La Repubblica 19.3.08
Heidegger. L’ossessione dell´Inizio. Escono i "contributi alla filosofia"
di Antonio Gnoli
Era una sorta di sfida notturna che il pensatore sull´orlo del suicidio lanciava a se stesso e alle proprie frustrazioni: tutto poteva ricominciare
Si aggrappava a una verbalità fantasiosa con parole inconsuete
In questo periodo tormentato vedeva infiochire la luce di "Essere e Tempo"
Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva crescere solo nelle radici
Erano lontani i tempi in cui sbeffeggiava il kantiano Cassirer
Fu sul finire del 1935 che una nube di disperazione cominciò ad avvolgere la mente di Heidegger. Erano gli anni del delirio quelli che si annunciavano per la Germania, che aveva posato il proprio sguardo aggressivo sull´Europa e sul mondo sognando segrete rivincite. Pochi allora constatavano la presenza di un virus che avrebbe lentamente trascinato una nazione dal trionfo alla catastrofe. E quell´uomo - piccolo, duro, schivo, arrogante che, come dopo una tempesta metafisica , aveva prodotto le pagine scintillanti di Essere e Tempo - avvertiva che qualcosa stava sfuggendo alla presa ferrea del suo pensiero. Era il segnale per una ritirata: una guerra dello spirito si stava concludendo e un´altra più dolorosa sarebbe iniziata.
La baldanza con cui, solo un paio d´anni prima, aveva ordito, il discorso del rettorato, lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alla miseria del proprio tempo. Come un lancinante presentimento, egli avvertiva che la filosofia - che avrebbe dovuto illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze - non possedeva né la forza, né la lingua per assolvere a quei compiti. Si sentiva come un giocatore di poker cui la storia aveva letto il bluff. Esattamente a quel punto della vicenda egli non era un nazista deluso, ma un nazista incompreso. Lo avevano voluto a capo di una prestigiosa università, lo avevano caricato di un compito immane, il rinnovamento spirituale di una nazione, avevano sperato che fosse assimilabile a grandi progetti. E lui, aveva immaginato di poter prendere per mano il nuovo corso della storia, farne l´emblema di una filosofia che, malgrado tutto, aveva intuito - molto prima che l´hitlerismo diventasse il pane quotidiano dei tedeschi - quanto di inevitabilmente oscuro si nasconda nella gettatezza dell´esserci, ossia in quell´uomo radicato alla terra, senza una ragione precisa, né una meta da raggiungere.
Con Essere e Tempo - il capolavoro pubblicato nel 1927 - Heidegger si era inoltrato nella notte novecentesca. Aveva dondolato sugli abissi del pensiero, demolendo i grandi edifici della tradizione. Aveva "tradito" Husserl, aveva combattuto la sua personalissima battaglia contro le grandi macchine del pensiero, confidando nella forza selvaggia del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il mondo, con il vecchio mondo. Perché Heidegger si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si aspettava, quell´uomo, complicato, oscuro e tagliente, improvvisamente smarrì le certezze. La notte di granito nella quale si era avventurato sembrò improvvisamente più cupa, e aspra. Meno ospitale, anche per una natura ferina come la sua. Erano lontani i tempi di quando in tenuta da sciatore sbeffeggiava il kantiano Cassirer, erano lontani gli anni di una giovinezza trascorsa a cercare la radura a colpi d´ascia nei boschi della Foresta Nera.
Poco o nulla si capirebbe dei Beiträge (Contributi alla filosofia, curati splendidamente da Franco Volpi, traduzione di Alessandra Iadecicco e Franco Volpi, edizioni Adelphi, pagg 497, euro 60), pagine tormentatissime che Heidegger scrisse tra il 1936 e 1938, se non si tenesse conto del fallimento che il filosofo si era trovato a vivere. Non gli bastava che un corte variopinta di pensatori avesse visto in Sein und Zeit un´antropologia nuova e a suo modo originale. Lo infastidiva vedere crescere intorno alla sua figura il consenso, l´attesa, la venerazione.
