l’Unità 22.1.08
Ragazze di Riad. Sotto il velo, tutto
di Maria Serena Palieri
RAJAA ALSANEA è la giovane autrice d’un romanzo diventato un manifesto in Arabia Saudita. Perché, in un Paese dove alle donne è proibito votare come guidare, rivendica il diritto più fondamentale, quello all’amore. L’abbiamo incontrata
Rajaa Alsanea ha un bel viso, accuratamente truccato, con sopracciglia all’ultima moda, scolpite di sicuro da un eyebrow designer, un viso fresco di ventisettenne incorniciato da un hijab, il velo islamico che copre i capelli e il collo, d’un rosa civettuolo e adorno di tulle. Indossa una giacca bianca e nera, pantaloni neri, scarpe col tacco, e, alle mani curate col french manicure, ostenta una pietra enorme e scintillante, forse un diamante alla Mille e una notte, più probabile sia un topazio dal taglio «briolet». Vedete quanti dettagli di stile sono necessari per descrivere la femminilità originale d’una ragazza musulmana che ha scelto di vivere in un luogo tutto proprio: sul piccolo ponte volante che, per lei, unisce l’Arabia Saudita, il suo paese di provenienza, e Chicago, Usa, dove frequenta il dottorato in odontoiatria. Rajaa Alsanea, aspirante dentista, è l’autrice di Ragazze di Riad, un romanzo che arriva oggi nelle nostre librerie (per Mondadori, nella traduzione di Valentina Colombo e Berthe Smiths-Jacob, pp. 332, euro 18) e che, dal 2005 quando è uscito nei paesi arabi, le è valso molti appellativi. Uno per tutti: Rajaa è, simbolicamente, la prima «ministro per le pari opportunità» dell’Arabia Saudita.
Qamra, Michelle, Lamis e Sadim sono le quattro ragazze di Riad, appartenenti a un’élite ricca e istruita, delle quali il libro racconta la vicenda: a narrarla è una misteriosa quinta ragazza che ne svela lo svolgersi, episodio dopo episodio, a una mailing list, seerehwenfadha7et, nome che tradotto suona come «vite messe a nudo». Tutto comincia col matrimonio di Qamra con lo sposo destinatole dalla famiglia, Rashid, al party per sole donne dove le altre ragazze possono, «con moooderazione» è il comando, sorridere, esibirsi, danzare, sperando, come giumente al mercato, di colpire l’attenzione delle invitate anziane dotate di figli maschi e patrimoni familiari cospicui, insomma le potenziali suocere. Perché Ragazze di Riad, con la spigliatezza della comunicazione internettistica, racconta attraverso quale filo spinato di veti patriarcali, religiosi, tribali, di casta, si svolga, nel terzo millennio, la vita amorosa delle giovani saudite, condannate a matrimoni combinati. Ragazze, queste, per il resto, iscritte a Medicina come a Informatica. Ragazze di Riad viene promosso come il Sex and the city saudita. A noi è apparso piuttosto come una tragedia narrata con una penna leggera, di piuma.
I diritti interdetti al genere femminile, in Arabia Saudita, sono molti: dal voto alla guida della macchina. Perché lei, Rajaa, ha scelto di concentrarsi sul diritto all’amore?
«I diritti preclusi a noi donne saudite sono diversi e cambiano a seconda dei gruppi sociali e delle classi. Io, per esempio, sono cresciuta in una famiglia disponibile, che non ha aggravato con divieti propri quelli già ufficiali. Così ho capito che ciò che conta universalmente, per tutte e per tutti, è il diritto all’amore. Tutti patiscono per questa negazione. È un tema delicato. E, se non siamo noi a parlarne, non sarà certo il governo a farlo. Alcuni diritti fondamentali sono già in discussione nel Paese. Ma altri, non tangibili, non ci verranno accordati, se non ci batteremo».
«Ragazze di Riad» è stato definito il primo esempio di «chick lit» arabo. Lei si sente vicina alla creatrice di «Bridget Jones» e alla «narrativa per gallinelle»?
«Da noi, di chick lit non ne abbiamo. Da noi, neanche i critici più sofisticati mi hanno appaiato a questo genere. Certo, ho usato un linguaggio vicino alla generazione più giovane. Non sono ricorsa a quello classico, metaforico, della nostra tradizione narrativa. Ho inaugurato uno stile. E, dal 2005, sono centinaia i romanzi che hanno seguito il nuovo filone».
Ha avuto problemi con la censura di Riad? E quali reazioni ha suscitato il libro nel pubblico saudita?
«Gli editori arabi si rivolgono a uno stesso mercato comune che usa una identica lingua. Perciò sono ricorsa all’espediente classico, mi sono rivolta a un editore in Libano, paese liberale, e ho bypassato, così, la censura ministeriale. A destra come a sinistra, nel rifiuto come nell’accoglienza positiva, mi sono imbattuta in reazioni forti. Sui giornali è nato un dibattito, nello stesso giorno sono apparsi anche dieci articoli, io stessa ho ricevuto decine di migliaia di e-mail. Per la prima volta un romanzo affrontava argomenti come l’amore, i matrimoni combinati, il rapporto tra sunniti e sciiti e questo è stato percepito come uno spiraglio di libertà».
