Corriere della Sera 26.5.08
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo
Supera l'alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo
Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l'affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un'«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10).
Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l'autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l'interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po' spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell'etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l'unico fine possibile per l'esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l'«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l'«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone». In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un'opera d'arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l'identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un'azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall'altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d'eccezione. A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l'esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all'inizio del Novecento, non poteva certo farsi un'idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un'aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l'affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l'idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell'Ottocento rimane un'eredità preziosa ancora oggi, quando l'utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo
Supera l'alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo
Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l'affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un'«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10).
Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l'autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l'interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po' spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell'etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l'unico fine possibile per l'esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l'«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l'«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone». In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un'opera d'arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l'identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un'azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall'altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d'eccezione. A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l'esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all'inizio del Novecento, non poteva certo farsi un'idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un'aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l'affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l'idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell'Ottocento rimane un'eredità preziosa ancora oggi, quando l'utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.