Corriere della Sera 13.3.08
Così sarà il mio Baudelaire
Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno
di Roberto Calasso
Vorrei innanzitutto ringraziare Antoine Gallimard e Marc Fumaroli per le loro parole, quanto mai generose e per me tanto più significative, data l'antica ammirazione che provo per entrambi. Ma, oltre che a loro, vorrei dire la mia gratitudine a un testimone muto, che è il luogo dove ci troviamo in questo momento. Devo confessarvi che sono un devoto osservatore e cultore delle coincidenze, nelle quali intravedo le ultime tracce nel nostro mondo di quelli che i veggenti vedici chiamavano i bandhu, le «connessioni». Ora, si dà il caso che questo luogo ne racchiuda una che per me è trascinante.
Innanzitutto da qui sono usciti quei libri che, quando da ragazzino li vedevo schierati in drappelli compatti, nella loro elegante divisa bianca con filetti neri e rossi, sul primo banco a sinistra della libreria Seeber a Firenze, significavano la Francia stessa e la sua letteratura, traboccanti di malie e di misteri. Ma c'è anche qualcos'altro: esattamente qui, al 17 di rue de l'Université, abitò in un periodo cruciale della sua vita e della Francia, nel 1790, un personaggio che sarebbe poi diventato per me lo Hermes psicopompo nell'impresa che ho avviato con La rovina di Kasch:
Monsieur de Talleyrand. Perciò in certo modo è come se la quintessenza della mia doppia vita, di scrittore e di editore, si fosse cristallizzata fra queste mura.
Nulla potrebbe aiutarmi meglio a spiegare quella sorta di compulsione — o altrimenti attrazione magnetica — che ha condotto sempre di nuovo chi vi parla verso questi luoghi. Una compulsione che proverò brevemente a raccontarvi. Tutto comincia con tre volumi Gallimard, la prima edizione della Recherche di Proust nella Pléiade, che fu il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Era il 1954 e avevo tredici anni. Ricordo che mi ero fatto male a un ginocchio e dovevo restare immobile a letto per qualche giorno. Fu allora che mio padre mi portò quei tre volumi, nei quali mi immersi con un senso di ebbrezza che forse non ho più incontrato.
Pochi mesi dopo, Parigi fu la prima città straniera dove mi trovai a vivere da solo. Abitavo da amici dei miei nonni a Montmorency e ogni mattina prendevo il treno per Parigi da Enghien. Poi, fino alla notte, vagavo ovunque. Non credo di aver mai camminato senza meta in un luogo per così tanti chilometri come a Parigi in quelle settimane. E non vi è città di cui abbia mai conosciuto così bene la rete del métro, con una sorta di partecipazione erotica ai nomi delle stazioni, un po' come accadeva a Marcel per le stazioni ferroviarie intorno a Balbec. E il métro anche mi nutriva, con i suoi automates pieni di sucreries che mi fornivano energia per camminare.
Da quei giorni un filo teso e ininterrotto mi collega al punto in cui, circa trent'anni fa, tracciai un primo disegno, piuttosto temerario, di un'opera composta da vari pannelli al tempo stesso autosufficienti e interconnessi. A oggi, di quell'opera sono apparsi cinque volumi, che formano un insieme di più di duemila pagine. Li si potrebbe definire il romanzo di una famiglia capillarmente ramificata, eccentrica e migratoria, i cui membri si possono incontrare nella Francia sia di Port-Royal sia del Palais-Royal come nella Grecia di Omero e di Nonno, nell'India dei veggenti vedici o nel paese senza nome di Franz Kafka o nella Venezia di Giambattista Tiepolo. Per introdurre le storie di questa turbolenta famiglia avevo bisogno di un maestro di cerimonie — e uno solo si impose di autorità: era M. de Talleyrand, il quale a pochi metri da qui una sera introdusse in società, nel corso di un ballo memorabile per Joséphine all'Hôtel Galliffet, colui che avrebbe istituito la Légion d'Honneur ed era allora il generale Bonaparte. E così come, nella Rovina di Kasch, Talleyrand guida il racconto attraverso una fuga di saloni, nella sesta parte di questo romanzo di famiglia, che dovrebbe essere pubblicata nell'ottobre di quest'anno, a fare da guida sarà ancora una volta qualcuno che è nato non lontano da qui, a un incrocio di boulevard Saint-Germain. Si tratta di Charles Baudelaire — e i primi passi della narrazione non saranno nei salons descritti dalla duchessa d'Abrantès ma nei Salons della pittura, dove Baudelaire cominciò a esercitare la sua prosa.
Tutto questo mi induce a pensare che, quando mi trovo a uno snodo decisivo in questo abnorme romanzo di famiglia, qualcosa mi spinge irresistibilmente verso l'aria e le storie dei luoghi dove ci troviamo in questo momento. E, se mi domando perché, penso subito a Cioran, il quale preferiva la sua mansarda della rue de l'Odéon a ogni altro domicilio, non solo perché gli permetteva di fare agevolmente lunghe passeggiate solitarie al Luxembourg, ma perché aveva la vaga impressione che la stessa rue de l'Odéon fosse una sorta di perno cosmico, in qualche modo congeniale alla sua ipocondria ed euforia balcaniche. Cioran era convinto che in questa lingua, in queste strade e nella loro storia si celasse qualcosa che coinvolge nella sua interezza quel «piccolo capo del continente asiatico » (come diceva Valéry) in cui ogni europeo ha avuto in sorte di nascere. È un punto su cui ho sempre concordato pienamente con Cioran — e oggi vorrei solo aggiungere, come preliminare a ogni altra considerazione, le parole che ha detto una volta in un'intervista del 1985 (si osservi la data), il glorioso decano degli scrittori francesi, Claude Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere in un'epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture — e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l'esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura».
