Corriere della Sera, 18/03/2003
Mille anni dopo, torna il mito della «guerra santa», «Dio lo vuole», così nacque la madre di tutte le crociate
Non si sfugge al clima della guerra. Un clima che corrode l’informazione e l’intelligenza, appanna gli spiriti di chi vive il conflitto armato come l’estremo dei rimedi non meno delle anime di chi lo depreca. Un clima che lascia un dilemma - se cioè quel frullato di banalità e semplificazioni, di rozze concretezze e di sommi principi che contraddistingue questo tempo sia il frutto o la causa della guerra stessa. E dopo il dilemma, il senso d’impotenza davanti alla metamorfosi delle parole, che cessano di essere docili attrezzi del conoscere e diventano armi o fantasmi o idoli che si muovono, pur non avendo in sé nulla di ciò che rende umano l’uomo. Fra queste parole ne spicca una tagliente, terribile: «crociata». Solo una volta, dopo l’11 settembre, il presidente Bush l’ha usata; ma subito è tornata nella propaganda e nella stampa d’ogni dove. La crociata inquieta chi la nega e chi la vuole, chi ne teorizza una versione democratica e chi la esorcizza sbrigativamente. Perché la crociata è la sintesi di un disprezzo per la vita concreta che non si fonda sull’interesse, ma si dispiega in nome di valori supremi e di beni ultraterreni, sotto i quali passa tutt’altro; è quella guerra che si riconosce perché esula dalla politica, passa dalla ideologia, e pretende per sé il consenso assoluto: «Dio lo vuole!». Non a caso il Papa ha reagito con durezza alla idea della guerra preventiva. Fra un rais sanguinario che ha bestemmiato l’Islam per sacrificare altri figli di un popolo a lutto e un democraticissimo presidente che ha portato nel discorso politico elementi di fondamentalismo cristiano ai quali eravamo felicemente disabituati - Giovanni Paolo II non cerca una neutralità, ma insorge per sottrarre la fede a una logica di cui il papato conosce i meccanismi. Roma sa che la crociata esiste non quando viene proclamata, ma quando viene percepita come tale da chi la fa e da chi la subisce. A tanto impegno del magistero ha risposto un ossequio formale ampio e sterile. Perché la voce papale cade nel deserto della cultura religiosa, fra i luoghi comuni e le miopie geopolitiche, fra superficialità politiche e intellettualistiche banalità - causa e frutto del clima della guerra, appunto. Eppure il rigore del linguaggio, la precisione delle immagini, la ponderazione dei precedenti sarebbero quanto mai necessari, per salvare Dio dall’arruolamento obbligatorio, gli uomini dalla perdita del senso critico e il mondo dall’eclissi della pietas. Chi voglia dedicarsi a tale profilassi dell’anima e dell’intelligenza può leggere un bel libro di Jean Flori, La guerra santa. La formazione dell’idea di crociata nell’Occidente cristiano , in uscita proprio oggi, venerdì santo, per i tipi de Il Mulino. Quest'opera di storia medievale va ad arricchire uno scaffale prezioso - quello in cui sono entrati libri come Il dio degli eserciti di Peter Partner, La controversia su Abramo di Karl-Joseph Kuschel, Il mediterraneo di Andrea Riccardi, o I nemici della cristianità di Giuseppe Ruggieri: lavori che non forniscono scontate sovrapposizioni col presente, ma utili elementi per capire come coabitazione e conflitto nascano da processi lunghi, mai ineluttabili, dove tutto conta. La guerra santa di Flori vuole raccontare qualcosa di preciso ed antico: cioè come si arriva all'appello di Urbano II del 27 novembre 1095, da cui nasce la prima crociata, madre di tutte le crociate. Con quell’appello - al quale, secondo le cronache, la folla rispose entusiasta «Dio lo vuole!» - il pontefice mobilitava la fides dei suoi ascoltatori: dunque la loro fede e la loro fedeltà al vincolo sociale. Flori smonta con finezza le letture