Corriere della Sera, 08/02/2003
Sudafrica, pagina nera dell’impero inglese
Un saggio a più mani porta alla luce una realtà poco conosciuta. Migliaia di donne e bambini fra le vittime del conflitto cominciato nel 1899 Nella guerra contro i boeri furono organizzati lager per piegare la resistenza della popolazione
«In una tenda c’era una donna, Mrs. Akkerman, accanto al figlio di 8 anni steso su un mucchio di immondizia. Lo aveva portato lì perché in quella tenda c’era luce e voleva vederlo morire. "E’ l’ultimo dei miei 7 figli che ho portato nel campo. Sono passati nove giorni dalla morte dei primo. Cinque stanno aspettando la loro sepoltura"». Johanna Rousseau non avrebbe dimenticato mai i giorni della prigionia nel lager di Kroonstad, allestito dagli inglesi a sud di Pretoria. Come non sarebbero mai riuscite a dimenticare tutte le donne di origine olandese rastrellate e rinchiuse con i figlioletti nei 58 campi di concentramento destinati a spezzare l’anima della resistenza boera contro l’occupazione. Una mattanza. «Circa 30.000 fattorie furono distrutte, almeno 120.000 persone, in grandissima maggioranza donne e bambini, quasi il 50 per cento della popolazione boera, venne internato nei campi di concentramento dove oltre 22.000 bambini, 4.000 donne adulte e 1.676 uomini persero la vita», scrive Bruna Bianchi. «E questi dati devono essere considerati sottostimati poiché la registrazione dei decessi iniziò solo qualche tempo dopo l’internamento. Le morti infantili, che spazzarono via almeno un’intera generazione, furono ben superiori a quelle dei combattenti dì entrambe le parti». La guerra finì il 31 maggio 1902, i territori boeri passarono sotto la sovranità di Edoardo VII, figlio della Regina Vittoria, ma sarebbe passato un altro interminabile anno prima che i campi fossero chiusi nel 1903. Cento anni dopo, una delle pagine più nere della storia inglese, destinata a pesare a lungo sulla coscienza collettiva britannica e a essere utilizzata da Adolf Hitler nel ’41 per rigettare sul Regno Unito le accuse di genocidio, viene riletta in Deportazione e memorie femminili, 1899-1953 (Unicopli, pagine 364, euro 19). Un libro duro, asciutto, sconvolgente. Dove la Bianchi, docente all’Università di Venezia e autrice di numerosi saggi con un occhio particolare alle grandi vicende storiche viste dalla parte delle donne e dei bambini, ricostruisce, con la collaborazione di Adriana Lotto, Marta Craveri, Emilia Magnanini e Maico Trinca, la storia dei campi di concentramento che hanno segnato il Novecento. Quelli più spaventosamente noti, cioè i lager nazisti teatro dell’Olocausto (è il capitolo da cui erano tratte le raggelanti testimonianze su Ravensbrück pubblicate dal Corriere per il Giorno della Memoria) e quelli sovietici a lungo negati o rimossi dalla sinistra finché la cortina fumogena non fu spazzata via da libri come Arcipelago gulag di Alexander Solzenycin. E quelli meno studiati, quali i campi di prigionia costruiti dai fascisti per gli sloveni durante l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943. O ancora, appunto, quelli su citati in Sudafrica che fecero vergognare intellettuali onesti come William Stead, direttore della Review of reviews : «Abbiamo fatto deliberatamente ricorso a metodi di guerra che sono stati definiti inammissibili con l’universale consenso delle nazioni civili». Tutto cominciò quando gli inglesi, che a cavallo tra il 1899 e il 1900 avevano invaso la Repubblica Sudafricana e lo Stato Libero d’Orange, dicendo di voler nobilmente tutelare dalla schiavitù la comunità di colore, ma puntando in realtà a impossessarsi degli immensi giacimenti diamantiferi scoperti nei territori da tempo contesi tra britannici e afrikaner (i primitivi coloni di lingua olandese), si accorsero che la guerra non sarebbe stata affatto come previsto breve e vittoriosa. Ma avrebbe anzi minacciato di andare per le lunghe, a causa della guerriglia scatenata dai boeri (al fianco dei quali combatteva anche la Legione Italiana del piemontese Camillo Ricchiardi) con pesantissime perdite militari. Fu allora che Lord Frederick Sleigh Roberts, che si era fatto il pelo sullo stomaco