Francesco Piccioni
I corsari della globalizzazione, Le basi finanziarie del nuovo capitalismo. Un libro sui paradisi fiscali
«Capitalismo criminale»? La ricerca di Ares 2000 - Paradisi fiscali, edito da Malatempora - sembra propendere per una risposta in senso affermativo, anche se limitatamente a soggetti e comportamenti imprenditoriali ben determinati. Complice il linguaggio giornalistico televisivo, che l'ha imposta ai tempi di «mani pulite», l'espressione «paradisi fiscali» è diventata un classico luogo comune, di cui ci sembra di sapere molto, ma di cui ignoriamo quasi tutto. Nell'immaginario collettivo evoca spiagge esotiche, banche fasulle, clienti in stile Al Capone, movenze e situazioni da spy story. Come ogni fiction, però, anche queste immagini fantasiose nascondono la realtà più di quanto non la illuminino, e sarebbe quindi bene lasciarsele alle spalle. La ricerca si pone l'obiettivo ambizioso di stendere la prima «mappa completa» dei paesi che garantiscono anonimato e tassazione zero ai capitali di qualsiasi origine, senza troppi distinguo. In questo, anche se si tratta di una materia in perenne sommovimento, si può dire che Ares 2000 fa centro. I problemi sorgono invece quando si deve affrontare la natura degli staterelli off shore, ossia la ragione costitutiva della loro stessa esistenza (che non si dà «a dispetto» dei principali governi del mondo, ma proprio grazie alla loro fattiva benevolenza). Gli autori della ricerca condividono infatti molto dell'impostazione «moralistico-dietrologica» che tanto negativamente pesa sulla capacità di pensiero della sinistra. Da questo punto di vista, nel volume assumono centralità, anche teorica, i capitali «sporchi» (e le diverse mafie che li accumulano), le riserve di «fondi neri» da cui far arrivare le cifre necessarie alla corruzione di intere classi politiche (e qui Berlusconi e soci la fanno ovviamente da protagonisti), i depositi utili alle «operazioni inconfessabili» da parte di agenzie statali di paesi democraticamente inappuntabili. Tutti fatti veri. Che però non spiegano granché. La ricerca stessa ci dice infatti che «l'80% dei depositi» nelle banche di questi paesi-ombra è in realtà riconducibile alle principali imprese multinazionali del pianeta. E che le banche lì operanti sono quasi esattamente le stesse che hanno gli uffici direzionali nella Fifth Avenue di New York o nella City. Se questa è la proporzione, insomma, è evidente che l'aspetto «criminale», pur esistente, è un epifenomeno, una sorta di parassita che sfrutta le stesse vie costruite per la «normale» circolazione del capitale, dove conquista una «presentabilità» sul mercato. E così dicasi del «terrorismo di matrice islamica» che, suscitato e strutturato inizialmente in funzione antisovietica, sta evidentemente usando le «tecniche» apprese dagli istruttori occidentali. E' altrettanto evidente, però, che la «necessità di combatterlo» non abbisogna affatto dell'invocata «abolizione del segreto bancario», che a sua volta «distruggerebbe» i paradisi fiscali. Come già sta avvenendo, infatti, ai servizi investigativi degli Usa o dei primi paesi dell'occidente industrializzato basta selezionare quelli non riconducibili alle sacrosante cattedrali del profitto (l'80%!) e mettersi a dare un'occhiata soltanto in quelli «di incerta origine». Purgati dai (non giganteschi, su scala mondiale) flussi finanziari «nemici», e messi disciplinatamente a disposizione delle direttive provenienti da Washington, i paradisi fiscali possono così continuare a prosperare. C'è insomma un errore prospettico che andrà prima o poi corretto: i paesi off shore sono stati costituiti dal capitale ordinario, rappresentano la sua esigenza di retrovie in cui parcheggiare immense riserve di liquidità da utilizzare in ogni tipo di speculazione «legale» - ondate ribassiste sulle borse, fusioni e acquisizioni societarie, pressioni su monete o distruzione di economie nazionali. Non sono quindi un'«anomalia», ma un elemento costitutivo del capitale internazionale. Detto altrimenti: non c'è un «capitale buono» da difendere da uno «cattivo». Il capitalismo «corsaro» stile Enron è - dal punto di vista «etico» - esattamente lo stesso degli inizi, quello dell'«accumulazione originaria», dei pirati che solcavano i mari con tanto di «patente» concessa dai regnanti di Francia, Spagna o Inghilterra. E' insomma, sì, «capitalismo criminale». Ma qui l'aggettivo, da sempre, è compreso nel sostantivo.