unilaterali della crociata immaginata e combattuta. Egli riconosce il peso del pellegrinaggio, ma chiarisce che la crociata non si riduce ad un pellegrinaggio armato; documenta la sacralizzazione della guerra, ma mostra come questo processo si esasperi quando la meta diventa Gerusalemme; spiega il rapporto fra la crociata e la concezione del papato del secolo XI, ma mostra anche i molteplici aggiustamenti che hanno trasformato la fede degli inermi martiri cristiani nell’entusiasmo bellicoso dei predicatori medievali. E alla fine di una lunga analisi, nell’ultima pagina del volume, Flori offre la sua definizione della crociata: la crociata è «una guerra santa che ha come obiettivo la liberazione di Gerusalemme». Tesi sobria, ma carica di molte implicazioni: e ne sottolineo tre. La prima riguarda l’origine della guerra santa cristiana. Quando sant’Agostino riprende dall’etica ciceroniana il tema della guerra giusta, non vuole aggirare il comando evangelico sulla spada, ma negare che nel tempo della Chiesa ci possano essere guerre sante simili a quelle dell'antico testamento. Eppure è proprio dalla guerra giusta che passa la sacralizzazione della guerra contro l’eretico o il nemico della Chiesa e poi contro l’ebreo: sia attraverso la teorizzazione delle tregue di Dio (la breve pace imposta nei giorni di festa), sia attraverso l’invocazione santi protettori (invocati come vendicatori violenti), si arriva ad una guerra che porta dentro di sé la sua ragion d'essere. In secondo luogo Flori documenta il ruolo di Gerusalemme. Il mito di Gerusalemme affila il carattere di «rivincita» già utilizzato sul quadrante francese e iberico fin dal VIII secolo e diventa qualificante per l’idea della crociata. A Gerusalemme si va per combattere un avversario demonizzato dalla propaganda: il nemico del crociato è l’oggetto di una caricatura negativa, un mostro dissoluto e sanguinario, la cui presenza è per sé stessa blasfema agli occhi del pio e spietato penitente armato. A questo penitente da guerra la Chiesa promette il paradiso, ma anche l’esenzione dal dovere di espiare per aver combattuto. Già all’alba dell’impero cristiano i sacerdoti che come milites Christi non potevano spargere sangue, si servivano dei laici milites saeculi per difendere se stessi e la Chiesa: ai laici rimaneva l’obbligo di far penitenza per aver combattuto una guerra che pur essendo «legale», non diventava «incolpevole». La guerra santa condona l’espiazione e dà un premio riservato a chi si batte per Gerusalemme, perché nella crociata legalità e moralità sono perfettamente sovrapponibili. L’appello di Urbano II del 1095 è dunque preceduto da una lunga accumulazione di idee e linguaggi che non costruiscono la «causa» della crociata: sono i tasselli di una guerra santa che proprio in quel retroterra trova riferimenti dai quali discenderanno le violenze contro gli eretici e contro gli ebrei che con le crociate conoscono una svolta. Flori cataloga i suoi tasselli con cura esemplare: distingue le piccole differenze d’accento, marca la lentezza dei processi, segnala i generi delle sue fonti. E in questo dà una lezione sulla crociata, che - proprio perché non vuole esse immediatamente fruibile - è utile all’oggi. Flori dimostra che senza rigore non c’è conoscenza, ma la banalità della propaganda e la tribunalizzazione della storia: un «pensare impoverito» che perfora le fragili corazze intellettuali e assegna alla vittoria il compito di dare torti, ragioni e oblio. Senza rigore si finisce così per perdersi davanti alla retorica dell'assoluto, alla tirannia dei valori che non si possono non accettare come tali, perché «Dio lo vuole». Il libro di Jean Flori, «La guerra santa. La formazione dell’idea di crociata nell’Occidente cristiano» (editore Il Mulino, pagine 441, 26) è in libreria da oggi
