Gli spiriti animali della Enron
In un volume Feltrinelli ricostruita il fallimento della società energetica statunitense Una società al buio L'accusa è stata di aver falsato i bilanci. Ma lo scandalo dell'impresa californiana ha reso evidente la crisi di un modello economico basato sulla ricerca di facili guadagni e sull'autonomia della finanza dalla produzione reale di ricchezza
Ci sono due modi di affrontare la ricostruzione de La parabola Enron (Nicola Borzi, Feltrinelli, € 9): o si focalizza l'attenzione sugli uomini che hanno dato vita al più grande crack finanziario della storia mondiale, oppure sul meccanismo che quegli uomini hanno interpretato, più che inventarlo. Qui, diciamolo subito, si preferisce il secondo. Non perché le storie singole e collettive non abbiano capacità di spiegazione narrativa (anzi), ma perché l'esigenza prioritaria è quella di cogliere la dimensione sistemica della crisi del modello economico degli anni `90. C'è infatti un'illusione ottica ricorrente in chi osserva questo tipo di fenomeni, e che è bene sgomberare subito: si crede spesso che determinati comportamenti devastanti l'«ordinato» svolgersi del business siano da imputare a poche persone, «creative» (nel senso tremontiano del termine) al punto da introdurre nel processo dell'accumulazione capitalistica elementi nuovi e del tutto imprevedibili, e solo per questo fonte di crisi. Non è così, e l'assoluta assenza di etica della banda di texani di Enron non ha praticamente alcun ruolo economico. I meccanismi del capitale messi in azione nella rapida ascesa e nella fulminante caduta della Enron sono vecchi come il cucco; solo che erano stati emarginati (impediti, limitati), per qualche decennio, da una serie di leggi promulgate sull'onda del «grande crollo» del `29. La rimozione di questi «ostacoli» legislativi al pieno dispiegamento dei peggiori «spiriti animali» - certamente «caldeggiata» da corsari come Kenneth Lay (l'«inventore» di Enron) - non è stata insomma tanto dovuta a oscure manovre di lobby, quanto a esigenze di valorizzazione rapida del capitale che non trovavano più risposta nel «normale» circuito della produzione o finanziario. Il pregio - se così lo si può chiamare - di questi meccanismi è che attraverso di loro è possibile veder operare in modo «puro» il capitale in quanto tale. Il problema di ogni imprenditore è di fare profitti e convincere «il mercato» di essere in grado di farli anche a distanza di tempo, per attirare investitori che gli consegnino il loro denaro senza impicciarsi troppo dell'amministrazione diretta. Sorvoliamo qui sulle tecniche legali di «abbellimento» dei bilanci - su cui Borzi scrive pagine di rara chiarezza e semplicità espositiva - e concentriamoci invece sul particolare rapporto tra economia reale e finanza realizzato da Lay e Skilling, a partire dal concetto di light asset company (compagnia dal patrimonio «leggero»). «Il manager sapeva che le proprietà che fanno parte del patrimonio di un'impresa rappresentano una ricchezza, ma anche una fonte di costi; la loro riduzione avrebbe comportato la possibilità di vantare indici di ritorno degli utili sul patrimonio molto elevati, che avrebbero messo in ottima luce la Enron agli occhi degli investitori di borsa». Per ottenere questo risultato Lay e Skilling trasformano Enron in un commerciante di energia, in un puro intermediario posto in posizione dominante tra produttori e consumatori. Le possibilità di profitto, in questa posizione, non sono però particolarmente elevate. Quindi occorreva ingigantirle perseguendo, da un lato, il monopolio tendenziale di questo commercio (ne sa qualcosa la California, sconvolta due anni fa da una serie di black-out elettrici provocati anche dai «trucchetti» di Enron sul mercato dell'energia), dall'altro giocare sulle differenze di prezzo a distanza di mesi (si acquista o vende oggi quello che verrà consegnato magari tra un anno). Last but not least, era necessario fissare criteri contabili particolarmente flessibili (al limite dell'arbitrio) per poter «contare i pulcini prima che le uova siano state covate». Inevitabile, a tenere insieme il tutto, poter contare su solidissimi appoggi politici - ma a questo ha sempre provveduto la famiglia Bush - e sugli occhi chiusi di una potente, rispettata e profumatamente retribuita società di revisione dei conti (l'ormai famosa, e fallita, Arthur Andersen). Il dispositivo è qui descritto solo sommariamente. Ma, come si vede, implica uno slittamento progressivo e irreversibile dalla funzione economica (la creazione di ricchezza e quindi di profitto) a quella illusionistico-truffaldina (garantire profitti crescenti anche in assenza di produzione di ricchezza). E' new economy allo stato puro, per certi versi; ma senza le tecnologie hi tech. E' finanza che prescinde dalla produzione. O, se si vuole, il virtuale che prescinde dal reale. Borzi sintetizza molto bene questo «virus letale» introdotto nella programmazione dell'attività della Enron: «Per ridurre al minimo i rischi, il giro d'affari avrebbe dovuto crescere continuamente a un ritmo superiore al tasso di attualizzazione (la computazione anticipata dei ricavi futuri, ndr). Se il meccanismo si fosse inceppato, se cioè in un trimestre il fatturato fosse rimasto lo stesso o peggio diminuito, l'anticipazione dei ricavi e degli utili avrebbe lasciato l'azienda senza profitti da distribuire ai suoi azionisti nei periodi successivi. Il risultato fu quello di innescare un meccanismo malsano nel quale la società era costretta ad aumentare sempre più vorticosamente il numero delle intese d'affari strette in ogni trimestre, indipendentemente dalla loro qualità. La Enron sarebbe divenuta sempre più dipendente da dimensioni di fatturato crescenti, e non dalla loro reale capacità di generare profitti, fino a finire in overdose come un drogato». Perfetto. Solo che questo drogato riassume in sé, come una molecola di Dna, l'intero meccanismo della «crescita» orientata al profitto, altrimenti detta anche «accumulazione del capitale». Esattamente come nel caso del virtuale basta staccare la corrente elettrica per distruggere tutta la creazione, così è sufficiente un «buco» nella progressione geometrica del fatturato crescente per annientare senza appello la creatura di Kenny «Boy» Lay. Ma questo è il capitalismo, bellezza! Non una sua «distorsione», ma la sua ritrovata - dopo i decenni di «statalismo keynesiano» occorsi per superare vittoriosamente le ferite del «grande crollo», la competizione con il «socialismo reale» e i conflitti sociali con la classe operaia occidentale - natura semplice. Senza veli. Borzi, giornalista de Il Sole 24 ore, non si spinge naturalmente fino al punto da stigmatizzare il capitale in quanto tale. Ma il suo libro, ricco di notizie, analisi, descrizioni lucide e puntuali, offre - magari senza volerlo - una ricca documentazione e squarci illuminanti utili a chi, del mondo così com'è, coglie magari i segnali esteriori di una crisi epocale, ma non riesce ancora a vedere dove si annidi il tumore.