Corriere della Sera 24.4.08
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora
È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l'autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul
corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l'effetto insensatamente contraddittorio dell'invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista
già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso — ed esso soltanto — contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che — oltre a rappresentare un'ulteriore petitio principii — per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione — e quindi la lettera — del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.
Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all'università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora
È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l'autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul
corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l'effetto insensatamente contraddittorio dell'invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista
già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso — ed esso soltanto — contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che — oltre a rappresentare un'ulteriore petitio principii — per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione — e quindi la lettera — del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.
Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all'università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.