Non si viveva come un santo da amare, un mandarino da ubbidire, un filosofo da capire. Era Heidegger, che con una mazza ferrata aveva demolito tre quarti abbondanti del pensiero che lo avevano preceduto. E ora quella mazza era riversa ai suoi piedi. Che cosa si illudeva di aver ottenuto? Che cosa gli restava da vedere? Tutto intorno c´erano rovine. E per l´ultima volta l´apocalisse del pensiero sembrò una cosa seria. Ma non si andò oltre. Perciò ricominciò con una furia rivolta contro se stesso e non solo verso gli altri. Al di là dei morti e feriti che aveva lasciato sul campo, i Beiträge erano la notturna sfida che Heidegger lanciò a se stesso, alle proprie frustrazioni. Cominciò ad accarezzare l´idea che una altra lingua potesse spezzare la catena dei suoi dubbi. Perciò ricominciò, tutto da capo.
Era ossessionato dall´Inizio. Se c´era un´origine di tutto, come renderne conto. Dopo il fallimento nel quale era incorsa la filosofia, come riuscire a pensare l´Inizio fuori dal perimetro della metafisica? Tutto ciò che Heidegger aveva fin lì pensato, scritto, divulgato, si mostrava inadatto a soddisfare la domanda. D´altro canto, rifondare un sapere, restituendogli quella sovranità che solo l´origine era in grado di legittimare, avrebbe richiesto un taglio netto con tutto quanto in passato si era pensato e prodotto. Quello che fece con barbara eleganza non bastò. Furono terribili quei mesi per Heidegger. Si trovava in un cul de sac, in una trappola che lui stesso aveva costruito. Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva «crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Pensò al suicidio come a una via d´uscita. La depressione incalzava, notturna come i suoi pensieri. La follia, quella stessa che aveva aleggiato sulle teste di Hölderlin, Kierkegaard e Nietzsche, sembrava approssimarsi. Costoro, commentò nei Beiträge, patirono lo sradicamento a cui è sospinta la storia occidentale. La stessa tonalità emotiva gli accadde di rivivere.
Solo pochi anni prima, gli era parso di intravedere la verità: selvaggia, brutale, luminosa. E quelle mani da contadino, forti e tozze, l´avevano raccolta, protetta, scagliata come un´ammonizione contro l´Occidente. Ma nel periodo tormentato dei Beiträge vedeva infiochire la luce scandalosa di Essere e Tempo. Non che quell´opera fosse da ripudiare, ma sempre più, ai suoi occhi, essa somigliava a un addestramento alla guerra, più che alla guerra stessa. Poco o nulla nel suo pensiero appariva disinvolto, leggero, veloce. Ossessiva la mente tornava alla lingua. Dove la vecchia terminologia non serviva più, là occorreva rifondare gli etimi, portare a nuova vita le parole. In quell´abisso di logore parole in cui era sprofondata la filosofia Heidegger si aggrappava a una verbalità fantasiosa. Lanciava espressioni inconsuete come "il salto", "il fendersi", "il gioco di passaggio", "i venturi". Somigliavano a fughe nate da uno spartito oscuro, con le quali distinguersi dai vecchi, ambiziosi e disonesti sistemi filosofici. Dai quali più nulla di decisivo si sarebbe appreso.
Heidegger conservò un singolare e tormentatissimo rapporto con la storia culturale dell´Occidente. Ne percepì con chiarezza le tensioni contraddittorie, scrutò il fondo limaccioso su cui le sue categorie poggiavano. Perfino la ricchezza concettuale, che da Platone e Aristotele in poi si era dispiegata dando vita alla tradizione, gli apparve simile a una costruzione che imprigionava piuttosto che liberare l´uomo. Occorreva un gesto radicale, un pensiero che agisse dall´interno, ma al tempo stesso sopravvivesse all´implosione. Egli lo ricondusse a una parola soprattutto, che pose come sottotitolo ai Beiträge, una parola che in quegli anni cominciò a fargli intravedere una possibile via di uscita: Ereignis, "Evento".