nelle sanguinose campagne in India e in Afghanistan, decise di tagliar corto: «A meno di non infliggere sofferenze ai civili come ritorsione per le azioni degli uomini in armi contro di noi, la guerra non finirà mai». Fu un uomo, il maledetto, di parola: donne e figlioletti arrestati in massa, negozi e mulini chiusi, fattorie e campi dati alle fiamme, stragi di animali domestici, stupri sistematici di madri, ragazze e bambine. «Mai prima d’ora l’intera popolazione femminile di una nazione è stata sradicata e posta in tali condizioni di vita», scrisse Emily Hobhouse, una filantropa britannica che, rischiando di persona (fu anche arrestata), volle vedere coi suoi occhi i lager e li denunciò a un’opinione pubblica inglese così indifferente e ostile ai sensi di colpa da condannare al disastro finanziario i pochi giornali che osavano mettere in dubbio la liceità di quella guerra sporca. Certo, nei lager per i boeri e in quelli per le popolazioni nere loro alleate (dove morirono, secondo le autorità, 14.154 persone, secondo altre stime 40.000) non c'erano forni crematori. Ma certi campi, per le terribili condizioni di vita, fecero registrate un tasso di mortalità addirittura superiore a quello dei campi di sterminio nazisti. «Le persone muoiono come mosche, per la fame, l’esposizione alle intemperie, le malattie», scriveva la Hobhouse, «È impossibile immaginare le condizioni e le sofferenze delle donne e dei bambini. Il tifo infuria ovunque». «Il diario che Johanna Van Warmelo tenne dal 18 maggio all’11 luglio 1901», documenta Bruna Bianchi, «è una registrazione quotidiana di morti infantili: dall’11 maggio al 6 giugno morirono 43 bambini; dal 7 giugno all’11 luglio, 161. Nel complesso, nel campo di Irene persero la vita 988 bambini, pari all’80 per cento dei decessi. Nei campi di Barbeton e di Nylstroom, da maggio a novembre 1901, morirono rispettivamente il 40 per cento e il 76 per cento dei bambini internati. Willemina Joubert rivisse per tutta la vita l’incubo del momento in cui la portarono a vedere il suo piccolo morto: «C’erano 7 corpi e tutte le madri erano là. I pianti e i lamenti sono indimenticabili. Anche il corpo di mio figlio fu portato là, ma quando lo vidi fui sconvolta. È stato uno spettacolo terribile; lo avevo avvolto in un bianco lenzuolo e ora il corpo era coperto di fango, anche il suo caro volto era coperto di terra. Cosa gli era successo quella notte non so; ma rimasi là senza riuscire a parlare e pensavo: forse il Signore ha dimenticato la sua serva dal momento che il mio cuore è così straziato?». C’erano sul posto, come inviati di guerra, due personaggi destinati a diventare mitici: Edgar Wallace e Arthur Conan Doyle. Ma fecero davvero una pessima figura. Il futuro giallista arrivò a scrivere sul Daily Mail , sotto il titolo «Donna, il nemico», che «le donne che come spie prendono parte attive alla guerra forse tradiscono la propria natura femminile, ma poiché lo fanno, non possono aspettarsi dagli uomini alcun comportamento "cavalleresco"». Il leggendario inventore di Sherlock Holmes andò ancora più in là. E attribuì l’ecatombe di bimbi «all’ignoranza, all’ostinazione e alle sudicie abitudini dei genitori». Una tesi oscena in linea con quella di troppi connazionali. I quali talvolta si avventurarono sull’abisso come l’autore dell’invettiva pubblicata dall’ Indian Planters’ Gazette : «I boeri non solo andrebbero uccisi, ma bisognerebbe ucciderli con la stessa spietatezza con cui essi ammazzano un topo infetto. (...) Qui dovrà scorrere del sangue, e in abbondanza, e quanto più, tanto meglio. La resistenza boera favorirà questo piano e noi potremo trovare la scusa che l’Inghilterra imperiale ne è terribilmente minacciata: la scusa, cioè, per eliminare i boeri come popolo, trasformare la loro terra in un enorme macello e cancellare il loro nome dal novero dei paesi sudafricani». Certo quei «civilissimi inglesi» ci andarono vicini. Basti leggere la testimonianza di Alida Badenhorst: «La malattia al campo faceva sempre più vittime; ogni giorno c’erano sepolture. C’era una tenda larga e lì venivano messi i corpi. Una mattina i maiali cominciarono a divorare».
