l’Unità 22.3.08
Quando un bel quadro ci lascia senza parole
di Giuseppe Montesano
È POSSIBILE spiegare o raccontare un’immagine? Tentano di rispondere a questa domanda Emilio Villa, Didi-Hubermann, John Berger e Simon Schama. Nei loro libri punti di vista diversi su ciò che non è nato per farsi scrivere
Scrissi d’Arte: così potrebbero dire critici e poeti che hanno tentato di spiegare o raccontare le immagini dell’arte. Ma si può scrivere di ciò che è stato fatto per non essere scritto, di ciò che è stato fatto perché non poteva o forse non voleva essere scritto, di ciò che ha scelto o è stato scelto da immagini non alfabetiche per esistere? Un libro che è un piccolo grande evento, ci sprofonda in questa domanda: l’autore è Emilio Villa, poeta oscuro e mitologico nonché traduttore famoso dell’Odissea e meno noto traduttore della Bibbia, il titolo del libro è Attributi dell’arte odierna 1947/1967 e si tratta di una riedizione del volume uscito per Feltrinelli nel 1970 accompagnato da una serie di scritti di Villa inediti in volume, raccolti e introdotti da Aldo Tagliaferri. Il libro esce nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, e sembra una perfetta illustrazione di quella via della scrittura che Cortellessa chiama lucrezianamente la fisica della poesia. In queste pagine su Fontana, Pollock, Cy Twombly, Burri, Rothko, Manzoni, alla domanda se sia possibile scrivere d’arte, Villa risponde di sì: ma non scrive d’arte, scrive dall’arte, parla arte, scrive sé, e infine scrive e basta: un atto fisiologico, una secrezione.
Citarlo sarebbe un abuso, le sue frasi e i suoi pensieri non sono analitici ma analogici, tentativi di rivivere in parole il magma che schizza o cola sulle tele di Pollock e di Burri: e il suo scrivere è uno svenarsi di voci che si condensano e si accumulano iterative, forzando le separazioni tra le lingue, in un francese di jeux de mots, attraverso calchi latini, greci, ebraici, e in un italiano che spreme Barocchi e Rondisti come in un Finnegan’s Wake che abbia rinunciato per sempre alla trama. Come un parassita accoccolato nelle opere che succhia, un parassita sublime che si nutre di mutezza, sospinto dai verbi verso una sognata origine, immerso in un luogo che solo forse è quello degli artisti, Villa tiene sott’acqua la sua lingua nella disperata ricerca di ritrasformarla in uterina, incosciente e oscuramente naturale come la materia che lo ha ispirato: a scrivere Arte, non a scrivere d’Arte.
Completamente diverso è il modo in cui Didi-Hubermann si avvicina a ciò che è nato per non farsi scrivere, come dimostra l’ultimo libro tradotto da Fazi: Il gioco delle evidenze, un libro irto e teso, il cui titolo originale suona Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, una specie di: «Quel che vediamo, quel che ci guarda e ci riguarda». Aggirandosi tra i monoliti minimalisti di Robert Morris e Tony Smith, Didi-Huberman procede nella sua classica discesa al di sotto delle apparenze ma sapendo che le cose dell’arte sono impastate nell’apparenza: lo fa con un linguaggio a volte stucchevolmente sottilizzante molto post-Bataille-Blanchot-etc. e a volte illuminante, e lo fa secondo lo schema dell’astrazione filosofica, cercando nel luogo della più cieca e impenetrabile apparenza perseguita dall’arte l’elemento trasparente, conoscitivo.
Ma allora è possibile scrivere d’Arte?
