l’Unità 31.1.08
Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme
di Renato Pallavicini
MAX ERNST compose tra il 1929 e il 1934, usando la tecnica del collage, «tre romanzi per immagini»: con figure tratte da stampe e illustrazioni popolari, il conturbante e affascinante richiamo del sesso
La materia con cui li costruì era quella dei feuilleton e delle incisioni di Grandville
Pescando nel sogno l’artista creò un’opera che influenzò il cinema di Luis Buñuel
«Tra il 1929 e il 1934 il pittore dadaista, e poi surrealista e poi solo Max Ernst compose tre romanzi: La donna 100 teste, Il sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà». Il verbo «compose» che Giuseppe Montesano usa nella sua postfazione a Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini (Adelphi, 2007, pp. 498, euro 38,00) è verbo che si addice più alla partitura musicale o alla composizione architettonica che alla scrittura. Non a caso - ricorda Montesano poche righe più avanti - André Breton aveva proibito ai surrealisti la «fabbricazione» di romanzi.
Ma che cosa sono, dunque, questi «romanzi» che l’artista, nonostante e oltre quel divieto, «fabbrica»? Sono dei collage costruiti con frammenti di figure tratte, perlopiù, da stampe e illustrazioni popolari. «Max Ernst - scrive Montesano - provò a cambiare le regole del raccontare, strappò come un bambino che gioca le pagine dei vecchi libri e le rimise insieme in libri perversamente nuovi, in racconti condensati e fatti per immagini fratturate e ricomposte in narrazioni per immagini che erano in qualche modo ancora o di nuovo romanzi». Quella di Ernst, però, non è la scrittura «plastica» dei collage cubisti di Braque e Picasso che mette insieme le differenti facce (e punti di vista) della realtà, ma è scrittura automatica, anti-composizione e, per tornare alla metafora architettonica, de-costruzione. Il collage non com-pone, non mette insieme ma giustappone, tutt’al più espone, disseziona ed estroflette sul tavolo anatomico (e sulle tavole illustrate) i cadaveri squisiti del linguaggio. Ecco perché le tavole di Ernst sono piene di pezzi anatomici (valga per tutte quella a pag. 443 di questo volume riprodotta in questa pagina: immagine grande), di molli estroflessioni, di pliche carnose come petali, di cento fessure profonde, di scaglie cheratinose o di chiome fluenti che volteggiano come fantasmatici scalpi: tutto «ciò che era connesso… si è scucito e sconnesso in Ernst sotto l’urto di una potenza onirica e scatenata».
I Tre romanzi per immagini, in maggioranza «mute» e talvolta accompagnate da spiazzanti didascalie, sono pieni di sogni e incubi in cui si affacciano esplicitamente, ma non banalmente (non con quella «meschinità» - annota Montesano - a cui il contemporaneo ha ridotto gli abissi di eros) le pulsioni del sesso. Che nella storia del Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo ci sia qualcosa della vicenda personale di un trentottenne Max Ernst e della sua relazione-scandalo con la minorenne Marie-Berthe Aurenche, è innegabile; ma, come ben chiarisce Giuseppe Montesano - scrittore e acuto studioso della cultura francese di quegli anni (suo è il recente saggio su Charles Baudelaire, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori 2007) - c’è molto di più.
Ci trovate, per esempio, le ascendenze a Jarry e Lautréamont: «Nei romanzi-collage di Ernst si stava attuando senza freni e senza residui la bellezza che I Canti di Maldoror avevano annunciato: il mondo che sbucava sotto la frusta del grottesco in Max Ernst era bello, ma “come l’incontro sopra un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello”».
Attorno a questo tavolo anatomico Ernst chiama a consulto dottori dadaisti, surrealisti e freudiani, ma si avvale anche di assistenti meno «titolati». Così, cucite nei suoi collage, si rintracciano parti e membra sparse, raccolte dalla letteratura e dalla illustrazione popolare: dalle incisioni di Grandville ai feuilleton di Rocambole e Fantomas, dai protofumetti di Wilhelm Busch e dello svizzero Rodolphe Töpffer alle oniriche acqueforti di Max Klinger,in particolare quelle della serie Il guanto, raccolta casuale ma organizzata che segna, appunto, «l’ingresso organizzato del Caso nell’opera». Quei collage, che pescavano nel sogno o nascevano da una contemplazione estatica e distaccata che dava vita a un mondo in cui gli oggetti, scissi dalla comune percezione, fluttuavano liberamente e si riposizionavano in dimensioni altre seguendo la non-legge della triade freudiana «trasformazione, condensazione, spostamento», non ebbero però, sottolinea Montesano, «nessun erede diretto, e il loro influsso si manifestò soprattutto nella tecnica del montaggio cinematografico». E allora ecco Buñuel-Dalí con l’Âge d’or, film in cui Ernst si ritagliò una parte da mendicante.
«Nel mondo di rovine del Moderno che Max Ernst “storceva” e “riaggiustava” per far apparire tra le macerie i fantasmi del nouveau c’era al lavoro la legge analogica che rompeva le parvenze in cui le cose si univano per luoghi comuni e ritrovava per le cose accostamenti imprevedibili, quelli che nessuno ha ancora visto e il cui significato è sempre ambiguo: in Una settimana di bontà come nella Donna 100 teste c’era al lavoro il desiderio di un’apocalisse del significato». In volo su questo cumulo di macerie non c’era nessun benjaminiano angelo della storia ma l’inconnu, nelle vesti discinte della creatura femminile, del desiderio, del canto ammaliante delle sirene che, ricorda Montesano nel suo illuminante scritto, cantano quando la ragione (finalmente, aggiungiamo noi) dorme.
Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme
di Renato Pallavicini
MAX ERNST compose tra il 1929 e il 1934, usando la tecnica del collage, «tre romanzi per immagini»: con figure tratte da stampe e illustrazioni popolari, il conturbante e affascinante richiamo del sesso
La materia con cui li costruì era quella dei feuilleton e delle incisioni di Grandville
Pescando nel sogno l’artista creò un’opera che influenzò il cinema di Luis Buñuel
«Tra il 1929 e il 1934 il pittore dadaista, e poi surrealista e poi solo Max Ernst compose tre romanzi: La donna 100 teste, Il sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà». Il verbo «compose» che Giuseppe Montesano usa nella sua postfazione a Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini (Adelphi, 2007, pp. 498, euro 38,00) è verbo che si addice più alla partitura musicale o alla composizione architettonica che alla scrittura. Non a caso - ricorda Montesano poche righe più avanti - André Breton aveva proibito ai surrealisti la «fabbricazione» di romanzi.
Ma che cosa sono, dunque, questi «romanzi» che l’artista, nonostante e oltre quel divieto, «fabbrica»? Sono dei collage costruiti con frammenti di figure tratte, perlopiù, da stampe e illustrazioni popolari. «Max Ernst - scrive Montesano - provò a cambiare le regole del raccontare, strappò come un bambino che gioca le pagine dei vecchi libri e le rimise insieme in libri perversamente nuovi, in racconti condensati e fatti per immagini fratturate e ricomposte in narrazioni per immagini che erano in qualche modo ancora o di nuovo romanzi». Quella di Ernst, però, non è la scrittura «plastica» dei collage cubisti di Braque e Picasso che mette insieme le differenti facce (e punti di vista) della realtà, ma è scrittura automatica, anti-composizione e, per tornare alla metafora architettonica, de-costruzione. Il collage non com-pone, non mette insieme ma giustappone, tutt’al più espone, disseziona ed estroflette sul tavolo anatomico (e sulle tavole illustrate) i cadaveri squisiti del linguaggio. Ecco perché le tavole di Ernst sono piene di pezzi anatomici (valga per tutte quella a pag. 443 di questo volume riprodotta in questa pagina: immagine grande), di molli estroflessioni, di pliche carnose come petali, di cento fessure profonde, di scaglie cheratinose o di chiome fluenti che volteggiano come fantasmatici scalpi: tutto «ciò che era connesso… si è scucito e sconnesso in Ernst sotto l’urto di una potenza onirica e scatenata».
I Tre romanzi per immagini, in maggioranza «mute» e talvolta accompagnate da spiazzanti didascalie, sono pieni di sogni e incubi in cui si affacciano esplicitamente, ma non banalmente (non con quella «meschinità» - annota Montesano - a cui il contemporaneo ha ridotto gli abissi di eros) le pulsioni del sesso. Che nella storia del Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo ci sia qualcosa della vicenda personale di un trentottenne Max Ernst e della sua relazione-scandalo con la minorenne Marie-Berthe Aurenche, è innegabile; ma, come ben chiarisce Giuseppe Montesano - scrittore e acuto studioso della cultura francese di quegli anni (suo è il recente saggio su Charles Baudelaire, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori 2007) - c’è molto di più.
Ci trovate, per esempio, le ascendenze a Jarry e Lautréamont: «Nei romanzi-collage di Ernst si stava attuando senza freni e senza residui la bellezza che I Canti di Maldoror avevano annunciato: il mondo che sbucava sotto la frusta del grottesco in Max Ernst era bello, ma “come l’incontro sopra un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello”».
Attorno a questo tavolo anatomico Ernst chiama a consulto dottori dadaisti, surrealisti e freudiani, ma si avvale anche di assistenti meno «titolati». Così, cucite nei suoi collage, si rintracciano parti e membra sparse, raccolte dalla letteratura e dalla illustrazione popolare: dalle incisioni di Grandville ai feuilleton di Rocambole e Fantomas, dai protofumetti di Wilhelm Busch e dello svizzero Rodolphe Töpffer alle oniriche acqueforti di Max Klinger,in particolare quelle della serie Il guanto, raccolta casuale ma organizzata che segna, appunto, «l’ingresso organizzato del Caso nell’opera». Quei collage, che pescavano nel sogno o nascevano da una contemplazione estatica e distaccata che dava vita a un mondo in cui gli oggetti, scissi dalla comune percezione, fluttuavano liberamente e si riposizionavano in dimensioni altre seguendo la non-legge della triade freudiana «trasformazione, condensazione, spostamento», non ebbero però, sottolinea Montesano, «nessun erede diretto, e il loro influsso si manifestò soprattutto nella tecnica del montaggio cinematografico». E allora ecco Buñuel-Dalí con l’Âge d’or, film in cui Ernst si ritagliò una parte da mendicante.
«Nel mondo di rovine del Moderno che Max Ernst “storceva” e “riaggiustava” per far apparire tra le macerie i fantasmi del nouveau c’era al lavoro la legge analogica che rompeva le parvenze in cui le cose si univano per luoghi comuni e ritrovava per le cose accostamenti imprevedibili, quelli che nessuno ha ancora visto e il cui significato è sempre ambiguo: in Una settimana di bontà come nella Donna 100 teste c’era al lavoro il desiderio di un’apocalisse del significato». In volo su questo cumulo di macerie non c’era nessun benjaminiano angelo della storia ma l’inconnu, nelle vesti discinte della creatura femminile, del desiderio, del canto ammaliante delle sirene che, ricorda Montesano nel suo illuminante scritto, cantano quando la ragione (finalmente, aggiungiamo noi) dorme.