recensione:
Adonis
Nella Pietra e nel Vento
Mesogea edizioni, 2000
La scimitarra nella roccia
La solitudine, l’introspezione mistica, la storia, le sorgenti dell’Assoluto nei versi di Adonis. Fra i più incantevoli della cultura araba
di Massimo Merletti
La pietra ed il vento sono i simboli forti della poesia di Adonis. La staticità di un elemento invulnerabile ai capricci del tempo, capace di testimoniare le stratificazioni del mondo nel suo fluire storico, in antitesi all’instabilità dell’aria, soffio vitale, giovane d’inestinguibile curiosità e di libero errare. I due poli opposti di questa dialettica sono percorsi da una continua tensione destabilizzante, tendente ad un’oscillazione verticale tra i dogmi di una tradizione secolare cristallizzata nel tempo, ed uno slancio innovatore, le cui scintille bruciano nel grande fuoco dell’ispirazione, elemento fondante dell’opera poetica in tutta la storia della letteratura.
Alì Ahmad Said Esber (Adonis) ha vissuto interiormente questo conflitto. Cresciuto in una cultura, quella araba, ancora troppo diffidente e misoneista, egli ha vissuto la stessa ansia innovatrice, che poco più di un secolo prima, aveva fatto scrivere a Percy Bysshe Shelley: «I poeti sono i legislatori non riconosciuti dell’umanità». E se per il poeta romantico inglese questo proclama era il naturale sbocco di una gioventù tumultuosa e inquieta, percepito come acme di una poesia fondata sulle sensazioni istantanee e sul titanismo dell’anima, per Adonis esso costituisce un punto di partenza ragionato, elaborato da una profonda cultura di base, epifenomeno di una fede incrollabile nella parola: «Con le caverne converso, trasformo in parole i monti e musico i fossi»…«sento una parola / tutti attorno a lei mota e miraggio siamo Imru l’Qays non l’ha brandita scossa e al – Ma’arri era suo figlio e al- Gunayd s’è inclinato sotto di lei al-Hallag e al- Niffari si sono inclinati al-Mutanabbi raccontava di lei eco e voce tu sei il dominato e lei la dominante».
L’organismo sociale deve, quindi, essere destrutturato e riplasmato dalle mani del poeta-demiurgo, il solo capace di osservare la realtà nel suo fine ultimo, e di descriverla ispirato dal divino dono della profezia. La poesia lenisce l’inquietudine esistenziale dell’uomo, perché è in grado di parlare direttamente al cuore, aggirando i ferrei meccanismi della ragione. Il poeta si trasforma in viaggiatore, effondendo ovunque il suo spirito, lasciandosi trasportare da quel continuo fluire delle cose che rappresenta la via più diretta per raggiungere l’Infinito. La comune percezione sensoriale viene stravolta nella creazione di un panumanismo in cui i suoni e le voci della realtà siano in grado di dialogare direttamente con l’anima: «L’Universo tutt’uno con me / le mie palpebre chiudono le sue / L’universo alla mia libertà fuso, / chi di noi due ha partorito l’altro?»
Il fine della ricerca poetica presuppone, quindi, che l’uomo deponga l’individualità per realizzare la propria relazione con l’Altro, in un’assunzione di responsabilità che nella poetica di Adonis coincide con un triplice profondo confronto con il prossimo, con Dio e con la cultura occidentale.
Credere nell’eguaglianza tra gli uomini, ed aspirare all’armonia primigenia, riconoscendo se stessi nel prossimo, rappresenta l’unica via per condurre l’uomo alle sorgenti dell’Assoluto.
Il poeta è un viaggiatore in eterno peregrinare, poiché il raggiungimento della meta presuppone in sé un nuovo cammino da seguire: «Il tuo arrivo è sovente, / l’inizio del tuo vero cammino», in un perenne rinnovarsi, sintomo di un’aspirazione inestinguibile. «Cammino e dietro camminano le stelle / verso il domani delle stelle / l’enigma, la morte, quel che fiorisce e la fatica / sfinisce i passi fanno sangue di me esangue/ sono cammino non iniziato / non vi è giacimento a vista»…«la domanda cerca una risposta, / e io cerco un’altra domanda».
