo sviluppo tecnologico, quindi l'eliminazione dei limiti che lo frenano, si riconosce che il tramonto del capitalismo (e di ogni altra forma della tradizione) è la stessa destinazione del mondo a un nuovo «primato »: quello della tecnica.