Mille anni dopo, torna il mito della «guerra santa», «Dio lo vuole», così nacque la madre di tutte le crociate
Non si sfugge al clima della guerra. Un clima che corrode l’informazione e l’intelligenza, appanna gli spiriti di chi vive il conflitto armato come l’estremo dei rimedi non meno delle anime di chi lo depreca. Un clima che lascia un dilemma - se cioè quel frullato di banalità e semplificazioni, di rozze concretezze e di sommi principi che contraddistingue questo tempo sia il frutto o la causa della guerra stessa. E dopo il dilemma, il senso d’impotenza davanti alla metamorfosi delle parole, che cessano di essere docili attrezzi del conoscere e diventano armi o fantasmi o idoli che si muovono, pur non avendo in sé nulla di ciò che rende umano l’uomo. Fra queste parole ne spicca una tagliente, terribile: «crociata». Solo una volta, dopo l’11 settembre, il presidente Bush l’ha usata; ma subito è tornata nella propaganda e nella stampa d’ogni dove. La crociata inquieta chi la nega e chi la vuole, chi ne teorizza una versione democratica e chi la esorcizza sbrigativamente. Perché la crociata è la sintesi di un disprezzo per la vita concreta che non si fonda sull’interesse, ma si dispiega in nome di valori supremi e di beni ultraterreni, sotto i quali passa tutt’altro; è quella guerra che si riconosce perché esula dalla politica, passa dalla ideologia, e pretende per sé il consenso assoluto: «Dio lo vuole!». Non a caso il Papa ha reagito con durezza alla idea della guerra preventiva. Fra un rais sanguinario che ha bestemmiato l’Islam per sacrificare altri figli di un popolo a lutto e un democraticissimo presidente che ha portato nel discorso politico elementi di fondamentalismo cristiano ai quali eravamo felicemente disabituati - Giovanni Paolo II non cerca una neutralità, ma insorge per sottrarre la fede a una logica di cui il papato conosce i meccanismi. Roma sa che la crociata esiste non quando viene proclamata, ma quando viene percepita come tale da chi la fa e da chi la subisce. A tanto impegno del magistero ha risposto un ossequio formale ampio e sterile. Perché la voce papale cade nel deserto della cultura religiosa, fra i luoghi comuni e le miopie geopolitiche, fra superficialità politiche e intellettualistiche banalità - causa e frutto del clima della guerra, appunto. Eppure il rigore del linguaggio, la precisione delle immagini, la ponderazione dei precedenti sarebbero quanto mai necessari, per salvare Dio dall’arruolamento obbligatorio, gli uomini dalla perdita del senso critico e il mondo dall’eclissi della pietas. Chi voglia dedicarsi a tale profilassi dell’anima e dell’intelligenza può leggere un bel libro di Jean Flori, La guerra santa. La formazione dell’idea di crociata nell’Occidente cristiano , in uscita proprio oggi, venerdì santo, per i tipi de Il Mulino. Quest'opera di storia medievale va ad arricchire uno scaffale prezioso - quello in cui sono entrati libri come Il dio degli eserciti di Peter Partner, La controversia su Abramo di Karl-Joseph Kuschel, Il mediterraneo di Andrea Riccardi, o I nemici della cristianità di Giuseppe Ruggieri: lavori che non forniscono scontate sovrapposizioni col presente, ma utili elementi per capire come coabitazione e conflitto nascano da processi lunghi, mai ineluttabili, dove tutto conta. La guerra santa di Flori vuole raccontare qualcosa di preciso ed antico: cioè come si arriva all'appello di Urbano II del 27 novembre 1095, da cui nasce la prima crociata, madre di tutte le crociate. Con quell’appello - al quale, secondo le cronache, la folla rispose entusiasta «Dio lo vuole!» - il pontefice mobilitava la fides dei suoi ascoltatori: dunque la loro fede e la loro fedeltà al vincolo sociale. Flori smonta con finezza le letture unilaterali della