Così sarà il mio Baudelaire
Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno
di Roberto Calasso
Vorrei innanzitutto ringraziare Antoine Gallimard e Marc Fumaroli per le loro parole, quanto mai generose e per me tanto più significative, data l'antica ammirazione che provo per entrambi. Ma, oltre che a loro, vorrei dire la mia gratitudine a un testimone muto, che è il luogo dove ci troviamo in questo momento. Devo confessarvi che sono un devoto osservatore e cultore delle coincidenze, nelle quali intravedo le ultime tracce nel nostro mondo di quelli che i veggenti vedici chiamavano i bandhu, le «connessioni». Ora, si dà il caso che questo luogo ne racchiuda una che per me è trascinante.
Innanzitutto da qui sono usciti quei libri che, quando da ragazzino li vedevo schierati in drappelli compatti, nella loro elegante divisa bianca con filetti neri e rossi, sul primo banco a sinistra della libreria Seeber a Firenze, significavano la Francia stessa e la sua letteratura, traboccanti di malie e di misteri. Ma c'è anche qualcos'altro: esattamente qui, al 17 di rue de l'Université, abitò in un periodo cruciale della sua vita e della Francia, nel 1790, un personaggio che sarebbe poi diventato per me lo Hermes psicopompo nell'impresa che ho avviato con La rovina di Kasch:
Monsieur de Talleyrand. Perciò in certo modo è come se la quintessenza della mia doppia vita, di scrittore e di editore, si fosse cristallizzata fra queste mura.
Nulla potrebbe aiutarmi meglio a spiegare quella sorta di compulsione — o altrimenti attrazione magnetica — che ha condotto sempre di nuovo chi vi parla verso questi luoghi. Una compulsione che proverò brevemente a raccontarvi. Tutto comincia con tre volumi Gallimard, la prima edizione della Recherche di Proust nella Pléiade, che fu il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Era il 1954 e avevo tredici anni. Ricordo che mi ero fatto male a un ginocchio e dovevo restare immobile a letto per qualche giorno. Fu allora che mio padre mi portò quei tre volumi, nei quali mi immersi con un senso di ebbrezza che forse non ho più incontrato.
Pochi mesi dopo, Parigi fu la prima città straniera dove mi trovai a vivere da solo. Abitavo da amici dei miei nonni a Montmorency e ogni mattina prendevo il treno per Parigi da Enghien. Poi, fino alla notte, vagavo ovunque. Non credo di aver mai camminato senza meta in un luogo per così tanti chilometri come a Parigi in quelle settimane. E non vi è città di cui abbia mai conosciuto così bene la rete del métro, con una sorta di partecipazione erotica ai nomi delle stazioni, un po' come accadeva a Marcel per le stazioni ferroviarie intorno a Balbec. E il métro anche mi nutriva, con i suoi automates pieni di sucreries che mi fornivano energia per camminare.
Da quei giorni un filo teso e ininterrotto mi collega al punto in cui, circa trent'anni fa, tracciai un primo disegno, piuttosto temerario, di un'opera composta da vari pannelli al tempo stesso autosufficienti e interconnessi. A oggi, di quell'opera sono apparsi cinque volumi, che formano un insieme di più di duemila pagine. Li si potrebbe definire il romanzo di una famiglia capillarmente ramificata, eccentrica e migratoria, i cui membri si possono incontrare nella Francia sia di Port-Royal sia del Palais-Royal come nella Grecia di Omero e di Nonno, nell'India dei veggenti vedici o nel paese senza nome di Franz Kafka o nella Venezia di Giambattista Tiepolo. Per introdurre le storie di questa turbolenta famiglia avevo bisogno di un maestro di cerimonie — e uno solo si impose di autorità: era M. de Talleyrand, il quale a pochi metri da qui una sera introdusse in società, nel corso di un ballo memorabile per Joséphine all'Hôtel Galliffet, colui che avrebbe istituito la Légion d'Honneur ed era allora il generale Bonaparte. E così come, nella Rovina di Kasch, Talleyrand guida il racconto attraverso una fuga di saloni, nella sesta parte di questo romanzo di famiglia, che dovrebbe essere pubblicata nell'ottobre di quest'anno, a fare da guida sarà ancora una volta qualcuno che è nato non lontano da qui, a un incrocio di boulevard Saint-Germain. Si tratta di Charles Baudelaire — e i primi passi della narrazione non saranno nei salons descritti dalla duchessa d'Abrantès ma nei Salons della pittura, dove Baudelaire cominciò a esercitare la sua prosa.
Tutto questo mi induce a pensare che, quando mi trovo a uno snodo decisivo in questo abnorme romanzo di famiglia, qualcosa mi spinge irresistibilmente verso l'aria e le storie dei luoghi dove ci troviamo in questo momento. E, se mi domando perché, penso subito a Cioran, il quale preferiva la sua mansarda della rue de l'Odéon a ogni altro domicilio, non solo perché gli permetteva di fare agevolmente lunghe passeggiate solitarie al Luxembourg, ma perché aveva la vaga impressione che la stessa rue de l'Odéon fosse una sorta di perno cosmico, in qualche modo congeniale alla sua ipocondria ed euforia balcaniche. Cioran era convinto che in questa lingua, in queste strade e nella loro storia si celasse qualcosa che coinvolge nella sua interezza quel «piccolo capo del continente asiatico » (come diceva Valéry) in cui ogni europeo ha avuto in sorte di nascere. È un punto su cui ho sempre concordato pienamente con Cioran — e oggi vorrei solo aggiungere, come preliminare a ogni altra considerazione, le parole che ha detto una volta in un'intervista del 1985 (si osservi la data), il glorioso decano degli scrittori francesi, Claude Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere in un'epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture — e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l'esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura».