Corriere della Sera, 25/06/2005, SERGIO LUZZATTO
Roghi di carte nella Roma senza Papa
Un saggio di Marina Caffiero sull’effimera Repubblica creata con l’arrivo in riva al Tevere delle truppe rivoluzionarie francesi
«Là dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche esseri umani»: risalenti al 1820, queste parole di un grande poeta tedesco - Heinrich Heine - sono suonate fin troppo profetiche nella Germania del Novecento, dove i nazisti effettivamente incominciarono mandando al rogo i libri degli autori «antitedeschi» (meglio se ebrei), salvo continuare con le persone in carne e ossa. Oggi, la frase di Heine è scolpita accanto al monumento che nella Bebelplatz di Berlino commemora i falò cartacei del maggio 1933: una stanza sotterranea lungo le cui pareti corrono scaffali vuoti. Ma nel 1820 l’ebreo Heine non scriveva tanto, o non soltanto, per paventare un futuro. Scriveva anche, o soprattutto, per denunciare un passato: un passato di intolleranza - quello delle guerre di religione - che ai roghi della carta aveva associato i roghi della carne. In particolare Heine pensava ai secoli bui dell’Inquisizione, quando le fiamme degli autodafé avevano avvolto, con i corpi degli eretici, le pagine dei libri: comprese le pagine del libro per eccellenza, la Bibbia, che i pontefici di Santa Romana Chiesa avevano ordinato di bruciare nelle sue traduzioni in volgare, affinché il popolo dei fedeli non corresse il rischio di leggerla. Il nesso storico fra rogo dei corpi e rogo dei libri va tenuto a mente, se si vuole comprendere tutta l’importanza di uno studio pubblicato da Marina Caffiero presso l’editore Donzelli, che s’intitola La Repubblica nella città del Papa e che ricostruisce la vicenda politico-culturale della Repubblica romana del 1798. La scena madre del volume consiste infatti in un rogo di carte destinato a vendicare i roghi dei corpi. Siamo nel giorno che il calendario rivoluzionario qualifica come il 29 messidoro dell’anno VI (17 luglio 1798). Il luogo è piazza di Spagna, ribattezzata Piazza della Libertà. E i patrioti capitolini i quali - con l’aiuto decisivo dell’esercito francese - sono riusciti a cacciare Pio VI da Roma e a fondarvi una Repubblica, pensano bene di festeggiare l’evento bruciando sopra un altare laico i registri dei processi istruiti nei secoli dal tribunale del Sant’Uffizio. Non era questo - si badi - un gesto spontaneo, incolto, arcaico, come lo erano stati quelli dei contadini che tanto spesso, ai quattro angoli d’Europa, avevano coronato effimere ribellioni antifeudali incendiando le carte dell’una o dell’altra residenza nobiliare. Al contrario, era un gesto organizzato, consapevole, strategico. «Spesso i più grandi cangiamenti dipendono da piccoli oggetti»: almeno quanto i nazisti berlinesi del 1933, i giacobini romani del 1798 sapevano quello che facevano, sentivano che la politica moderna si gioca anzitutto intorno al destino dei simboli. Tanto è vero che già qualche mese prima, il 1° germinale (21 marzo), i membri del tribunato repubblicano si erano sentiti proporre, per bocca di un certo Giuseppe Taurelli, la «distruzione di ogni avanzo dell’infame Tribunale del Sant’Uffizio»: cioè l’annientamento non dei soli incartamenti processuali, ma dell’intero edificio che simboleggiava il dispotismo papista. Radere al suolo il palazzo del Sant’Uffizio, cancellarlo dal paesaggio di una Roma senza Papa allo stesso modo in cui i rivoluzionari francesi del 1789 avevano abbattuto la Bastiglia prima ancora di liberarsi del proprio sovrano: tale era il sogno dei più radicali fra i dirigenti politici della Repubblica romana, convinti - come tutti i rivoluzionari degni di questo nome - che ogni libero futuro abbisogna di una tabula rasa del passato. Da qui l’accanimento con cui i legislatori repubblicani votarono per cancellare dallo spazio capitolino anche i simboli religiosi di morte e di lutto, che pure facevano il vanto delle dimore patrizie: scheletri, teschi, ossa, catene, altrettanti «contrassegni di tristezza superstiziosa» e di «mal’intesa religione» (per fortuna dei nobili romani e dei posteri, tale vandalico programma restò lettera morta). D’altra parte, nella Roma finalmente senza Papa, oltreché distruggere occorreva costruire. Secondo i giacobini di casa nostra, le istituzioni repubblicane avrebbero potuto radicarsi nelle coscienze soltanto se le millenarie liturgie petrine fossero state rimpiazzate da altre cerimonie, altri articoli di fede, altri sacramenti; la rivoluzione antipapista avrebbe trionfato unicamente se capace di proporsi come religione civile. Così, La Repubblica nella città del Papa racconta anche la storia degli sforzi compiuti da una varietà di personaggi più o meno pittoreschi - preti spretati, esperti di antiquaria, misteriose profetesse - per fondare nei costumi una simbologia laica: alberi della libertà, berretti frigi, fasci littori. E dice delle loro difficoltà, perché le liturgie non si improvvisano, né il potere delle immagini si realizza da un giorno all’altro. Nel 1798, quando pure cominciavano solennemente davanti al palazzo del Campidoglio, le cerimonie repubblicane immancabilmente si concludevano davanti alla basilica di San Pietro... Oltre due secoli dopo la breve parentesi della Repubblica romana, un cardinale tedesco - Joseph Ratzinger - è uscito da quello stesso palazzo del Sant’Uffizio che i giacobini nostrani avevano sognato di abbattere, ha traversato il colonnato del Bernini, ha preso dimora come Papa con il nome di Benedetto XVI. La città di Roma non si trova più sotto la sua diretta autorità, ma l’autorevolezza del pontefice non risulta necessariamente diminuita rispetto ai tempi difficili di Pio VI. E i repubblicani d’Italia continuano a cercare la via di una cultura politica che riesca a essere laica e sovrana senza avere bisogno di roghi. Il saggio di Marina Caffiero, «La Repubblica nella città del Papa. Roma 1798», (pp. 184, 23,90) è edito da Donzelli
Roghi di carte nella Roma senza Papa
Un saggio di Marina Caffiero sull’effimera Repubblica creata con l’arrivo in riva al Tevere delle truppe rivoluzionarie francesi
«Là dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche esseri umani»: risalenti al 1820, queste parole di un grande poeta tedesco - Heinrich Heine - sono suonate fin troppo profetiche nella Germania del Novecento, dove i nazisti effettivamente incominciarono mandando al rogo i libri degli autori «antitedeschi» (meglio se ebrei), salvo continuare con le persone in carne e ossa. Oggi, la frase di Heine è scolpita accanto al monumento che nella Bebelplatz di Berlino commemora i falò cartacei del maggio 1933: una stanza sotterranea lungo le cui pareti corrono scaffali vuoti. Ma nel 1820 l’ebreo Heine non scriveva tanto, o non soltanto, per paventare un futuro. Scriveva anche, o soprattutto, per denunciare un passato: un passato di intolleranza - quello delle guerre di religione - che ai roghi della carta aveva associato i roghi della carne. In particolare Heine pensava ai secoli bui dell’Inquisizione, quando le fiamme degli autodafé avevano avvolto, con i corpi degli eretici, le pagine dei libri: comprese le pagine del libro per eccellenza, la Bibbia, che i pontefici di Santa Romana Chiesa avevano ordinato di bruciare nelle sue traduzioni in volgare, affinché il popolo dei fedeli non corresse il rischio di leggerla. Il nesso storico fra rogo dei corpi e rogo dei libri va tenuto a mente, se si vuole comprendere tutta l’importanza di uno studio pubblicato da Marina Caffiero presso l’editore Donzelli, che s’intitola La Repubblica nella città del Papa e che ricostruisce la vicenda politico-culturale della Repubblica romana del 1798. La scena madre del volume consiste infatti in un rogo di carte destinato a vendicare i roghi dei corpi. Siamo nel giorno che il calendario rivoluzionario qualifica come il 29 messidoro dell’anno VI (17 luglio 1798). Il luogo è piazza di Spagna, ribattezzata Piazza della Libertà. E i patrioti capitolini i quali - con l’aiuto decisivo dell’esercito francese - sono riusciti a cacciare Pio VI da Roma e a fondarvi una Repubblica, pensano bene di festeggiare l’evento bruciando sopra un altare laico i registri dei processi istruiti nei secoli dal tribunale del Sant’Uffizio. Non era questo - si badi - un gesto spontaneo, incolto, arcaico, come lo erano stati quelli dei contadini che tanto spesso, ai quattro angoli d’Europa, avevano coronato effimere ribellioni antifeudali incendiando le carte dell’una o dell’altra residenza nobiliare. Al contrario, era un gesto organizzato, consapevole, strategico. «Spesso i più grandi cangiamenti dipendono da piccoli oggetti»: almeno quanto i nazisti berlinesi del 1933, i giacobini romani del 1798 sapevano quello che facevano, sentivano che la politica moderna si gioca anzitutto intorno al destino dei simboli. Tanto è vero che già qualche mese prima, il 1° germinale (21 marzo), i membri del tribunato repubblicano si erano sentiti proporre, per bocca di un certo Giuseppe Taurelli, la «distruzione di ogni avanzo dell’infame Tribunale del Sant’Uffizio»: cioè l’annientamento non dei soli incartamenti processuali, ma dell’intero edificio che simboleggiava il dispotismo papista. Radere al suolo il palazzo del Sant’Uffizio, cancellarlo dal paesaggio di una Roma senza Papa allo stesso modo in cui i rivoluzionari francesi del 1789 avevano abbattuto la Bastiglia prima ancora di liberarsi del proprio sovrano: tale era il sogno dei più radicali fra i dirigenti politici della Repubblica romana, convinti - come tutti i rivoluzionari degni di questo nome - che ogni libero futuro abbisogna di una tabula rasa del passato. Da qui l’accanimento con cui i legislatori repubblicani votarono per cancellare dallo spazio capitolino anche i simboli religiosi di morte e di lutto, che pure facevano il vanto delle dimore patrizie: scheletri, teschi, ossa, catene, altrettanti «contrassegni di tristezza superstiziosa» e di «mal’intesa religione» (per fortuna dei nobili romani e dei posteri, tale vandalico programma restò lettera morta). D’altra parte, nella Roma finalmente senza Papa, oltreché distruggere occorreva costruire. Secondo i giacobini di casa nostra, le istituzioni repubblicane avrebbero potuto radicarsi nelle coscienze soltanto se le millenarie liturgie petrine fossero state rimpiazzate da altre cerimonie, altri articoli di fede, altri sacramenti; la rivoluzione antipapista avrebbe trionfato unicamente se capace di proporsi come religione civile. Così, La Repubblica nella città del Papa racconta anche la storia degli sforzi compiuti da una varietà di personaggi più o meno pittoreschi - preti spretati, esperti di antiquaria, misteriose profetesse - per fondare nei costumi una simbologia laica: alberi della libertà, berretti frigi, fasci littori. E dice delle loro difficoltà, perché le liturgie non si improvvisano, né il potere delle immagini si realizza da un giorno all’altro. Nel 1798, quando pure cominciavano solennemente davanti al palazzo del Campidoglio, le cerimonie repubblicane immancabilmente si concludevano davanti alla basilica di San Pietro... Oltre due secoli dopo la breve parentesi della Repubblica romana, un cardinale tedesco - Joseph Ratzinger - è uscito da quello stesso palazzo del Sant’Uffizio che i giacobini nostrani avevano sognato di abbattere, ha traversato il colonnato del Bernini, ha preso dimora come Papa con il nome di Benedetto XVI. La città di Roma non si trova più sotto la sua diretta autorità, ma l’autorevolezza del pontefice non risulta necessariamente diminuita rispetto ai tempi difficili di Pio VI. E i repubblicani d’Italia continuano a cercare la via di una cultura politica che riesca a essere laica e sovrana senza avere bisogno di roghi. Il saggio di Marina Caffiero, «La Repubblica nella città del Papa. Roma 1798», (pp. 184, 23,90) è edito da Donzelli