Un saggio ricostruisce le metamorfosi della donna fatale dell’antichità, espressione della sessualità trasgressiva
Vergine o prostituta, per chi canta la sirena
La parola sirena, tra le molte che sono arrivate nella nostra lingua dall’antichità greca, è a tutt’oggi di uso quotidiano, ma non tanto, non più, nel significato di donna ammaliatrice e fatale, quanto come quel segnale acustico allarmante che costituisce uno degli eventi sonori di fondo della vita cittadina. Oppure compare talvolta nel linguaggio politico: sirene come messaggi incantatori e subdoli richiami, che confondono e sviano. Ma chi erano veramente le sirene originarie, e cosa unisce le figure del mito antico al segnale di pericolo - furti, incendi, corse all’ospedale, trappole politiche - con cui le evochiamo oggi? Era la loro bellezza, celebrata in tante storie della cultura occidentale, ad avere un ruolo fatale? Nel mondo greco, come un’attrice particolarmente eclettica e versatile, la sirena compare in scene diverse che a prima vista non sembrano avere niente in comune. E non è affatto una seduttrice fortunata. La sua più celebre performance, l’incantamento di Ulisse, è un fallimento tale da indurre al suicidio: in una pittura vascolare del V secolo a.C., mentre due compagne cantano ancora, la terza è in atto di buttarsi in mare. Non un tuffo ristoratore, ma una morte cercata, perché la sirena dell’antichità era un uccello, una creatura alata figlia della Terra, e non marina - il mare anzi l’avrebbe privata dei suoi più caratteristici attributi, il canto e il volo. Quanto alla bellezza, nelle prime rappresentazioni ne è assolutamente priva - la sua natura per metà ferina l’apparenta al mostruoso, non all’attraente. Eppure la sirena continua a possedere un potere ipnotico, di metamorfosi in metamorfosi, di storia in storia, fino al termine che la designa ai nostri giorni. Perché il suo viaggio attraverso il tempo e il conseguente trasformismo non è senza coerenza, e soprattutto indica qualcosa che abita in modo stabile la mente umana, come racconta l’ampia inchiesta sul mondo delle antiche sirene condotta dall’antropologa Loredana Mancini in un recente saggio, Il rovinoso incanto (il Mulino, pp. 320, 22).
Nelle raffigurazioni pittoriche le sirene cantano e suonano, ma il loro canto non ha niente a che vedere con quello, ordinato e sapiente, delle Muse e di Apollo: è un canto stridulo, incontrollato, più vicino all’urlo che alla melodia. Per giunta suonano l’aulos, il flauto a due canne contrario, secondo Platone e Aristotele, per il suo suono scomposto alle leggi della polis . Dovunque le si trovi, c’è in loro qualcosa di perturbante. Nella tragedia antica sono le cantatrici dei funerali, quelle che sanno dare, come dice la Elena di Euripide, dolore al canto - e in Attica o in Asia Minore appaiono spesso nei cimiteri, figure alate e musicanti che accompagnano il defunto nell’aldilà. Anche nella commedia degli autori che vengono dopo Aristofane la sirena turba, perché non è altro che una vecchia cortigiana, anzi una vecchia cortigiana altro non è che una «sirena spennacchiata». Poi invece da prostituta diventa vergine: così in alcuni riti accompagna le giovinette al matrimonio, raffigurata anche negli oggetti - specchi, bacili lustrali - che porteranno con sé. Ma non disdegna amori strani e licenziosi: in una coppa attica del VI secolo a.C. è in compagnia di due personaggi dalle fattezze satiresche intenti a una energica attività sessuale solitaria; molti secoli dopo, in un rilievo in marmo del II secolo d.C., cavalca in un amplesso - un sogno o incubo erotico - un vecchio sileno dormiente. Quanto alla loro abitazione, il giardino incantato di fiori che sono invece ossa di scheletri, esso è molto lontano, ai margini del mondo, là dove comincia la barbarie - cioè ai margini del mondo greco, che si tratti dei lontani rami del Mediterraneo di Ulisse o dell’estremo confine orientale, l’Indo.
Margini, morte, anomalia: sono questi, secondo la ricerca di Mancini, i termini del «grado zero» della sirena, ciò che comunque e sempre la caratterizza nei suoi vari travestimenti. Così la vergine e la prostituta sono entrambe due anti-donne rispetto alla donna normale, cioè alla sposa e alla madre, e la sessualità selvaggia, cui è talvolta associata, è simile alla potenza selvaggia della voce che dispiega nel suo canto. Se anche Socrate può essere definito sirena con i suoi discorsi imprevedibili (nel Simposio ), se sirene in altri testi antichi sono i tiranni e i demagoghi, la sua voce che turba e stordisce è sempre una sonorità primitiva, caotica e panica, opposta alle leggi del logos e al normale svolgimento della vita, il segnale di un’infrazione all’ordine che indica un’emergenza. In altri termini, una figura dell’immaginario così necessaria e inevitabile malgrado i cambiamenti culturali e i progressivi slittamenti tra il fantastico e il reale, che ci accade ancora oggi, per uno di quei miracoli della potenza dei miti antichi, di usarla nel suo senso più proprio ed esatto anche senza conoscerne affatto la storia.
