Corriere della Sera 19.3.08
Ricerche. Gli archivisti-scrittori, Il processo alle streghe con i documenti veri
di Enrico Mannucci
Lavoce delle streghe «ci viene tramandata da un notaio che verbalizza, traducendo parzialmente in volgare, quelle che erano le espressioni della loro lingua, un dialetto ostico composto di risonanze antiche». Che l'idea di un romanzo abbia bisogno di documentazione attenta l'ha dimostrato anche la letteratura di consumo. Più complesso l'opposto. È il tentativo avviato nel 1998 da un «collettivo» di archivisti con la collaborazione della Fondazione Mondadori e della Regione Lombardia. In pratica, estrarre una storia avvincente da una ricerca pignola quale può essere quella di un ricercatore abituato a frugare fra filze e faldoni polverosi. Riesce a Roberto Grassi, firma di punta del «collettivo» nonché archivista milanese, rileggendo le carte di un processo celebrato nel 1630 dalla corte criminale del Contado di Bormio contro due donne, madre e figlia — di Isolaccia, villaggio della Valdidentro — accusate di malefici vari contro persone e bestie. Il romanzesco sta in alcune licenze cronologiche, nell'evocazione di una contemporaneità illustre — la vicenda manzoniana — ma soprattutto nell'accurato recupero della storia in sé: «Nella superstizione degli intellettuali laici, nel fanatismo dei giudici civili. Questa storia sta nelle coscienze avvelenate da una religione crudele, in un secolo dominato dai demoni». C'è la tortura, c'è l'esecuzione delle imputate, ma c'è anche, nel ritratto delle accuse alle presunte streghe, più di qualcosa che rammenta il contorno dei delitti «condominiali» del nostro tempo.
ROBERTO GRASSI, La voce delle streghe, VIENNEPIERRE PP. 200, e 15
Ricerche. Gli archivisti-scrittori, Il processo alle streghe con i documenti veri
di Enrico Mannucci
Lavoce delle streghe «ci viene tramandata da un notaio che verbalizza, traducendo parzialmente in volgare, quelle che erano le espressioni della loro lingua, un dialetto ostico composto di risonanze antiche». Che l'idea di un romanzo abbia bisogno di documentazione attenta l'ha dimostrato anche la letteratura di consumo. Più complesso l'opposto. È il tentativo avviato nel 1998 da un «collettivo» di archivisti con la collaborazione della Fondazione Mondadori e della Regione Lombardia. In pratica, estrarre una storia avvincente da una ricerca pignola quale può essere quella di un ricercatore abituato a frugare fra filze e faldoni polverosi. Riesce a Roberto Grassi, firma di punta del «collettivo» nonché archivista milanese, rileggendo le carte di un processo celebrato nel 1630 dalla corte criminale del Contado di Bormio contro due donne, madre e figlia — di Isolaccia, villaggio della Valdidentro — accusate di malefici vari contro persone e bestie. Il romanzesco sta in alcune licenze cronologiche, nell'evocazione di una contemporaneità illustre — la vicenda manzoniana — ma soprattutto nell'accurato recupero della storia in sé: «Nella superstizione degli intellettuali laici, nel fanatismo dei giudici civili. Questa storia sta nelle coscienze avvelenate da una religione crudele, in un secolo dominato dai demoni». C'è la tortura, c'è l'esecuzione delle imputate, ma c'è anche, nel ritratto delle accuse alle presunte streghe, più di qualcosa che rammenta il contorno dei delitti «condominiali» del nostro tempo.
ROBERTO GRASSI, La voce delle streghe, VIENNEPIERRE PP. 200, e 15