Lei, per famiglia, appartiene alla stessa élite facoltosa cui appartengono le sue «ragazze»?
«Sono nata in Kuwait, dove mio padre lavorava come editore per il governo. Era un uomo con molti interessi culturali, specie il teatro. Non navigavamo nell’oro, perché eravamo sei figli. Ma la nostra famiglia era un ambiente stimolante. È stato mio padre a profetizzare “tu farai la scrittrice” quando mi vide per la prima volta, da bambina, con la penna in mano. Poi è morto, quando avevo otto anni. Oggi i miei fratelli sono diventati medici di successo e, si sa, un medico guadagna di più di un insegnante. Insomma, eccoci nella classe agiata. Ma per studio e passione, non perché siamo nati con la camicia».
Il suo romanzo è dedicato a sua sorella Rasha e a sua madre, le donne della famiglia. Com’è sua madre?
«È un’autodidatta che legge di tutto e divora film. È stata una bambina, poi una ragazza, cui il padre ha impedito di studiare, ma lo ha fatto da sola. È una persona fortissima che mi ha insegnato coraggio e indipendenza».
Studia a Chicago, ma eccola col velo. Con un romanzo ha contestato i costumi sauditi. Questo hijab, al contrario, è un modo di contestare i costumi americani?
«Fino a quattro o cinque anni fa ero come le protagoniste del mio romanzo. In Arabia Saudita portavo il velo e, appena salita sull’aereo per andare altrove, me lo toglievo. Il contrario al ritorno. Poi ho sentito che questa doppia faccia non mi corrispondeva. E ho letto il Corano per capire quali motivazioni si celino dietro questo copricapo. Ho capito che per una musulmana il velo è un dovere. Ho deciso che il messaggio che volevo inviare, col mio corpo, era questo: “Io sono la stessa, in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Questa del velo non è una questione di tradizione, è una questione di identità religiosa. E voi, americani, dovete capire che una ragazza musulmana può essere istruita, avere senso dell’umorismo, saper parlare dignitosamente”. Il fazzoletto copre i capelli, non la mente».
Rajaa Alsanea, personalmente, l’amore l’ha trovato?
«Di amore ci si ammala facilmente. Trovare e saper scegliere, liberamente, l’uomo giusto, questo è il problema».
Ragazze di Riad. Sotto il velo, tutto
di Maria Serena Palieri
RAJAA ALSANEA è la giovane autrice d’un romanzo diventato un manifesto in Arabia Saudita. Perché, in un Paese dove alle donne è proibito votare come guidare, rivendica il diritto più fondamentale, quello all’amore. L’abbiamo incontrata
Rajaa Alsanea ha un bel viso, accuratamente truccato, con sopracciglia all’ultima moda, scolpite di sicuro da un eyebrow designer, un viso fresco di ventisettenne incorniciato da un hijab, il velo islamico che copre i capelli e il collo, d’un rosa civettuolo e adorno di tulle. Indossa una giacca bianca e nera, pantaloni neri, scarpe col tacco, e, alle mani curate col french manicure, ostenta una pietra enorme e scintillante, forse un diamante alla Mille e una notte, più probabile sia un topazio dal taglio «briolet». Vedete quanti dettagli di stile sono necessari per descrivere la femminilità originale d’una ragazza musulmana che ha scelto di vivere in un luogo tutto proprio: sul piccolo ponte volante che, per lei, unisce l’Arabia Saudita, il suo paese di provenienza, e Chicago, Usa, dove frequenta il dottorato in odontoiatria. Rajaa Alsanea, aspirante dentista, è l’autrice di Ragazze di Riad, un romanzo che arriva oggi nelle nostre librerie (per Mondadori, nella traduzione di Valentina Colombo e Berthe Smiths-Jacob, pp. 332, euro 18) e che, dal 2005 quando è uscito nei paesi arabi, le è valso molti appellativi. Uno per tutti: Rajaa è, simbolicamente, la prima «ministro per le pari opportunità» dell’Arabia Saudita.
Qamra, Michelle, Lamis e Sadim sono le quattro ragazze di Riad, appartenenti a un’élite ricca e istruita, delle quali il libro racconta la vicenda: a narrarla è una misteriosa quinta ragazza che ne svela lo svolgersi, episodio dopo episodio, a una mailing list, seerehwenfadha7et, nome che tradotto suona come «vite messe a nudo». Tutto comincia col matrimonio di Qamra con lo sposo destinatole dalla famiglia, Rashid, al party per sole donne dove le altre ragazze possono, «con moooderazione» è il comando, sorridere, esibirsi, danzare, sperando, come giumente al mercato, di colpire l’attenzione delle invitate anziane dotate di figli maschi e patrimoni familiari cospicui, insomma le potenziali suocere. Perché Ragazze di Riad, con la spigliatezza della comunicazione internettistica, racconta attraverso quale filo spinato di veti patriarcali, religiosi, tribali, di casta, si svolga, nel terzo millennio, la vita amorosa delle giovani saudite, condannate a matrimoni combinati. Ragazze, queste, per il resto, iscritte a Medicina come a Informatica. Ragazze di Riad viene promosso come il Sex and the city saudita. A noi è apparso piuttosto come una tragedia narrata con una penna leggera, di piuma.