Dalle immagini viene una forma di ottusa chiusura che forse è necessaria alla loro stessa esistenza, una chiusura che rifiuta la chiarezza conoscitiva della filosofia e accetta, con la pazienza di un bue che tollera le mosche che lo covano, le parole della poesia. Gli artisti, che lavorano con quelli che restano in ogni caso dei simulacri, tendono a levare le parole di bocca a se stessi per primi e poi agli altri: le immagini, o la loro distruzione, o la loro riduzione all’assurdo, volgono le spalle al parlare e scrivere: e forse si sottraggono anche al pensare dove il pensare è, come è nella tradizione di tremila anni e fino a oggi, inseparabile dal linguaggio. Ma allora dove vorrebbero stare i fabbricatori di immagini? Qual è la loro straordinaria e ingenua pretesa? Forse essi vogliono sottrarsi al significato, e attraverso questa azione non difficile, compiere poi l’operazione più ardua: sottrarsi al senso. Gli artisti ripetono il mantra di fuga dalle parole: la pittura è quello che vedete, questo oggetto è se stesso e nient’altro, non c’è niente da dire, dite quel che volete, è tutto vero, non è vero niente. Che cosa esprime questo sottrarsi? È la fuga dal metaforico che sta al cuore del verbale ma forse anche del vivente, quel metaforico che di analogia in analogia moltiplica il senso e lo perverte polimorfo, fino a mostrare nell’evidenza più assoluta e insieme ambigua che il mondo non è una cosa ma è connessione, rete, relazione, e che la legge dell’arte come poesia o romanzo o scrittura o musica sta in un motto: Only connect.
Ma l’arte delle immagini, che ha a che fare con l’apparenza sensibile delle cose, pretende di essere Natura, di farsi cosa della Natura e così di sottrarsi alla perversione della metafora: le figure geometriche di Tony Smith vogliono essere natura come Brancusi voleva che fossero natura le sue forme, e quando Robert Morris fa arte con il vapore, ancora pretende in forma radicale che l’arte faccia Natura. È il sogno illusorio della fine dell’antropomorfismo nel gesto di un’arte che metta la cosa al posto della parola: in una ricerca di quel silenzio sapienziale evocato e distrutto da Beckett, là dove risuona implacabile il disco incantato e orribilmente estatico dell’Innomable: «Non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, non posso continuare, continuo». Quel silenzio attira la parola come la bellezza della Lulu di Wedekind attirava la violenza del suo adorato assassino: la ferita che Fontana infligge alla superficie, le ustioni a cui Burri sottopone plastiche e sacchi vogliono scendere sotto la coscienza razionale, sono gesti primitivi che vorrebbero essere primari, come i colpi d’ascia con cui erano sbozzate le Demoiselles d’Avignon o il trauma ritmico del Sacre du Printemps: ferite afasiche che attraggono la parola a entrare in esse, a buttarsi nello squarcio non si sa se per colmarlo o per approfondirlo.
L’arte contemporanea più attenta è tutta occupata in un gesto straordinario e esteticamente possente, ma che nasconde in sé il teo-arcaico di chi non si rassegna a ciò che Marcel Duchamp scoprì ìlare e funerario scegliendo di segare il ramo su cui era seduto: indicando nel gesto del Barone di Munchausen che si tira dalla palude tirandosi per i capelli il suo stemma, e seppellendo prima che nascesse tutta l’arte contemporanea. Da allora non c’è forse più niente da vedere, e anche l’arte delle immagini o della loro sparizione nel gesto concettuale o della loro sopravvivenza nel gioco, deve rassegnarsi alla scoperta che se è vero come diceva Goethe che anche l’innaturale è Natura, è vero anche che tutto il visibile è sotto il dominio ambiguo della metafora, e nessuna creazione che ripristini l’origine è possibile: solo connessioni, mai più cose. Nel 1870 e dintorni Corbière aveva scritto profetico: Fu un vero poeta, non sapeva cantare...Pittore: amava la sua arte - dimenticò di dipingere… Vedeva troppo - E vedere è un accecamento. Ma quel troppo che resta da vedere all’arte è traboccante. La superficie è cieca e muta, ma la speranza dell’arte è tutta in quella superficie. L’accecamento che l’arte invoca quando è all’altezza del sapersi quasi impossibile, non è quello della materia o della natura o del theos: ma quello del lampo che toglie la vista e la cala nel buio per farla rinascere. L’accecamento che le immagini sognano è il risveglio che scoperchia i sarcofaghi, quando una voce balbetta dissennata ciò che non è mai stato prima e ciò che vive solo nel tempo in cui le parole lo fanno apparire: il pezzo di muro che splende nella Recherche non è una cosa, c’è solo nelle parole di Proust e in chi le dice. È in quel pezzo di muro che esiste solo nell’immaginazione che si realizza intera la promessa delle immagini?
Quando un bel quadro ci lascia senza parole
di Giuseppe Montesano
È POSSIBILE spiegare o raccontare un’immagine? Tentano di rispondere a questa domanda Emilio Villa, Didi-Hubermann, John Berger e Simon Schama. Nei loro libri punti di vista diversi su ciò che non è nato per farsi scrivere
Scrissi d’Arte: così potrebbero dire critici e poeti che hanno tentato di spiegare o raccontare le immagini dell’arte. Ma si può scrivere di ciò che è stato fatto per non essere scritto, di ciò che è stato fatto perché non poteva o forse non voleva essere scritto, di ciò che ha scelto o è stato scelto da immagini non alfabetiche per esistere? Un libro che è un piccolo grande evento, ci sprofonda in questa domanda: l’autore è Emilio Villa, poeta oscuro e mitologico nonché traduttore famoso dell’Odissea e meno noto traduttore della Bibbia, il titolo del libro è Attributi dell’arte odierna 1947/1967 e si tratta di una riedizione del volume uscito per Feltrinelli nel 1970 accompagnato da una serie di scritti di Villa inediti in volume, raccolti e introdotti da Aldo Tagliaferri. Il libro esce nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, e sembra una perfetta illustrazione di quella via della scrittura che Cortellessa chiama lucrezianamente la fisica della poesia. In queste pagine su Fontana, Pollock, Cy Twombly, Burri, Rothko, Manzoni, alla domanda se sia possibile scrivere d’arte, Villa risponde di sì: ma non scrive d’arte, scrive dall’arte, parla arte, scrive sé, e infine scrive e basta: un atto fisiologico, una secrezione.
Citarlo sarebbe un abuso, le sue frasi e i suoi pensieri non sono analitici ma analogici, tentativi di rivivere in parole il magma che schizza o cola sulle tele di Pollock e di Burri: e il suo scrivere è uno svenarsi di voci che si condensano e si accumulano iterative, forzando le separazioni tra le lingue, in un francese di jeux de mots, attraverso calchi latini, greci, ebraici, e in un italiano che spreme Barocchi e Rondisti come in un Finnegan’s Wake che abbia rinunciato per sempre alla trama. Come un parassita accoccolato nelle opere che succhia, un parassita sublime che si nutre di mutezza, sospinto dai verbi verso una sognata origine, immerso in un luogo che solo forse è quello degli artisti, Villa tiene sott’acqua la sua lingua nella disperata ricerca di ritrasformarla in uterina, incosciente e oscuramente naturale come la materia che lo ha ispirato: a scrivere Arte, non a scrivere d’Arte.
Completamente diverso è il modo in cui Didi-Hubermann si avvicina a ciò che è nato per non farsi scrivere, come dimostra l’ultimo libro tradotto da Fazi: Il gioco delle evidenze, un libro irto e teso, il cui titolo originale suona Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, una specie di: «Quel che vediamo, quel che ci guarda e ci riguarda». Aggirandosi tra i monoliti minimalisti di Robert Morris e Tony Smith, Didi-Huberman procede nella sua classica discesa al di sotto delle apparenze ma sapendo che le cose dell’arte sono impastate nell’apparenza: lo fa con un linguaggio a volte stucchevolmente sottilizzante molto post-Bataille-Blanchot-etc. e a volte illuminante, e lo fa secondo lo schema dell’astrazione filosofica, cercando nel luogo della più cieca e impenetrabile apparenza perseguita dall’arte l’elemento trasparente, conoscitivo.
Ma allora è possibile scrivere d’Arte?