La ricerca metafisica di Mihyar, immaginario poeta errante del medioevo, e alter ego di Adonis, rispecchia fedelmente questo bisogno di conoscenza. Un nomadismo dell’anima che nella sua libertà non ammette confini, e si addentra con inquietudine nei grandi temi dell’esistenza. L’introspezione mistica di Mihyar rifiuta ogni dogma acquisito in precedenza. Il suo vagabondare è senza tempo, non vi è alcuna soluzione di continuità tra passato e presente, la sua strada è illuminata dal dubbio, dalla cui ambigua luce egli trae la forza per rinnovare il suo desiderio di conoscenza. La libertà deve essere completa e totale.
Rinnegando sia Dio che il demonio, Mihyar celebra l’anarchismo della propria anima, immolando la fede e il timore a quell’autonomia di ragione che il poeta rivendica per sé: «Né Dio scelgo né il diavolo mai. / Entrambi son muraglie. / Mi sbarrano entrambi gli occhi. Muro per muro scambierò / lume che illumina è il mio dubbio / il dubbio di chi tutto conosce». Adonis, però, è consapevole del fatto che le grandi domande ontologiche sono patrimonio comune anche alla cultura occidentale ed a quella pre-islamica. Nel poema di Mihyar ecco allora comparire Ulisse e Gilgamesh, eroi di epopee lontane che hanno languito nel dubbio e nell’inquietudine esistenziale molti anni prima dell’avvento di Maometto. La loro presenza, inoltre, rappresenta per Adonis lo svolgersi di quell’intreccio di culture agognato da tempo, ma che la civiltà araba ha lungamente temuto e rifiutato. Un popolo di viaggiatori e conquistatori che ha sempre portato nel cuore una sottile vena di malinconia. Il fulgore delle scimitarre, e le splendide opere architettoniche edificate nelle terre assoggettate, non hanno mai saputo cancellare nel popolo arabo il rimpianto per la terra natale; una grande civiltà cosparsa dalla polvere della nostalgia: «e la nostalgia è il nostro regno l’opulenza dell’essere avvolge l’umanità…io sono notte e giorno tempo io sono fusi fissati nella mia erranza…Così una tenda ho amato»... «niente data vivo nella nostalgia del fuoco della rivolta nell’incanto del suo veleno creatore».
Il poeta arabo Ibn Hamdis (XI secolo), cacciato dai Normanni, piange disperatamente la propria partenza dalla Sicilia, e sogna di tornarvi un giorno, trasportato dalla luna crescente. Nell’ultimo secolo Sayyab descrive la Palestina come un mito irraggiungibile.
Adonis, arabo, ha dovuto spesso fare i conti con l’attualità. I drammi e le aspirazioni della sua terra vivono nella sua poesia accanto alle suggestioni del simbolismo. Pacifista convinto, nemico di ogni forma di guerra e di oppressione, si è trovato, però, sovente circondato da una realtà dura, dolorosa, incalzante. I primi anni sessanta hanno sconvolto il mondo culturale arabo. Le aspirazioni di Nasser per la creazione di un’unica grande nazione araba, hanno incendiato il cuore delle popolazioni: il ritorno di un passato glorioso e mitico sembrava imminente, ed anche gli intellettuali arabi non sono riusciti a rimanere troppo distaccati da un sogno così mirifico. Ma la storia avrebbe avuto un corso diverso.
Alle 08.45 del 5 giugno 1967, i cacciabombardieri con la stella di Davide inchiodano al suolo più di quattrocento aerei nemici. Con un blitz durato poche ore l’esercito israeliano si è assicurato un vantaggio decisivo nelle sorti della guerra….. «Come fiume di sangue mi rincorre la mia patria…erra Damasco geme Bagdad la spada della storia si è spezzata sul volto del mio paese…un esercito si è arreso abbandonato come il filo…questo vaso sfasciato è una nazione in rotta, questo spazio è come fiamma agli occhi».
