Mario Pilosu
La donna, la lussuria e la chiesa nel Medioevo
ECIG, Genova 1990, pagg. 197, lire 20.000.
Su un capitello della cattedrale di Vézelay è raffigurata una donna che tenta carnalmente un uomo, la cui testa è tenuta per i capelli da un diavolo. Immagini simili a questa si trovano frequentemente sui frontoni e sui capitelli delle chiese romaniche, con variazioni più o meno significative, e rappresentano visibilmente uno degli stereotipi più diffusi dell’età di Mezzo: quello della donna tentatrice collegata indissolubilmente al binomio disperazione-lussuria. Il saggio di Mario Pilosu ha lo scopo di scandagliare la visione della donna e la sua funzione nell’alto Medioevo, sino al XIV secolo: una visione che naturalmente è filtrata attraverso la lente mplto spesso deformante della letteratura maschile. E forse proprio a causa di questa ottica che la foemina diventa via via strumento passivo di riscatto dell’animo maschile, eternamente sul punto di cedere alle piacevoli lusinghe femminili (sino al punto di diventare « prova del fuoco~ per quanti intendono intraprendere la via dell’iniziazione monastica), oppure si ritira nella categoria di quei cosiddetti gruppi marginali che sono la parte fluttuante ed instabile per antonomasia della società medievale. Opportunamente Pilosu precisa sin dall’inizio che comunque sia, pur con le non indifferenti variazioni che interverranno lungo il trascorrere del tempo, per l’uomo medievale la donna è innanzitutto e soprattutto la figlia di Eva, owerosia una» procacciatrice di peccati », in primis quello della lussuria e più vastamente dell’incontinenza. I Padri del deserto avevano un bel daffare per tenere lontane le tentazioni muliebri, che peraltro fornivano loro l’occasione di una vera e propria ordalia della carne, superata la quale avrebbero potuto permettersi di intraprendere la strada misteriosa che avrebbe dovuto portarli a trasformarsi in creature angeliche.
La donna era vista dunque come instrumentum diabo/i e veniva gratificata di una letteratura del tutto punitiva e fatta bersaglio di una malevolenza che rasentava il parossismo. Gli exempla e i sermoni, che in epoca medievale svolgevano un ruolo simile a quello dei moderni mass media, abbondavano di ammonimenti e prescrizioni incentrati sul miglior comportamento sessuale da tenere e sulla denuncia dei pericoli cui si andava incontro avvicinandosi incautamente al sesso debole, seppure nel letto nuziale. La riforma gregoriana del resto indicava come obiettivo prioritario il riordino di quelli che oggi definiremmo “rapporti di coppia”, sia dentro che fuori dal matrimonio: e tutto ciò valeva tanto per i laici quanto per i chierici, che non disdegnavano certo i piaceri della carne.
A prima vista, dunque, parrebbe di trovarsi di fronte ad una contraddizione di non poco conto, se poniamo l’accento, come fa Pilosu, sulla posizione della Chiesa riguardo al fenomeno della prostituzione: una posizione di singolare tolleranza basata sul concetto di « male minore » e sulla convinzione che fosse tutto sommato preferibile lo sfogo carnale con una meretrice piuttosto che la mina vagante dell’adulterio, che avrebbe potuto mettere a repentaglio un matrimonio. A questo proposito, lvo di Chartres è categorico: «è peggio profanare un matrimonio d’altri che giacere con una prostituta », purché la prostituta sia “onesta », cioè a dire non pretenda di più del dovuto (nel qual caso si sarebbe macchiata dell’ulteriore peccato di guadagnare illecitamente e non secondo là consistenza delle sue prestazioni). Lo sviluppo urbano ed il rapido accrescimento degli scambi e dei commerci comportarono d’altronde una maggiore mobilità di uomini e merci e una altrettanto rapida espansione dei contatti sociali fra i ceti che andavano a comporre il mosaico della società cittadina, e questi fenomeni indussero un inusitato sviluppo delle case di piacere e dei bagni pubblici, che nella maggior parte dei casi erano del tutto simili ai bordelli ed erano visti dalla Chiesa con crescente sospetto.