Sudafrica, pagina nera dell’impero inglese
Un saggio a più mani porta alla luce una realtà poco conosciuta. Migliaia di donne e bambini fra le vittime del conflitto cominciato nel 1899 Nella guerra contro i boeri furono organizzati lager per piegare la resistenza della popolazione
«In una tenda c’era una donna, Mrs. Akkerman, accanto al figlio di 8 anni steso su un mucchio di immondizia. Lo aveva portato lì perché in quella tenda c’era luce e voleva vederlo morire. "E’ l’ultimo dei miei 7 figli che ho portato nel campo. Sono passati nove giorni dalla morte dei primo. Cinque stanno aspettando la loro sepoltura"». Johanna Rousseau non avrebbe dimenticato mai i giorni della prigionia nel lager di Kroonstad, allestito dagli inglesi a sud di Pretoria. Come non sarebbero mai riuscite a dimenticare tutte le donne di origine olandese rastrellate e rinchiuse con i figlioletti nei 58 campi di concentramento destinati a spezzare l’anima della resistenza boera contro l’occupazione. Una mattanza. «Circa 30.000 fattorie furono distrutte, almeno 120.000 persone, in grandissima maggioranza donne e bambini, quasi il 50 per cento della popolazione boera, venne internato nei campi di concentramento dove oltre 22.000 bambini, 4.000 donne adulte e 1.676 uomini persero la vita», scrive Bruna Bianchi. «E questi dati devono essere considerati sottostimati poiché la registrazione dei decessi iniziò solo qualche tempo dopo l’internamento. Le morti infantili, che spazzarono via almeno un’intera generazione, furono ben superiori a quelle dei combattenti dì entrambe le parti». La guerra finì il 31 maggio 1902, i territori boeri passarono sotto la sovranità di Edoardo VII, figlio della Regina Vittoria, ma sarebbe passato un altro interminabile anno prima che i campi fossero chiusi nel 1903. Cento anni dopo, una delle pagine più nere della storia inglese, destinata a pesare a lungo sulla coscienza collettiva britannica e a essere utilizzata da Adolf Hitler nel ’41 per rigettare sul Regno Unito le accuse di genocidio, viene riletta in Deportazione e memorie femminili, 1899-1953 (Unicopli, pagine 364, euro 19). Un libro duro, asciutto, sconvolgente. Dove la Bianchi, docente all’Università di Venezia e autrice di numerosi saggi con un occhio particolare alle grandi vicende storiche viste dalla parte delle donne e dei bambini, ricostruisce, con la collaborazione di Adriana Lotto, Marta Craveri, Emilia Magnanini e Maico Trinca, la storia dei campi di concentramento che hanno segnato il Novecento. Quelli più spaventosamente noti, cioè i lager nazisti teatro dell’Olocausto (è il capitolo da cui erano tratte le raggelanti testimonianze su Ravensbrück pubblicate dal Corriere per il Giorno della Memoria) e quelli sovietici a lungo negati o rimossi dalla sinistra finché la cortina fumogena non fu spazzata via da libri come Arcipelago gulag di Alexander Solzenycin. E quelli meno studiati, quali i campi di prigionia costruiti dai fascisti per gli sloveni durante l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943. O ancora, appunto, quelli su citati in Sudafrica che fecero vergognare intellettuali onesti come William Stead, direttore della Review of reviews : «Abbiamo fatto deliberatamente ricorso a metodi di guerra che sono stati definiti inammissibili con l’universale consenso delle nazioni civili». Tutto cominciò quando gli inglesi, che a cavallo tra il 1899 e il 1900 avevano invaso la Repubblica Sudafricana e lo Stato Libero d’Orange, dicendo di voler nobilmente tutelare dalla schiavitù la comunità di colore, ma puntando in realtà a impossessarsi degli immensi giacimenti diamantiferi scoperti nei territori da tempo contesi tra britannici e afrikaner (i primitivi coloni di lingua olandese), si accorsero che la guerra non sarebbe stata affatto come previsto breve e vittoriosa. Ma avrebbe anzi minacciato di andare per le lunghe, a causa della guerriglia scatenata dai boeri (al fianco dei quali combatteva anche la Legione Italiana del piemontese Camillo Ricchiardi) con pesantissime perdite militari. Fu allora che Lord Frederick Sleigh Roberts, che si era fatto il pelo sullo stomaco nelle sanguinose