crociata immaginata e combattuta. Egli riconosce il peso del pellegrinaggio, ma chiarisce che la crociata non si riduce ad un pellegrinaggio armato; documenta la sacralizzazione della guerra, ma mostra come questo processo si esasperi quando la meta diventa Gerusalemme; spiega il rapporto fra la crociata e la concezione del papato del secolo XI, ma mostra anche i molteplici aggiustamenti che hanno trasformato la fede degli inermi martiri cristiani nell’entusiasmo bellicoso dei predicatori medievali. E alla fine di una lunga analisi, nell’ultima pagina del volume, Flori offre la sua definizione della crociata: la crociata è «una guerra santa che ha come obiettivo la liberazione di Gerusalemme». Tesi sobria, ma carica di molte implicazioni: e ne sottolineo tre. La prima riguarda l’origine della guerra santa cristiana. Quando sant’Agostino riprende dall’etica ciceroniana il tema della guerra giusta, non vuole aggirare il comando evangelico sulla spada, ma negare che nel tempo della Chiesa ci possano essere guerre sante simili a quelle dell'antico testamento. Eppure è proprio dalla guerra giusta che passa la sacralizzazione della guerra contro l’eretico o il nemico della Chiesa e poi contro l’ebreo: sia attraverso la teorizzazione delle tregue di Dio (la breve pace imposta nei giorni di festa), sia attraverso l’invocazione santi protettori (invocati come vendicatori violenti), si arriva ad una guerra che porta dentro di sé la sua ragion d'essere. In secondo luogo Flori documenta il ruolo di Gerusalemme. Il mito di Gerusalemme affila il carattere di «rivincita» già utilizzato sul quadrante francese e iberico fin dal VIII secolo e diventa qualificante per l’idea della crociata. A Gerusalemme si va per combattere un avversario demonizzato dalla propaganda: il nemico del crociato è l’oggetto di una caricatura negativa, un mostro dissoluto e sanguinario, la cui presenza è per sé stessa blasfema agli occhi del pio e spietato penitente armato. A questo penitente da guerra la Chiesa promette il paradiso, ma anche l’esenzione dal dovere di espiare per aver combattuto. Già all’alba dell’impero cristiano i sacerdoti che come milites Christi non potevano spargere sangue, si servivano dei laici milites saeculi per difendere se stessi e la Chiesa: ai laici rimaneva l’obbligo di far penitenza per aver combattuto una guerra che pur essendo «legale», non diventava «incolpevole». La guerra santa condona l’espiazione e dà un premio riservato a chi si batte per Gerusalemme, perché nella crociata legalità e moralità sono perfettamente sovrapponibili. L’appello di Urbano II del 1095 è dunque preceduto da una lunga accumulazione di idee e linguaggi che non costruiscono la «causa» della crociata: sono i tasselli di una guerra santa che proprio in quel retroterra trova riferimenti dai quali discenderanno le violenze contro gli eretici e contro gli ebrei che con le crociate conoscono una svolta. Flori cataloga i suoi tasselli con cura esemplare: distingue le piccole differenze d’accento, marca la lentezza dei processi, segnala i generi delle sue fonti. E in questo dà una lezione sulla crociata, che - proprio perché non vuole esse immediatamente fruibile - è utile all’oggi. Flori dimostra che senza rigore non c’è conoscenza, ma la banalità della propaganda e la tribunalizzazione della storia: un «pensare impoverito» che perfora le fragili corazze intellettuali e assegna alla vittoria il compito di dare torti, ragioni e oblio. Senza rigore si finisce così per perdersi davanti alla retorica dell'assoluto, alla tirannia dei valori che non si possono non accettare come tali, perché «Dio lo vuole». Il libro di Jean Flori, «La guerra santa. La formazione dell’idea di crociata nell’Occidente cristiano» (editore Il Mulino, pagine 441, 26) è in libreria da oggi