Dalle immagini viene una forma di ottusa chiusura che forse è necessaria alla loro stessa esistenza, una chiusura che rifiuta la chiarezza conoscitiva della filosofia e accetta, con la pazienza di un bue che tollera le mosche che lo covano, le parole della poesia. Gli artisti, che lavorano con quelli che restano in ogni caso dei simulacri, tendono a levare le parole di bocca a se stessi per primi e poi agli altri: le immagini, o la loro distruzione, o la loro riduzione all’assurdo, volgono le spalle al parlare e scrivere: e forse si sottraggono anche al pensare dove il pensare è, come è nella tradizione di tremila anni e fino a oggi, inseparabile dal linguaggio. Ma allora dove vorrebbero stare i fabbricatori di immagini? Qual è la loro straordinaria e ingenua pretesa? Forse essi vogliono sottrarsi al significato, e attraverso questa azione non difficile, compiere poi l’operazione più ardua: sottrarsi al senso. Gli artisti ripetono il mantra di fuga dalle parole: la pittura è quello che vedete, questo oggetto è se stesso e nient’altro, non c’è niente da dire, dite quel che volete, è tutto vero, non è vero niente. Che cosa esprime questo sottrarsi? È la fuga dal metaforico che sta al cuore del verbale ma forse anche del vivente, quel metaforico che di analogia in analogia moltiplica il senso e lo perverte polimorfo, fino a mostrare nell’evidenza più assoluta e insieme ambigua che il mondo non è una cosa ma è connessione, rete, relazione, e che la legge dell’arte come poesia o romanzo o scrittura o musica sta in un motto: Only connect.
Ma l’arte delle immagini, che ha a che fare con l’apparenza sensibile delle cose, pretende di essere Natura, di farsi cosa della Natura e così di sottrarsi alla perversione della metafora: le figure geometriche di Tony Smith vogliono essere natura come Brancusi voleva che fossero natura le sue forme, e quando Robert Morris fa arte con il vapore, ancora pretende in forma radicale che l’arte faccia Natura. È il sogno illusorio della fine dell’antropomorfismo nel gesto di un’arte che metta la cosa al posto della parola: in una ricerca di quel silenzio sapienziale evocato e distrutto da Beckett, là dove risuona implacabile il disco incantato e orribilmente estatico dell’Innomable: «Non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, non posso continuare, continuo». Quel silenzio attira la parola come la bellezza della Lulu di Wedekind attirava la violenza del suo adorato assassino: la ferita che Fontana infligge alla superficie, le ustioni a cui Burri sottopone plastiche e sacchi vogliono scendere sotto la coscienza razionale, sono gesti primitivi che vorrebbero essere primari, come i colpi d’ascia con cui erano sbozzate le Demoiselles d’Avignon o il trauma ritmico del Sacre du Printemps: ferite afasiche che attraggono la parola a entrare in esse, a buttarsi nello squarcio non si sa se per colmarlo o per approfondirlo.
L’arte contemporanea più attenta è tutta occupata in un gesto straordinario e esteticamente possente, ma che nasconde in sé il teo-arcaico di chi non si rassegna a ciò che Marcel Duchamp scoprì ìlare e funerario scegliendo di segare il ramo su cui era seduto: indicando nel gesto del Barone di Munchausen che si tira dalla palude tirandosi per i capelli il suo stemma, e seppellendo prima che nascesse tutta l’arte contemporanea. Da allora non c’è forse più niente da vedere, e anche l’arte delle immagini o della loro sparizione nel gesto concettuale o della loro sopravvivenza nel gioco, deve rassegnarsi alla scoperta che se è vero come diceva Goethe che anche l’innaturale è Natura, è vero anche che tutto il visibile è sotto il dominio ambiguo della metafora, e nessuna creazione che ripristini l’origine è possibile: solo connessioni, mai più cose. Nel 1870 e dintorni Corbière aveva scritto profetico: Fu un vero poeta, non sapeva cantare...Pittore: amava la sua arte - dimenticò di dipingere… Vedeva troppo - E vedere è un accecamento. Ma quel troppo che resta da vedere all’arte è traboccante. La superficie è cieca e muta, ma la speranza dell’arte è tutta in quella superficie. L’accecamento che l’arte invoca quando è all’altezza del sapersi quasi impossibile, non è quello della materia o della natura o del theos: ma quello del lampo che toglie la vista e la cala nel buio per farla rinascere. L’accecamento che le immagini sognano è il risveglio che scoperchia i sarcofaghi, quando una voce balbetta dissennata ciò che non è mai stato prima e ciò che vive solo nel tempo in cui le parole lo fanno apparire: il pezzo di muro che splende nella Recherche non è una cosa, c’è solo nelle parole di Proust e in chi le dice. È in quel pezzo di muro che esiste solo nell’immaginazione che si realizza intera la promessa delle immagini?