Nella nostra percezione, pensiamo l´evento come ciò che accade, e quell´accadere trattiene qualcosa di eccezionale. Nel linguaggio comune l´evento conserva qualcosa di irripetibile. Una manifestazione sportiva, un grande incontro musicale, il congiungersi di due amanti possono diventare altrettanti eventi. Heidegger dissolse la natura comune dell´evento e riportò la parola all´essenza stessa dell´esserci, alla sua finitezza, tanto più drammatica in quanto testimone della fuga degli dèi. L´Ereignis heideggeriano era ciò che stava nel mezzo tra il Dio che non c´è più e la storia dell´uomo che è finita. È in quello scacco nel quale la natura antropologica è gettata, in cui tutto sembra deciso e finito, che può originarsi l´altro Inizio. In che modo? Con quale possibilità di successo?
Fino ad allora il pensiero dell´Essere era stato un immenso equivoco, ma anche una formidabile macchina tesa ad occultare l´aletheia, la verità. Qualunque istanza denigratoria doveva tener conto della potenza di quel pensiero e del fatto che senza quell´errore prolungato, quel fraintendimento colossale nel quale si era trovata la metafisica non ci sarebbe stato nessun altro inizio. Dopotutto, bisognava essere grati agli acrobati del pensiero, agli antichi eroi della filosofia, ai sistematici tentativi del pensiero moderno, perché dal fallimento, dalla distruzione del loro teatro della rappresentazione, poteva sorgere l´Ereignis non come distanza tra l´esserci e l´Essere ma come coappartenenza dei due momenti.
Non sappiamo fino a che punto il pensiero di Heidegger, ormai avvitato nell´oscurità della parola, fosse consapevole di avanzare verso un nuovo fallimento. Poteva l´Ereignis divenire l´asse portante di un nuovo sapere sovrano? Un sapere che per sua stessa ammissione è privo di utilità e non ha nessun valore. In uno sforzo dagli accenti drammatici aveva scritto: «La nostra ora è l´epoca del tramonto», e questa epoca «è conoscibile solo per coloro che vi appartengono. Tutti gli altri devono temere il tramonto, e dunque negarlo e rinnegarlo. Per costoro, infatti, esso è solo debolezza e una fine». Nel tramonto heideggeriano, così diverso da quello scrutato da Spengler, non c´era rassegnazione, declino, esaurimento, ma lo spazio entro cui l´Ereignis avrebbe dato vita all´altro Inizio.
Consapevole che ciò non bastava, Heidegger immaginò che da quel tramonto sarebbe infine nato l´ultimo Dio. Pensò, con la solita arroganza, che non a tutti si sarebbe offerta la possibilità di raccogliere la prima luce dell´ultimo Dio. Solo ai pochi venturi spettava, tra ritegno e reticenza, il compito di un´intima celebrazione. Il Dio immaginato da Heidegger era radicalmente diverso dagli dèi che erano già stati e dal Dio cristiano. E non era l´ultimo in quanto veniva dopo tutti gli altri. «L´ultimo», scrisse con tono perentorio, «non è una fine, ma il conchiudersi in sé dell´inizio». Ossia, ancora una volta, il discorso finiva sulle spalle dell´Ereignis, dell´Evento sempre più intriso dell´odore della salvezza e del sacro.
Quelle tormentate pagine esoteriche sembravano staccarsi dalla perentorietà che solo pochi anni prima fermentava L´autoaffermazione dell´università tedesca. Quel discorso tagliato da una luce sinistra si concludeva nientemeno che con una frase di Platone: «Tutto ciò che è grande... è nella tempesta». Quella tempesta si era trasformata in tramonto. E il tramonto in un nuovo Inizio. Che posto poteva ancora esserci per l´Heidegger nazista?
Nelle sonorità dei Beiträge troviamo considerazioni acutissime sull´idealismo e la scienza, sul nichilismo e Nietzsche (proprio in quegli anni Heidegger aveva iniziato i seminari che lo avrebbero "distrutto") e aperture ambientaliste anticipatrici che invitano al tenere desta l´attenzione sul destino della natura minacciata di distruzione per effetto della tecnica. Heidegger non ignorava la luce pubblica del discorso politico. Conservò il disprezzo per la parola che diventa chiasso, consegnò le "visioni del mondo" (liberalismo, bolscevismo, marxismo, cristianesimo) alle loro "macchinazioni". Guardò con sospetto al culto della personalità che proprio in quegli anni trionfava in certe parti d´Europa. Ma fino a che punto era convinto che a un popolo, il suo popolo, occorresse una filosofia? Ambiguamente scrisse che «il popolo diventa popolo solo quando giungono i suoi individui più unici e quando costoro incominciano a presagire».
Diversamente dal popolo, la massa novecentesca tendeva agli occhi di Heidegger a mostrarsi sradicata ed egoista. Perciò egli aggiunse: «Il dominio sulle masse deve essere istituito e mantenuto con le catene dell´"organizzazione"». Nessuno slancio profetico, nessuna prospettiva salvifica egli trova nell´artificiosità della vita moderna (negli Stati come nei partiti, nei totalitarismi come nelle democrazie) nella quale tutto e tutti si confondono. E il nazismo? Con ogni evidenza anche una tale esperienza storica finisce con l´essere il prodotto della modernità, dell´effetto della tecnica ormai planetaria. Tutto, proprio tutto, era risucchiato nell´infondato della metafisica. A questa sconfortante considerazione cercò di porre rimedio evocando un diverso inizio del pensiero, un modo assolutamente altro di fare i conti con ciò che fino a quel momento la filosofia aveva lasciato come impensato. Occorreva un diverso addestramento all´interrogazione, al fare domande, occorreva il ritegno del saper rinunciare, come scrisse, alla fama e al successo.
Heidegger - "la volpe" come lo definì Hannah Arendt - nel 1936 cominciò a spogliarsi degli abiti pubblici. Si ritrasse, come in una tana, nella sua oscurità mentale illudendosi di andare così oltre Nietzsche. Andò invece nella direzione di un´aristocratica e impotente visione di qualcosa di talmente grande da risultare ingestibile. I Beiträge che, per disposizioni testamentarie, videro la luce solo nel 1989, furono insieme la grandezza e la miseria di questo risultato.
Heidegger. L’ossessione dell´Inizio. Escono i "contributi alla filosofia"
di Antonio Gnoli
Era una sorta di sfida notturna che il pensatore sull´orlo del suicidio lanciava a se stesso e alle proprie frustrazioni: tutto poteva ricominciare
Si aggrappava a una verbalità fantasiosa con parole inconsuete
In questo periodo tormentato vedeva infiochire la luce di "Essere e Tempo"
Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva crescere solo nelle radici
Erano lontani i tempi in cui sbeffeggiava il kantiano Cassirer
Fu sul finire del 1935 che una nube di disperazione cominciò ad avvolgere la mente di Heidegger. Erano gli anni del delirio quelli che si annunciavano per la Germania, che aveva posato il proprio sguardo aggressivo sull´Europa e sul mondo sognando segrete rivincite. Pochi allora constatavano la presenza di un virus che avrebbe lentamente trascinato una nazione dal trionfo alla catastrofe. E quell´uomo - piccolo, duro, schivo, arrogante che, come dopo una tempesta metafisica , aveva prodotto le pagine scintillanti di Essere e Tempo - avvertiva che qualcosa stava sfuggendo alla presa ferrea del suo pensiero. Era il segnale per una ritirata: una guerra dello spirito si stava concludendo e un´altra più dolorosa sarebbe iniziata.
La baldanza con cui, solo un paio d´anni prima, aveva ordito, il discorso del rettorato, lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alla miseria del proprio tempo. Come un lancinante presentimento, egli avvertiva che la filosofia - che avrebbe dovuto illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze - non possedeva né la forza, né la lingua per assolvere a quei compiti. Si sentiva come un giocatore di poker cui la storia aveva letto il bluff. Esattamente a quel punto della vicenda egli non era un nazista deluso, ma un nazista incompreso. Lo avevano voluto a capo di una prestigiosa università, lo avevano caricato di un compito immane, il rinnovamento spirituale di una nazione, avevano sperato che fosse assimilabile a grandi progetti. E lui, aveva immaginato di poter prendere per mano il nuovo corso della storia, farne l´emblema di una filosofia che, malgrado tutto, aveva intuito - molto prima che l´hitlerismo diventasse il pane quotidiano dei tedeschi - quanto di inevitabilmente oscuro si nasconda nella gettatezza dell´esserci, ossia in quell´uomo radicato alla terra, senza una ragione precisa, né una meta da raggiungere.
Con Essere e Tempo - il capolavoro pubblicato nel 1927 - Heidegger si era inoltrato nella notte novecentesca. Aveva dondolato sugli abissi del pensiero, demolendo i grandi edifici della tradizione. Aveva "tradito" Husserl, aveva combattuto la sua personalissima battaglia contro le grandi macchine del pensiero, confidando nella forza selvaggia del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il mondo, con il vecchio mondo. Perché Heidegger si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si aspettava, quell´uomo, complicato, oscuro e tagliente, improvvisamente smarrì le certezze. La notte di granito nella quale si era avventurato sembrò improvvisamente più cupa, e aspra. Meno ospitale, anche per una natura ferina come la sua. Erano lontani i tempi di quando in tenuta da sciatore sbeffeggiava il kantiano Cassirer, erano lontani gli anni di una giovinezza trascorsa a cercare la radura a colpi d´ascia nei boschi della Foresta Nera.
Poco o nulla si capirebbe dei Beiträge (Contributi alla filosofia, curati splendidamente da Franco Volpi, traduzione di Alessandra Iadecicco e Franco Volpi, edizioni Adelphi, pagg 497, euro 60), pagine tormentatissime che Heidegger scrisse tra il 1936 e 1938, se non si tenesse conto del fallimento che il filosofo si era trovato a vivere. Non gli bastava che un corte variopinta di pensatori avesse visto in Sein und Zeit un´antropologia nuova e a suo modo originale. Lo infastidiva vedere crescere intorno alla sua figura il consenso, l´attesa, la venerazione.
Non si viveva come un santo da amare, un mandarino da ubbidire, un filosofo da capire. Era Heidegger, che con una mazza ferrata aveva demolito tre quarti abbondanti del pensiero che lo avevano preceduto. E ora quella mazza era riversa ai suoi piedi. Che cosa si illudeva di aver ottenuto? Che cosa gli restava da vedere? Tutto intorno c´erano rovine. E per l´ultima volta l´apocalisse del pensiero sembrò una cosa seria. Ma non si andò oltre. Perciò ricominciò con una furia rivolta contro se stesso e non solo verso gli altri. Al di là dei morti e feriti che aveva lasciato sul campo, i Beiträge erano la notturna sfida che Heidegger lanciò a se stesso, alle proprie frustrazioni. Cominciò ad accarezzare l´idea che una altra lingua potesse spezzare la catena dei suoi dubbi. Perciò ricominciò, tutto da capo.
Era ossessionato dall´Inizio. Se c´era un´origine di tutto, come renderne conto. Dopo il fallimento nel quale era incorsa la filosofia, come riuscire a pensare l´Inizio fuori dal perimetro della metafisica? Tutto ciò che Heidegger aveva fin lì pensato, scritto, divulgato, si mostrava inadatto a soddisfare la domanda. D´altro canto, rifondare un sapere, restituendogli quella sovranità che solo l´origine era in grado di legittimare, avrebbe richiesto un taglio netto con tutto quanto in passato si era pensato e prodotto. Quello che fece con barbara eleganza non bastò. Furono terribili quei mesi per Heidegger. Si trovava in un cul de sac, in una trappola che lui stesso aveva costruito. Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva «crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Pensò al suicidio come a una via d´uscita. La depressione incalzava, notturna come i suoi pensieri. La follia, quella stessa che aveva aleggiato sulle teste di Hölderlin, Kierkegaard e Nietzsche, sembrava approssimarsi. Costoro, commentò nei Beiträge, patirono lo sradicamento a cui è sospinta la storia occidentale. La stessa tonalità emotiva gli accadde di rivivere.