campagne in India e in Afghanistan, decise di tagliar corto: «A meno di non infliggere sofferenze ai civili come ritorsione per le azioni degli uomini in armi contro di noi, la guerra non finirà mai». Fu un uomo, il maledetto, di parola: donne e figlioletti arrestati in massa, negozi e mulini chiusi, fattorie e campi dati alle fiamme, stragi di animali domestici, stupri sistematici di madri, ragazze e bambine. «Mai prima d’ora l’intera popolazione femminile di una nazione è stata sradicata e posta in tali condizioni di vita», scrisse Emily Hobhouse, una filantropa britannica che, rischiando di persona (fu anche arrestata), volle vedere coi suoi occhi i lager e li denunciò a un’opinione pubblica inglese così indifferente e ostile ai sensi di colpa da condannare al disastro finanziario i pochi giornali che osavano mettere in dubbio la liceità di quella guerra sporca. Certo, nei lager per i boeri e in quelli per le popolazioni nere loro alleate (dove morirono, secondo le autorità, 14.154 persone, secondo altre stime 40.000) non c'erano forni crematori. Ma certi campi, per le terribili condizioni di vita, fecero registrate un tasso di mortalità addirittura superiore a quello dei campi di sterminio nazisti. «Le persone muoiono come mosche, per la fame, l’esposizione alle intemperie, le malattie», scriveva la Hobhouse, «È impossibile immaginare le condizioni e le sofferenze delle donne e dei bambini. Il tifo infuria ovunque». «Il diario che Johanna Van Warmelo tenne dal 18 maggio all’11 luglio 1901», documenta Bruna Bianchi, «è una registrazione quotidiana di morti infantili: dall’11 maggio al 6 giugno morirono 43 bambini; dal 7 giugno all’11 luglio, 161. Nel complesso, nel campo di Irene persero la vita 988 bambini, pari all’80 per cento dei decessi. Nei campi di Barbeton e di Nylstroom, da maggio a novembre 1901, morirono rispettivamente il 40 per cento e il 76 per cento dei bambini internati. Willemina Joubert rivisse per tutta la vita l’incubo del momento in cui la portarono a vedere il suo piccolo morto: «C’erano 7 corpi e tutte le madri erano là. I pianti e i lamenti sono indimenticabili. Anche il corpo di mio figlio fu portato là, ma quando lo vidi fui sconvolta. È stato uno spettacolo terribile; lo avevo avvolto in un bianco lenzuolo e ora il corpo era coperto di fango, anche il suo caro volto era coperto di terra. Cosa gli era successo quella notte non so; ma rimasi là senza riuscire a parlare e pensavo: forse il Signore ha dimenticato la sua serva dal momento che il mio cuore è così straziato?». C’erano sul posto, come inviati di guerra, due personaggi destinati a diventare mitici: Edgar Wallace e Arthur Conan Doyle. Ma fecero davvero una pessima figura. Il futuro giallista arrivò a scrivere sul Daily Mail , sotto il titolo «Donna, il nemico», che «le donne che come spie prendono parte attive alla guerra forse tradiscono la propria natura femminile, ma poiché lo fanno, non possono aspettarsi dagli uomini alcun comportamento "cavalleresco"». Il leggendario inventore di Sherlock Holmes andò ancora più in là. E attribuì l’ecatombe di bimbi «all’ignoranza, all’ostinazione e alle sudicie abitudini dei genitori». Una tesi oscena in linea con quella di troppi connazionali. I quali talvolta si avventurarono sull’abisso come l’autore dell’invettiva pubblicata dall’ Indian Planters’ Gazette : «I boeri non solo andrebbero uccisi, ma bisognerebbe ucciderli con la stessa spietatezza con cui essi ammazzano un topo infetto. (...) Qui dovrà scorrere del sangue, e in abbondanza, e quanto più, tanto meglio. La resistenza boera favorirà questo piano e noi potremo trovare la scusa che l’Inghilterra imperiale ne è terribilmente minacciata: la scusa, cioè, per eliminare i boeri come popolo, trasformare la loro terra in un enorme macello e cancellare il loro nome dal novero dei paesi sudafricani». Certo quei «civilissimi inglesi» ci andarono vicini. Basti leggere la testimonianza di Alida Badenhorst: «La malattia al campo faceva sempre più vittime; ogni giorno c’erano sepolture. C’era una tenda larga e lì venivano messi i corpi. Una mattina i maiali cominciarono a divorare».