I diritti interdetti al genere femminile, in Arabia Saudita, sono molti: dal voto alla guida della macchina. Perché lei, Rajaa, ha scelto di concentrarsi sul diritto all’amore?
«I diritti preclusi a noi donne saudite sono diversi e cambiano a seconda dei gruppi sociali e delle classi. Io, per esempio, sono cresciuta in una famiglia disponibile, che non ha aggravato con divieti propri quelli già ufficiali. Così ho capito che ciò che conta universalmente, per tutte e per tutti, è il diritto all’amore. Tutti patiscono per questa negazione. È un tema delicato. E, se non siamo noi a parlarne, non sarà certo il governo a farlo. Alcuni diritti fondamentali sono già in discussione nel Paese. Ma altri, non tangibili, non ci verranno accordati, se non ci batteremo».
«Ragazze di Riad» è stato definito il primo esempio di «chick lit» arabo. Lei si sente vicina alla creatrice di «Bridget Jones» e alla «narrativa per gallinelle»?
«Da noi, di chick lit non ne abbiamo. Da noi, neanche i critici più sofisticati mi hanno appaiato a questo genere. Certo, ho usato un linguaggio vicino alla generazione più giovane. Non sono ricorsa a quello classico, metaforico, della nostra tradizione narrativa. Ho inaugurato uno stile. E, dal 2005, sono centinaia i romanzi che hanno seguito il nuovo filone».
Ha avuto problemi con la censura di Riad? E quali reazioni ha suscitato il libro nel pubblico saudita?
«Gli editori arabi si rivolgono a uno stesso mercato comune che usa una identica lingua. Perciò sono ricorsa all’espediente classico, mi sono rivolta a un editore in Libano, paese liberale, e ho bypassato, così, la censura ministeriale. A destra come a sinistra, nel rifiuto come nell’accoglienza positiva, mi sono imbattuta in reazioni forti. Sui giornali è nato un dibattito, nello stesso giorno sono apparsi anche dieci articoli, io stessa ho ricevuto decine di migliaia di e-mail. Per la prima volta un romanzo affrontava argomenti come l’amore, i matrimoni combinati, il rapporto tra sunniti e sciiti e questo è stato percepito come uno spiraglio di libertà».
Lei, per famiglia, appartiene alla stessa élite facoltosa cui appartengono le sue «ragazze»?
«Sono nata in Kuwait, dove mio padre lavorava come editore per il governo. Era un uomo con molti interessi culturali, specie il teatro. Non navigavamo nell’oro, perché eravamo sei figli. Ma la nostra famiglia era un ambiente stimolante. È stato mio padre a profetizzare “tu farai la scrittrice” quando mi vide per la prima volta, da bambina, con la penna in mano. Poi è morto, quando avevo otto anni. Oggi i miei fratelli sono diventati medici di successo e, si sa, un medico guadagna di più di un insegnante. Insomma, eccoci nella classe agiata. Ma per studio e passione, non perché siamo nati con la camicia».
Il suo romanzo è dedicato a sua sorella Rasha e a sua madre, le donne della famiglia. Com’è sua madre?
«È un’autodidatta che legge di tutto e divora film. È stata una bambina, poi una ragazza, cui il padre ha impedito di studiare, ma lo ha fatto da sola. È una persona fortissima che mi ha insegnato coraggio e indipendenza».
Studia a Chicago, ma eccola col velo. Con un romanzo ha contestato i costumi sauditi. Questo hijab, al contrario, è un modo di contestare i costumi americani?
«Fino a quattro o cinque anni fa ero come le protagoniste del mio romanzo. In Arabia Saudita portavo il velo e, appena salita sull’aereo per andare altrove, me lo toglievo. Il contrario al ritorno. Poi ho sentito che questa doppia faccia non mi corrispondeva. E ho letto il Corano per capire quali motivazioni si celino dietro questo copricapo. Ho capito che per una musulmana il velo è un dovere. Ho deciso che il messaggio che volevo inviare, col mio corpo, era questo: “Io sono la stessa, in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Questa del velo non è una questione di tradizione, è una questione di identità religiosa. E voi, americani, dovete capire che una ragazza musulmana può essere istruita, avere senso dell’umorismo, saper parlare dignitosamente”. Il fazzoletto copre i capelli, non la mente».
Rajaa Alsanea, personalmente, l’amore l’ha trovato?
«Di amore ci si ammala facilmente. Trovare e saper scegliere, liberamente, l’uomo giusto, questo è il problema».