Solo pochi anni prima, gli era parso di intravedere la verità: selvaggia, brutale, luminosa. E quelle mani da contadino, forti e tozze, l´avevano raccolta, protetta, scagliata come un´ammonizione contro l´Occidente. Ma nel periodo tormentato dei Beiträge vedeva infiochire la luce scandalosa di Essere e Tempo. Non che quell´opera fosse da ripudiare, ma sempre più, ai suoi occhi, essa somigliava a un addestramento alla guerra, più che alla guerra stessa. Poco o nulla nel suo pensiero appariva disinvolto, leggero, veloce. Ossessiva la mente tornava alla lingua. Dove la vecchia terminologia non serviva più, là occorreva rifondare gli etimi, portare a nuova vita le parole. In quell´abisso di logore parole in cui era sprofondata la filosofia Heidegger si aggrappava a una verbalità fantasiosa. Lanciava espressioni inconsuete come "il salto", "il fendersi", "il gioco di passaggio", "i venturi". Somigliavano a fughe nate da uno spartito oscuro, con le quali distinguersi dai vecchi, ambiziosi e disonesti sistemi filosofici. Dai quali più nulla di decisivo si sarebbe appreso.
Heidegger conservò un singolare e tormentatissimo rapporto con la storia culturale dell´Occidente. Ne percepì con chiarezza le tensioni contraddittorie, scrutò il fondo limaccioso su cui le sue categorie poggiavano. Perfino la ricchezza concettuale, che da Platone e Aristotele in poi si era dispiegata dando vita alla tradizione, gli apparve simile a una costruzione che imprigionava piuttosto che liberare l´uomo. Occorreva un gesto radicale, un pensiero che agisse dall´interno, ma al tempo stesso sopravvivesse all´implosione. Egli lo ricondusse a una parola soprattutto, che pose come sottotitolo ai Beiträge, una parola che in quegli anni cominciò a fargli intravedere una possibile via di uscita: Ereignis, "Evento".
Nella nostra percezione, pensiamo l´evento come ciò che accade, e quell´accadere trattiene qualcosa di eccezionale. Nel linguaggio comune l´evento conserva qualcosa di irripetibile. Una manifestazione sportiva, un grande incontro musicale, il congiungersi di due amanti possono diventare altrettanti eventi. Heidegger dissolse la natura comune dell´evento e riportò la parola all´essenza stessa dell´esserci, alla sua finitezza, tanto più drammatica in quanto testimone della fuga degli dèi. L´Ereignis heideggeriano era ciò che stava nel mezzo tra il Dio che non c´è più e la storia dell´uomo che è finita. È in quello scacco nel quale la natura antropologica è gettata, in cui tutto sembra deciso e finito, che può originarsi l´altro Inizio. In che modo? Con quale possibilità di successo?
Fino ad allora il pensiero dell´Essere era stato un immenso equivoco, ma anche una formidabile macchina tesa ad occultare l´aletheia, la verità. Qualunque istanza denigratoria doveva tener conto della potenza di quel pensiero e del fatto che senza quell´errore prolungato, quel fraintendimento colossale nel quale si era trovata la metafisica non ci sarebbe stato nessun altro inizio. Dopotutto, bisognava essere grati agli acrobati del pensiero, agli antichi eroi della filosofia, ai sistematici tentativi del pensiero moderno, perché dal fallimento, dalla distruzione del loro teatro della rappresentazione, poteva sorgere l´Ereignis non come distanza tra l´esserci e l´Essere ma come coappartenenza dei due momenti.
Non sappiamo fino a che punto il pensiero di Heidegger, ormai avvitato nell´oscurità della parola, fosse consapevole di avanzare verso un nuovo fallimento. Poteva l´Ereignis divenire l´asse portante di un nuovo sapere sovrano? Un sapere che per sua stessa ammissione è privo di utilità e non ha nessun valore. In uno sforzo dagli accenti drammatici aveva scritto: «La nostra ora è l´epoca del tramonto», e questa epoca «è conoscibile solo per coloro che vi appartengono. Tutti gli altri devono temere il tramonto, e dunque negarlo e rinnegarlo. Per costoro, infatti, esso è solo debolezza e una fine». Nel tramonto heideggeriano, così diverso da quello scrutato da Spengler, non c´era rassegnazione, declino, esaurimento, ma lo spazio entro cui l´Ereignis avrebbe dato vita all´altro Inizio.
