venerdì 27 marzo 2020

La morte di Ipazia


La morte di Ipazia

Ciò che doveva avvenire, alla fine, avviene. Oreste ha preso una decisione, senza dubbio pessima: ha proibito una processione organizzata dal vescovo Cirillo per portare in giro attraverso i quartieri popolari della città il corpo del Beato Thaumasios. Pulcheria stessa, l’Augusta, aveva autorizzato con una bolla imperiale il culto del «martire » parabalano. Ma Oreste teme disordini: una pessima decisione, certamente, ma anche quella opposta sarebbe stata pessima; ci sono momenti in cui tutte le decisioni sono pessime e la buona semplicemente non esiste.
Alla notizia del divieto Cirillo reagisce chiamando a raccolta i suoi fedeli, compresi i parabalani che cominciano a riaffacciarsi per i vicoli della città, non promettendo nulla di buono. Il vescovo li infiamma contro il prefetto, anche se non sarebbe necessario. Il prefetto, dice, calpesta la religione di Cristo e perseguita i suoi fedeli; Ipazia, la perfida consigliera di Oreste, è certamente l’ispiratrice di questa decisione. Occorre reagire e combattere, in nome di Cristo, per difendere il diritto dei cristiani alloro culto e alle loro devozioni.
Ipazia esce di casa, come ogni mattina, per recarsi al Museo. Ogni giorno Demetra o Antinoo le ricordano che è in pericolo, che non deve esporsi, che non è saggio sfidare la sorte. Ma sanno tutti e due che tali raccomandazioni non hanno alcun effetto. Antinoo, comunque, l’accompagna; non è armato, ma è forte e giovane, deciso a difendere la sua donna con tutte le forze, fino alla morte. Ipazia sale sulla carrozza e Antinoo la segue a piedi, per meglio sorvegliare la situazione.
La strada sembra deserta, cosa alquanto inconsueta. Antinoo sente una fitta al petto, come un presentimento tangibile di qualcosa di tremendo che sta per succedere. Mentre si guarda attorno, da ogni parte, scrutando ogni angolo alla ricerca di uomini nascosti che stiano tendendo un agguato, non sente i passi leggeri alle sue spalle, che si avvicinano rapidamente. Sente solo la lama di un coltello entrargli tra le scapole e ferirlo profondamente. Si volge e fa fronte al nemico, ma tutt’a un tratto i nemici sono tanti, un gruppo di parabalani incappucciati, armati di coltelli e di asce, che infieriscono su di lui massacrandolo come un agnello da macellare. Riesce appena a gridare: «Ipazia, fuggi » e perde i sensi, in un lago di sangue.
Ipazia non fa a tempo a fuggire, forse neppure lo vuole; guarda il suo amato che giace a terra e ne incontra lo sguardo disperato, pieno d’amore. Vorrebbe abbracciarlo, stringerlo forte a sé e dirgli come è stato bello vivere insieme, amarsi, lavorare la terra e camminare insieme, nelle sere autunnali, rientrare a casa insieme e prepararsi una cena frugale; insomma, vivere, semplicemente, come tutte le coppie che si amano.
Perché non ha saputo accontentarsi, accettare un destino semplice e felice? Perché ha trascinato Antinoo nella sua sventura? Ma non c’è tempo per pensare, neppure per piangere. Una folla che si infittisce ogni momento di più, un’enorme folla di gente in delirio, sta ora sopra di lei. Riconosce, tra quelli che più le si avvicinano urlando e sbeffeggiandola, il giovane Sergio, con il quale si era scontrata nella pubblica discussione, tanto tempo fa. Ha serbato il suo odio per tanto tempo, pensa Ipazia, e ora pregusta la vendetta.
L’hanno afferrata in tanti, la stanno trascinando verso il Cesareo, il tempio cristiano. Deve morire lì, sul sagrato, perché Cristo si appaghi del suo sangue e goda della vendetta contro la donna infedele, istigatrice di pagani e di atei. Le gridano insulti e sconcezze, la toccano, le strappano le vesti, gridano, ridono risate oscene. Si spingono gli uni con gli altri, si calpestano, corrono come un branco di animali infuriati o sorpresi da un incendio. Non sono più una somma di uomini, ma un unico immenso animale acefalo che corre qua e là senza sapere dove né perché, reso cieco da un immenso furore. Sono come una muta di cani che abbia annusato l’odore della preda, ne abbia già assaggiato il sangue e non possa più fermarsi, non oda più il richiamo del padrone che vorrebbe trattenerla. Hanno bocche spalancate nell’urlo dell’odio, mani adunche che graffiano e sbranano, occhi sbarrati, senz’altra espressione che un’ira cieca e bestiale. La tirano da ogni parte, lacerandole la pelle e poi la carne; la prendono a calci sul ventre, sul petto, sul viso. Uno le ha ficcato due dita nelle orbite ed è riuscito a cavarne fuori gli occhi, due globi sanguinanti.
Ipazia è già morta da un pezzo, e la sua anima si è librata lontano, oltre il cielo della luna, nell’altezza degli spazi siderali, vicino alla luce totale, impossibile da guardare, che è l’occhio di Dio; ma sulla terra, dove strisciano i vermi, gli uomini infieriscono ancora su di lei, facendo a brani il suo corpo che ora è disseminato qua e là, di fronte alla chiesa, miseri pezzi di carne umana, irriconoscibili, sui quali nessuno potrà piangere e compiere riti funebri, perché non hanno più niente di umano.
Intanto un gruppo di parabalani forza la porta della casa di Ipazia, malmenando i suoi servi e picchiando a sangue Demetra. Vogliono avere accesso ai suoi libri, ai suoi studi; spalancano tutte le porte, buttano tutto per terra, aprono cassetti e ne rovesciano il contenuto. Poi uno, che ha raggiunto la torre, chiama gli altri con gioia selvaggia. Sono tutti su, adesso, nella stanza sacra al sapere e alla contemplazione, dove la filosofa si è rifugiata mille e mille volte, da sola o con il padre, lontano dai clamori e dall’insensatezza del mondo; anche questo estremo rifugio deve essere ora violato. I parabalani afferrano pergamene, volumi, tavolette, disegni, modelli, macchine, tutto ciò che Ipazia ha scritto, pensato o inventato nell’arco della sua intera esistenza. Non deve restare niente, proprio niente, di lei, così ha detto Cirillo: tutto deve andare distrutto, fatto a pezzi o bruciato, affinché di lei si perda ogni ricordo. Cirillo sarà contento: Cristo Re ha vinto, Ipazia è morta, anzi non è mai esistita.

Caterina Contini
Ipazia e la notte, romanzo,
Longanesi, Milano, 1999
Capitolo 39, pagine 262-265