La prostituzione dunque imperversava, e il topos femminile destinato a farsi strada nella mentalità religiosa dell’epoca divenne ben presto la figura di Maria Maddalena, che, essendosi riscattata attraverso la fede e il pentimento, rappresentava I modello di tutti coloro — religiosi e non — che si trovavano in prima linea nella battaglia per la redenzione delle donne perdute. Il tema della redemptio attraverso la penitenza, prevista ed auspicata tanto dai manuali dei confessori quanto dai penitenziari, penetrò in profondità nella letteratura ecclesiastica dell’epoca nonché, più vastamente, nell’immaginario della società maschile nei confronti della donna al tempo delle cattedrali. C’è da tenere presente che il cristianesimo primitivo è una vera e propria miniera di episodi che si rifanno al tema della redemptio, associato a quello della fuga dalle tentazioni mondane; ancora una volta i protagonisti sono i Padri orientali, ed emblematico è il racconto che narra del monaco Pafnunzio, il quale, venuto a contatto con una prostituta di nome Taide, la fa rinchiudere in una cella murata e solo nel momento in cui gli viene annunziato da un angelo che la poveretta si è sinceramente pentita la fa liberare, imponendole naturalmente una dose non troppo leggera di penitenze. Le Vitae Patrum sono ricchissime di episodi come questo: il sacrificio del monaco che giunge persino ad automutilarsi pur di conservare la verginità e redimere la meretrice è un topos letterario-religioso che acquisirà grandissima fortuna. Non è quindi da considerarsi strano se in questo periodo si vedranno sorgere in prossimità dei bordelli un buon numero di monasteri pronti ad accogliere le peccatrici più o meno volontariamente ravvedute, per le quali la rinunzia al mondo rappresenta l’espiazione penitenziale per eccellenza. Del resto, in un periodo in cui l’abbandono dei beni materiali e il ritorno alla povertà intesa come simbolo di purezza andavano ridisegnando il concetto stesso di santità, è più che comprensibile che anche l’elemento femminile trovasse un suo spazio all’interno del sistema, e gli venisse concesso il lusso di potersi pentire e di poter espiare le proprie colpe. Il modello più in voga da questo punto di vista, almeno a partire dalla fine del XII secolo e per tutto il XIII, sarà nientemeno che San Francesco d’Assisi, nuovo simbolo della conversione dopo una giovinezza trascorsa nei piaceri e nei vizi. Tuttavia, seppure con significative variazioni, l’ideologia religiosa riguardo alla sessualità in genere ed a quella della donna in particolare rimarrà grosso modo immutata per tutto l’arco di tempo che va dall’alto Medioevo fino al XVI secolo ed oltre. « La donna rimane sempre e comunque più vicina dell’uomo alla natura, pecca soprattutto attraverso un uso insensato del proprio corpo », osserva Pilosu, e continua dunque a rappresentare un costante pericolo per una società fondamentalmente misogina come quella medievale. A proposito del “pericolo” della femmina, legato alla sua natura oltre che alla sua cultura, sarebbe interessante stabilire un parallelo di causa-effetto tra questa concezione e la nascita, o per meglio dire la rinascita, della figura della strega, con tutte le sue implicazioni, non ultima la criminalizzazione di un certo tipo di donna dedita alla magia e a pratiche illecite risalenti peraltro alla notte dei tempi. Pilosu non si sofferma su questo aspetto, probabilmente anche perché abbraccia un periodo entro il quale la strega e la stregoneria occupavano uno spazio piuttosto limitato ed in alcuni casi tollerato, benché non sia fuori luogo ritenere che molti dei roghi che di lì a poco si sarebbero accesi in tutta Europa si debbano anche agli strali che la Chiesa ha sempre lanciato contro le «figlie di Eva ».
Alessandro Bedini
Diorama letterario, ottobre 1990, numero 141, pagina 31-32