Corriere della Sera 22.1.08
Iconologia. Torna, dopo cinquant'anni, il celebre saggio sulla pittura firmato da Enrico Castelli
C'è del demoniaco in quell'arte
Da Bosch e Bruegel a Bacon: quando il male genera capolavori
di Gillo Dorfles
Ma il diavolo esiste davvero? Lo si voglia chiamare — come Giovanni nell'Apocalisse — «Drákon mégas», «Diábolos» o «Satanàs» o, più confidenzialmente, Belzebù; o lo si voglia persino distinguere (stando a Rudolf Steiner) nelle due «entità» malefiche di Lucifero — l'angelo ribelle — e di Arimane — il promotore del materialismo più spinto... comunque sia, nei nostri tempi di diabolicità maligna e di fondamentalismi perniciosi, il diavolo non scherza. Sicché è il momento più propizio per la ristampa, dopo mezzo secolo, di un celebre testo come Il demoniaco nell'arte di Enrico Castelli (a cura di Enrico Castelli Gattinara; introduzione di Corrado Bologna). Quando Castelli — nel suo «Archivio di filosofia » (1931-1981) di cui era stato il fondatore, e nei famosi «Incontri dell'Epifania», svolti per più d'un decennio a Roma — aveva affrontato il vasto tema dei rapporti tra filosofia dell'arte, simbolismo e teologia, forse non si era del tutto reso conto di aver «precorso i tempi»: quei tempi che il nipote Enrico Castelli Gattinara nella premessa al volume ricorda come quelli che «non a caso seguirono la conclusione di quell'immenso e tremendo trionfo della morte che fu la Seconda guerra mondiale».
Castelli aveva dietro di sé una lunga serie di studi attorno ai problemi di un'interpretazione teologica-antropologica dell'arte e nel suo libro conduceva a fondo un'analisi rivolta soprattutto all'arte tra il XIV e il XVII secolo dei diversi artisti nordici e fiamminghi (da Bosch a Bruegel, da Cranach a Patinir, da Huys a Dürer), che nelle loro opere avevano illustrato i tenebrosi meandri del demoniaco, della kabala, dell'alchimia. Categorie come il «tremendum», il «celato» e il falso, lo «sdoppiato» invadono e circondano i personaggi di molte delle opere considerate e costituiscono la base di un'arte che nel compiacimento dell'orrido, del deforme, o del falso paradisiaco, riusciva a raggiungere spesso straordinarie atmosfere, di terrore e di subdolo fascino. Basti riflettere sul «Giardino delle delizie » di Bosch o sulle «Tentazioni di Sant'Antonio»; o al «Trionfo della Morte» di Bruegel.
Chi, come chi scrive, ricorda ancora con nostalgia l'atmosfera dei seminari (che ebbe la fortuna di poter seguire) non ha dimenticato il loro tenore davvero insolito per l'incontro di dottrina e fantasia e per la presenza di eccezionali studiosi come Ricoeur e Gadamer, Kerenyi e Chastel e di religiosi, non solo cattolici, Jean Daniélou o Raimundo Panikkar (il gesuita-buddista), ma anche protestanti, valdesi, nonché di psicologi e psicanalisti, come Minkowski, Starobinski. Persino di personaggi eterodossi come Jacques Lacan parteciparono agli incontri, e ricordo l'interesse un po' sospettoso, che provocò la sua presenza e soprattutto alcune sue spericolate argomentazioni. In effetti, uno dei grandi meriti di Castelli fu proprio quello di voler porre a confronto personaggi così antitetici come teologi di stretta osservanza e studiosi di indirizzo fenomenologico (Paci) o simbolico (come Kerény). Lo sottolinea anche — nella sua illuminante introduzione — Corrado Bologna: «Castelli lentamente elaborò la sua categoria del demoniaco e trovò una maniera per sublimarla dalla vita alla parola». E infatti il grande merito del libro è stato — ed è ancora — di aver conferito al concetto di demoniaco non solo una valenza teologica ma anche una rivolta all'attività artistica ed esistenziale: un fatto che anche l'arte degli ultimissimi tempi doveva confermare. In altre parole dimostrando come sia improprio, al giorno d'oggi, parlare di «brutto» e di «cattivo» nell'arte, perché il «cattivo » può essere più bello del «buono»: quanto spesso abbiamo visto che il cattivo ispira bellissime immagini e il buono soltanto episodi del peggior kitsch. Tanto più quando c'è di mezzo il diavolo è preferibile non identificare etica con estetica: la buona vecchia «kalokagathia» greca è ormai scomparsa. E basterebbe osservare quanto accade ed è accaduto a certa arte dei nostri giorni: da Beuys a Bacon, da Acconci a Stelarc, a Nitsch e compagni azionisti viennesi (meglio perderli che trovarli, di solito, salvo quando sono dei veri geni come Günter Brus). Ebbene, in molta di questa «arte degenerata» (non quella definita così dai nazisti, che comprendeva anche Klee e Kandinsky) l'aspetto estetico prevale su quello etico; il compiacimento dell'orrorifico, del lubrico, del deforme, come avveniva anche nel grande Bosch o in Patinir, è in grado di suscitare capolavori; mentre gli zuccherosi pensieri di un'ipocrita «bontà» non producono che sterili paesaggini e sbiadite nature morte. Ecco, dunque, come il demoniaco di Castelli, con l'esaltazione dei capolavori fiamminghi proprio nelle loro più allucinate invenzioni del malefico, dell'alchemico, dell'eretico, costituisce ancora un trattato affascinante dello spartiacque e insieme dell'indissolubile coabitazione del bello e del brutto, del buono e del cattivo nell'arte di tutti i tempi.