Il tempo degli slogan nazionalistici deve lasciare spazio alla riflessione. Il passato è un mito che non può tornare. La poesia deve tornare a creare. La forza delle parole è, per Adonis, più forte dei tuoni della guerra. Ora è compito del poeta sanare le ferite aperte, e prendersi cura di un popolo completamente disorientato dalla sconfitta. Il cambiamento è come una pioggia rigeneratrice, spegne le fiamme della devastazione e può ridare speranza ad una terra umiliata e avvilita. L’equilibrio mediorientale è assai instabile. Il fuoco dell’odio razziale e religioso crepita, e sotto le ceneri di guerre concluse è pronto a divampare nuovamente. Nel 1975 Adonis assiste impotente ad un altro dramma. Beirut è devastata da una violenta guerra civile. I combattimenti furiosi tra i musulmani filo-siriani ed i cristiano-maroniti trasformano la “perla” del Medio Oriente in un ammasso di macerie. Questa volta, però, a farne le spese sono soprattutto i civili, che ben presto si abituano a spartire la propria vita con la morte, guardata quotidianamente negli occhi.
Adonis scrive il “Libro dell’assedio”, dalle cui pagine si alza, terribile, un grido di disperazione: l’ennesima tragedia storica si abbatte sulla sua terra: «Non vi è strada per casa, solo assedio / case di morti sono le strade; / dal lontano, sulla casa / una luna astratta / ai fili di polvere impiccata»…. «I sacchetti riempiti di persone: / una persona staccata la testa / una persona staccata mani e senza bocca / una persona strangolata / e gli altri cancellati e senza nome».
Nel 1985 Adonis si stabilisce in Francia: «La tua patria, oh poeta, / è là dove per te c’è solo l’esilio». La nostalgia della sua terra è forte, ma ancora di più lo è la consapevolezza che, come l’araba fenice, la parola rinasce continuamente dalle ceneri di un’umanità arrabbiata, e che le guerre e il progresso non possono offuscare gli occhi del poeta –veggente, perché nei suoi versi è racchiusa la forza dirompente dell’ispirazione poetica: «Posso trasformare: detonatore della civiltà – questo è il mio nome». «Parlare allontana la paura della morte, le parole fanno diventare la morte qualcosa di familiare, attraverso le parole ci si abitua a coesistere con la morte».
dal sito: www.arabroma.com/maktaba/adonis.htm
Adonis
Nella Pietra e nel Vento
Mesogea edizioni, 2000
La scimitarra nella roccia
La solitudine, l’introspezione mistica, la storia, le sorgenti dell’Assoluto nei versi di Adonis. Fra i più incantevoli della cultura araba
di Massimo Merletti
La pietra ed il vento sono i simboli forti della poesia di Adonis. La staticità di un elemento invulnerabile ai capricci del tempo, capace di testimoniare le stratificazioni del mondo nel suo fluire storico, in antitesi all’instabilità dell’aria, soffio vitale, giovane d’inestinguibile curiosità e di libero errare. I due poli opposti di questa dialettica sono percorsi da una continua tensione destabilizzante, tendente ad un’oscillazione verticale tra i dogmi di una tradizione secolare cristallizzata nel tempo, ed uno slancio innovatore, le cui scintille bruciano nel grande fuoco dell’ispirazione, elemento fondante dell’opera poetica in tutta la storia della letteratura.
Alì Ahmad Said Esber (Adonis) ha vissuto interiormente questo conflitto. Cresciuto in una cultura, quella araba, ancora troppo diffidente e misoneista, egli ha vissuto la stessa ansia innovatrice, che poco più di un secolo prima, aveva fatto scrivere a Percy Bysshe Shelley: «I poeti sono i legislatori non riconosciuti dell’umanità». E se per il poeta romantico inglese questo proclama era il naturale sbocco di una gioventù tumultuosa e inquieta, percepito come acme di una poesia fondata sulle sensazioni istantanee e sul titanismo dell’anima, per Adonis esso costituisce un punto di partenza ragionato, elaborato da una profonda cultura di base, epifenomeno di una fede incrollabile nella parola: «Con le caverne converso, trasformo in parole i monti e musico i fossi»…«sento una parola / tutti attorno a lei mota e miraggio siamo Imru l’Qays non l’ha brandita scossa e al – Ma’arri era suo figlio e al- Gunayd s’è inclinato sotto di lei al-Hallag e al- Niffari si sono inclinati al-Mutanabbi raccontava di lei eco e voce tu sei il dominato e lei la dominante».