(Corriere della Sera 4/6/05)
Vergine o prostituta, per chi canta la sirena
La parola sirena, tra le molte che sono arrivate nella nostra lingua dall’antichità greca, è a tutt’oggi di uso quotidiano, ma non tanto, non più, nel significato di donna ammaliatrice e fatale, quanto come quel segnale acustico allarmante che costituisce uno degli eventi sonori di fondo della vita cittadina. Oppure compare talvolta nel linguaggio politico: sirene come messaggi incantatori e subdoli richiami, che confondono e sviano. Ma chi erano veramente le sirene originarie, e cosa unisce le figure del mito antico al segnale di pericolo - furti, incendi, corse all’ospedale, trappole politiche - con cui le evochiamo oggi? Era la loro bellezza, celebrata in tante storie della cultura occidentale, ad avere un ruolo fatale? Nel mondo greco, come un’attrice particolarmente eclettica e versatile, la sirena compare in scene diverse che a prima vista non sembrano avere niente in comune. E non è affatto una seduttrice fortunata. La sua più celebre performance, l’incantamento di Ulisse, è un fallimento tale da indurre al suicidio: in una pittura vascolare del V secolo a.C., mentre due compagne cantano ancora, la terza è in atto di buttarsi in mare. Non un tuffo ristoratore, ma una morte cercata, perché la sirena dell’antichità era un uccello, una creatura alata figlia della Terra, e non marina - il mare anzi l’avrebbe privata dei suoi più caratteristici attributi, il canto e il volo. Quanto alla bellezza, nelle prime rappresentazioni ne è assolutamente priva - la sua natura per metà ferina l’apparenta al mostruoso, non all’attraente. Eppure la sirena continua a possedere un potere ipnotico, di metamorfosi in metamorfosi, di storia in storia, fino al termine che la designa ai nostri giorni. Perché il suo viaggio attraverso il tempo e il conseguente trasformismo non è senza coerenza, e soprattutto indica qualcosa che abita in modo stabile la mente umana, come racconta l’ampia inchiesta sul mondo delle antiche sirene condotta dall’antropologa Loredana Mancini in un recente saggio, Il rovinoso incanto (il Mulino, pp. 320, 22).
Nelle raffigurazioni pittoriche le sirene cantano e suonano, ma il loro canto non ha niente a che vedere con quello, ordinato e sapiente, delle Muse e di Apollo: è un canto stridulo, incontrollato, più vicino all’urlo che alla melodia. Per giunta suonano l’aulos, il flauto a due canne contrario, secondo Platone e Aristotele, per il suo suono scomposto alle leggi della polis . Dovunque le si trovi, c’è in loro qualcosa di perturbante. Nella tragedia antica sono le cantatrici dei funerali, quelle che sanno dare, come dice la Elena di Euripide, dolore al canto - e in Attica o in Asia Minore appaiono spesso nei cimiteri, figure alate e musicanti che accompagnano il defunto nell’aldilà. Anche nella commedia degli autori che vengono dopo Aristofane la sirena turba, perché non è altro che una vecchia cortigiana, anzi una vecchia cortigiana altro non è che una «sirena spennacchiata». Poi invece da prostituta diventa vergine: così in alcuni riti accompagna le giovinette al matrimonio, raffigurata anche negli oggetti - specchi, bacili lustrali - che porteranno con sé. Ma non disdegna amori strani e licenziosi: in una coppa attica del VI secolo a.C. è in compagnia di due personaggi dalle fattezze satiresche intenti a una energica attività sessuale solitaria; molti secoli dopo, in un rilievo in marmo del II secolo d.C., cavalca in un amplesso - un sogno o incubo erotico - un vecchio sileno dormiente. Quanto alla loro abitazione, il giardino incantato di fiori che sono invece ossa di scheletri, esso è molto lontano, ai margini del mondo, là dove comincia la barbarie - cioè ai margini del mondo greco, che si tratti dei lontani rami del Mediterraneo di Ulisse o dell’estremo confine orientale, l’Indo.
Margini, morte, anomalia: sono questi, secondo la ricerca di Mancini, i termini del «grado zero» della sirena, ciò che comunque e sempre la caratterizza nei suoi vari travestimenti. Così la vergine e la prostituta sono entrambe due anti-donne rispetto alla donna normale, cioè alla sposa e alla madre, e la sessualità selvaggia, cui è talvolta associata, è simile alla potenza selvaggia della voce che dispiega nel suo canto. Se anche Socrate può essere definito sirena con i suoi discorsi imprevedibili (nel Simposio ), se sirene in altri testi antichi sono i tiranni e i demagoghi, la sua voce che turba e stordisce è sempre una sonorità primitiva, caotica e panica, opposta alle leggi del logos e al normale svolgimento della vita, il segnale di un’infrazione all’ordine che indica un’emergenza. In altri termini, una figura dell’immaginario così necessaria e inevitabile malgrado i cambiamenti culturali e i progressivi slittamenti tra il fantastico e il reale, che ci accade ancora oggi, per uno di quei miracoli della potenza dei miti antichi, di usarla nel suo senso più proprio ed esatto anche senza conoscerne affatto la storia.
(Corriere della Sera 4/6/05)