Iconologia. Torna, dopo cinquant'anni, il celebre saggio sulla pittura firmato da Enrico Castelli
C'è del demoniaco in quell'arte
Da Bosch e Bruegel a Bacon: quando il male genera capolavori
di Gillo Dorfles
Ma il diavolo esiste davvero? Lo si voglia chiamare — come Giovanni nell'Apocalisse — «Drákon mégas», «Diábolos» o «Satanàs» o, più confidenzialmente, Belzebù; o lo si voglia persino distinguere (stando a Rudolf Steiner) nelle due «entità» malefiche di Lucifero — l'angelo ribelle — e di Arimane — il promotore del materialismo più spinto... comunque sia, nei nostri tempi di diabolicità maligna e di fondamentalismi perniciosi, il diavolo non scherza. Sicché è il momento più propizio per la ristampa, dopo mezzo secolo, di un celebre testo come Il demoniaco nell'arte di Enrico Castelli (a cura di Enrico Castelli Gattinara; introduzione di Corrado Bologna). Quando Castelli — nel suo «Archivio di filosofia » (1931-1981) di cui era stato il fondatore, e nei famosi «Incontri dell'Epifania», svolti per più d'un decennio a Roma — aveva affrontato il vasto tema dei rapporti tra filosofia dell'arte, simbolismo e teologia, forse non si era del tutto reso conto di aver «precorso i tempi»: quei tempi che il nipote Enrico Castelli Gattinara nella premessa al volume ricorda come quelli che «non a caso seguirono la conclusione di quell'immenso e tremendo trionfo della morte che fu la Seconda guerra mondiale».
Castelli aveva dietro di sé una lunga serie di studi attorno ai problemi di un'interpretazione teologica-antropologica dell'arte e nel suo libro conduceva a fondo un'analisi rivolta soprattutto all'arte tra il XIV e il XVII secolo dei diversi artisti nordici e fiamminghi (da Bosch a Bruegel, da Cranach a Patinir, da Huys a Dürer), che nelle loro opere avevano illustrato i tenebrosi meandri del demoniaco, della kabala, dell'alchimia. Categorie come il «tremendum», il «celato» e il falso, lo «sdoppiato» invadono e circondano i personaggi di molte delle opere considerate e costituiscono la base di un'arte che nel compiacimento dell'orrido, del deforme, o del falso paradisiaco, riusciva a raggiungere spesso straordinarie atmosfere, di terrore e di subdolo fascino. Basti riflettere sul «Giardino delle delizie » di Bosch o sulle «Tentazioni di Sant'Antonio»; o al «Trionfo della Morte» di Bruegel.
Chi, come chi scrive, ricorda ancora con nostalgia l'atmosfera dei seminari (che ebbe la fortuna di poter seguire) non ha dimenticato il loro tenore davvero insolito per l'incontro di dottrina e fantasia e per la presenza di eccezionali studiosi come Ricoeur e Gadamer, Kerenyi e Chastel e di religiosi, non solo cattolici, Jean Daniélou o Raimundo Panikkar (il gesuita-buddista), ma anche protestanti, valdesi, nonché di psicologi e psicanalisti, come Minkowski, Starobinski. Persino di personaggi eterodossi come Jacques Lacan parteciparono agli incontri, e ricordo l'interesse un po' sospettoso, che provocò la sua presenza e soprattutto alcune sue spericolate argomentazioni. In effetti, uno dei grandi meriti di Castelli fu proprio quello di voler porre a confronto personaggi così antitetici come teologi di stretta osservanza e studiosi di indirizzo fenomenologico (Paci) o simbolico (come Kerény). Lo sottolinea anche — nella sua illuminante introduzione — Corrado Bologna: «Castelli lentamente elaborò la sua categoria del demoniaco e trovò una maniera per sublimarla dalla vita alla parola». E infatti il grande merito del libro è stato — ed è ancora — di aver conferito al concetto di demoniaco non solo una valenza teologica ma anche una rivolta all'attività artistica ed esistenziale: un fatto che anche l'arte degli ultimissimi tempi doveva confermare. In altre parole dimostrando come sia improprio, al giorno d'oggi, parlare di «brutto» e di «cattivo» nell'arte, perché il «cattivo » può essere più bello del «buono»: quanto spesso abbiamo visto che il cattivo ispira bellissime immagini e il buono soltanto episodi del peggior kitsch. Tanto più quando c'è di mezzo il diavolo è preferibile non identificare etica con estetica: la buona vecchia «kalokagathia» greca è ormai scomparsa. E basterebbe osservare quanto accade ed è accaduto a certa arte dei nostri giorni: da Beuys a Bacon, da Acconci a Stelarc, a Nitsch e compagni azionisti viennesi (meglio perderli che trovarli, di solito, salvo quando sono dei veri geni come Günter Brus). Ebbene, in molta di questa «arte degenerata» (non quella definita così dai nazisti, che comprendeva anche Klee e Kandinsky) l'aspetto estetico prevale su quello etico; il compiacimento dell'orrorifico, del lubrico, del deforme, come avveniva anche nel grande Bosch o in Patinir, è in grado di suscitare capolavori; mentre gli zuccherosi pensieri di un'ipocrita «bontà» non producono che sterili paesaggini e sbiadite nature morte. Ecco, dunque, come il demoniaco di Castelli, con l'esaltazione dei capolavori fiamminghi proprio nelle loro più allucinate invenzioni del malefico, dell'alchemico, dell'eretico, costituisce ancora un trattato affascinante dello spartiacque e insieme dell'indissolubile coabitazione del bello e del brutto, del buono e del cattivo nell'arte di tutti i tempi.