L’organismo sociale deve, quindi, essere destrutturato e riplasmato dalle mani del poeta-demiurgo, il solo capace di osservare la realtà nel suo fine ultimo, e di descriverla ispirato dal divino dono della profezia. La poesia lenisce l’inquietudine esistenziale dell’uomo, perché è in grado di parlare direttamente al cuore, aggirando i ferrei meccanismi della ragione. Il poeta si trasforma in viaggiatore, effondendo ovunque il suo spirito, lasciandosi trasportare da quel continuo fluire delle cose che rappresenta la via più diretta per raggiungere l’Infinito. La comune percezione sensoriale viene stravolta nella creazione di un panumanismo in cui i suoni e le voci della realtà siano in grado di dialogare direttamente con l’anima: «L’Universo tutt’uno con me / le mie palpebre chiudono le sue / L’universo alla mia libertà fuso, / chi di noi due ha partorito l’altro?»
Il fine della ricerca poetica presuppone, quindi, che l’uomo deponga l’individualità per realizzare la propria relazione con l’Altro, in un’assunzione di responsabilità che nella poetica di Adonis coincide con un triplice profondo confronto con il prossimo, con Dio e con la cultura occidentale.
Credere nell’eguaglianza tra gli uomini, ed aspirare all’armonia primigenia, riconoscendo se stessi nel prossimo, rappresenta l’unica via per condurre l’uomo alle sorgenti dell’Assoluto.
Il poeta è un viaggiatore in eterno peregrinare, poiché il raggiungimento della meta presuppone in sé un nuovo cammino da seguire: «Il tuo arrivo è sovente, / l’inizio del tuo vero cammino», in un perenne rinnovarsi, sintomo di un’aspirazione inestinguibile. «Cammino e dietro camminano le stelle / verso il domani delle stelle / l’enigma, la morte, quel che fiorisce e la fatica / sfinisce i passi fanno sangue di me esangue/ sono cammino non iniziato / non vi è giacimento a vista»…«la domanda cerca una risposta, / e io cerco un’altra domanda».
La ricerca metafisica di Mihyar, immaginario poeta errante del medioevo, e alter ego di Adonis, rispecchia fedelmente questo bisogno di conoscenza. Un nomadismo dell’anima che nella sua libertà non ammette confini, e si addentra con inquietudine nei grandi temi dell’esistenza. L’introspezione mistica di Mihyar rifiuta ogni dogma acquisito in precedenza. Il suo vagabondare è senza tempo, non vi è alcuna soluzione di continuità tra passato e presente, la sua strada è illuminata dal dubbio, dalla cui ambigua luce egli trae la forza per rinnovare il suo desiderio di conoscenza. La libertà deve essere completa e totale.
Rinnegando sia Dio che il demonio, Mihyar celebra l’anarchismo della propria anima, immolando la fede e il timore a quell’autonomia di ragione che il poeta rivendica per sé: «Né Dio scelgo né il diavolo mai. / Entrambi son muraglie. / Mi sbarrano entrambi gli occhi. Muro per muro scambierò / lume che illumina è il mio dubbio / il dubbio di chi tutto conosce». Adonis, però, è consapevole del fatto che le grandi domande ontologiche sono patrimonio comune anche alla cultura occidentale ed a quella pre-islamica. Nel poema di Mihyar ecco allora comparire Ulisse e Gilgamesh, eroi di epopee lontane che hanno languito nel dubbio e nell’inquietudine esistenziale molti anni prima dell’avvento di Maometto. La loro presenza, inoltre, rappresenta per Adonis lo svolgersi di quell’intreccio di culture agognato da tempo, ma che la civiltà araba ha lungamente temuto e rifiutato. Un popolo di viaggiatori e conquistatori che ha sempre portato nel cuore una sottile vena di malinconia. Il fulgore delle scimitarre, e le splendide opere architettoniche edificate nelle terre assoggettate, non hanno mai saputo cancellare nel popolo arabo il rimpianto per la terra natale; una grande civiltà cosparsa dalla polvere della nostalgia: «e la nostalgia è il nostro regno l’opulenza dell’essere avvolge l’umanità…io sono notte e giorno tempo io sono fusi fissati nella mia erranza…Così una tenda ho amato»... «niente data vivo nella nostalgia del fuoco della rivolta nell’incanto del suo veleno creatore».