Consapevole che ciò non bastava, Heidegger immaginò che da quel tramonto sarebbe infine nato l´ultimo Dio. Pensò, con la solita arroganza, che non a tutti si sarebbe offerta la possibilità di raccogliere la prima luce dell´ultimo Dio. Solo ai pochi venturi spettava, tra ritegno e reticenza, il compito di un´intima celebrazione. Il Dio immaginato da Heidegger era radicalmente diverso dagli dèi che erano già stati e dal Dio cristiano. E non era l´ultimo in quanto veniva dopo tutti gli altri. «L´ultimo», scrisse con tono perentorio, «non è una fine, ma il conchiudersi in sé dell´inizio». Ossia, ancora una volta, il discorso finiva sulle spalle dell´Ereignis, dell´Evento sempre più intriso dell´odore della salvezza e del sacro.
Quelle tormentate pagine esoteriche sembravano staccarsi dalla perentorietà che solo pochi anni prima fermentava L´autoaffermazione dell´università tedesca. Quel discorso tagliato da una luce sinistra si concludeva nientemeno che con una frase di Platone: «Tutto ciò che è grande... è nella tempesta». Quella tempesta si era trasformata in tramonto. E il tramonto in un nuovo Inizio. Che posto poteva ancora esserci per l´Heidegger nazista?
Nelle sonorità dei Beiträge troviamo considerazioni acutissime sull´idealismo e la scienza, sul nichilismo e Nietzsche (proprio in quegli anni Heidegger aveva iniziato i seminari che lo avrebbero "distrutto") e aperture ambientaliste anticipatrici che invitano al tenere desta l´attenzione sul destino della natura minacciata di distruzione per effetto della tecnica. Heidegger non ignorava la luce pubblica del discorso politico. Conservò il disprezzo per la parola che diventa chiasso, consegnò le "visioni del mondo" (liberalismo, bolscevismo, marxismo, cristianesimo) alle loro "macchinazioni". Guardò con sospetto al culto della personalità che proprio in quegli anni trionfava in certe parti d´Europa. Ma fino a che punto era convinto che a un popolo, il suo popolo, occorresse una filosofia? Ambiguamente scrisse che «il popolo diventa popolo solo quando giungono i suoi individui più unici e quando costoro incominciano a presagire».
Diversamente dal popolo, la massa novecentesca tendeva agli occhi di Heidegger a mostrarsi sradicata ed egoista. Perciò egli aggiunse: «Il dominio sulle masse deve essere istituito e mantenuto con le catene dell´"organizzazione"». Nessuno slancio profetico, nessuna prospettiva salvifica egli trova nell´artificiosità della vita moderna (negli Stati come nei partiti, nei totalitarismi come nelle democrazie) nella quale tutto e tutti si confondono. E il nazismo? Con ogni evidenza anche una tale esperienza storica finisce con l´essere il prodotto della modernità, dell´effetto della tecnica ormai planetaria. Tutto, proprio tutto, era risucchiato nell´infondato della metafisica. A questa sconfortante considerazione cercò di porre rimedio evocando un diverso inizio del pensiero, un modo assolutamente altro di fare i conti con ciò che fino a quel momento la filosofia aveva lasciato come impensato. Occorreva un diverso addestramento all´interrogazione, al fare domande, occorreva il ritegno del saper rinunciare, come scrisse, alla fama e al successo.
Heidegger - "la volpe" come lo definì Hannah Arendt - nel 1936 cominciò a spogliarsi degli abiti pubblici. Si ritrasse, come in una tana, nella sua oscurità mentale illudendosi di andare così oltre Nietzsche. Andò invece nella direzione di un´aristocratica e impotente visione di qualcosa di talmente grande da risultare ingestibile. I Beiträge che, per disposizioni testamentarie, videro la luce solo nel 1989, furono insieme la grandezza e la miseria di questo risultato.