Il poeta arabo Ibn Hamdis (XI secolo), cacciato dai Normanni, piange disperatamente la propria partenza dalla Sicilia, e sogna di tornarvi un giorno, trasportato dalla luna crescente. Nell’ultimo secolo Sayyab descrive la Palestina come un mito irraggiungibile.
Adonis, arabo, ha dovuto spesso fare i conti con l’attualità. I drammi e le aspirazioni della sua terra vivono nella sua poesia accanto alle suggestioni del simbolismo. Pacifista convinto, nemico di ogni forma di guerra e di oppressione, si è trovato, però, sovente circondato da una realtà dura, dolorosa, incalzante. I primi anni sessanta hanno sconvolto il mondo culturale arabo. Le aspirazioni di Nasser per la creazione di un’unica grande nazione araba, hanno incendiato il cuore delle popolazioni: il ritorno di un passato glorioso e mitico sembrava imminente, ed anche gli intellettuali arabi non sono riusciti a rimanere troppo distaccati da un sogno così mirifico. Ma la storia avrebbe avuto un corso diverso.
Alle 08.45 del 5 giugno 1967, i cacciabombardieri con la stella di Davide inchiodano al suolo più di quattrocento aerei nemici. Con un blitz durato poche ore l’esercito israeliano si è assicurato un vantaggio decisivo nelle sorti della guerra….. «Come fiume di sangue mi rincorre la mia patria…erra Damasco geme Bagdad la spada della storia si è spezzata sul volto del mio paese…un esercito si è arreso abbandonato come il filo…questo vaso sfasciato è una nazione in rotta, questo spazio è come fiamma agli occhi».
Il tempo degli slogan nazionalistici deve lasciare spazio alla riflessione. Il passato è un mito che non può tornare. La poesia deve tornare a creare. La forza delle parole è, per Adonis, più forte dei tuoni della guerra. Ora è compito del poeta sanare le ferite aperte, e prendersi cura di un popolo completamente disorientato dalla sconfitta. Il cambiamento è come una pioggia rigeneratrice, spegne le fiamme della devastazione e può ridare speranza ad una terra umiliata e avvilita. L’equilibrio mediorientale è assai instabile. Il fuoco dell’odio razziale e religioso crepita, e sotto le ceneri di guerre concluse è pronto a divampare nuovamente. Nel 1975 Adonis assiste impotente ad un altro dramma. Beirut è devastata da una violenta guerra civile. I combattimenti furiosi tra i musulmani filo-siriani ed i cristiano-maroniti trasformano la “perla” del Medio Oriente in un ammasso di macerie. Questa volta, però, a farne le spese sono soprattutto i civili, che ben presto si abituano a spartire la propria vita con la morte, guardata quotidianamente negli occhi.
Adonis scrive il “Libro dell’assedio”, dalle cui pagine si alza, terribile, un grido di disperazione: l’ennesima tragedia storica si abbatte sulla sua terra: «Non vi è strada per casa, solo assedio / case di morti sono le strade; / dal lontano, sulla casa / una luna astratta / ai fili di polvere impiccata»…. «I sacchetti riempiti di persone: / una persona staccata la testa / una persona staccata mani e senza bocca / una persona strangolata / e gli altri cancellati e senza nome».
Nel 1985 Adonis si stabilisce in Francia: «La tua patria, oh poeta, / è là dove per te c’è solo l’esilio». La nostalgia della sua terra è forte, ma ancora di più lo è la consapevolezza che, come l’araba fenice, la parola rinasce continuamente dalle ceneri di un’umanità arrabbiata, e che le guerre e il progresso non possono offuscare gli occhi del poeta –veggente, perché nei suoi versi è racchiusa la forza dirompente dell’ispirazione poetica: «Posso trasformare: detonatore della civiltà – questo è il mio nome». «Parlare allontana la paura della morte, le parole fanno diventare la morte qualcosa di familiare, attraverso le parole ci si abitua a coesistere con la morte».
dal sito: www.arabroma.com/maktaba/adonis.htm