La Repubblica 2.2.08
Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini
di Roberto Calasso
Il grande poeta francese raccomandava la lettura dei "Salons" di Diderot a cui si era largamente ispirato
Pubblichiamo il testo letto ieri sera da alla Warburg-Haus di Amburgo, dove ha ricevuto il Premio Warburg
I Salons di Diderot sono l´inizio di ogni critica deambulante, capricciosa, insofferente, umorale, che si rivolge ai quadri come ad altrettante persone, si aggira curiosa fra paesaggi e figure, usa le immagini come trampolini e pretesti per esercizi di metamorfosi a cui si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Se si elimina la parola arte, sempre ingombrante e spesso improvvida, fare un Salon equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di immagini che rappresentano, in ordinati drappelli, i momenti più disparati della vita: dalla mutezza inaccessibile della natura morta sino agli episodi solenni della Bibbia e alle cerimonie grandiloquenti della Storia. Per un uomo come Diderot, dalla mente cangiante e disponibile pressoché a tutto, il Salon diventava l´occasione più adatta per mettere in scena quell´officina turbolenta e perennemente attiva che aveva sede nella sua testa.
Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo febbrile automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua scossa nervosa che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi. Per questo Diderot disse dei Salons: «Non c´è nessuna delle mie opere che mi somigli altrettanto».
Perché i Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all´altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce - e talvolta ci si perde: «E un metodo piuttosto buono per descrivere i quadri, soprattutto campestri, quello di entrare nel luogo della scena da destra o da sinistra, e seguendo nell´avanzare il bordo inferiore descrivere gli oggetti via via che si presentano». (...)
Quando Baudelaire vide per la prima volta il suo nome (allora Baudelaire Dufays) sulla copertina di un esile libro - il Salon de 1845 -, la sua prima aspirazione fu che qualcuno si accorgesse dell´affinità fra quelle pagine e Diderot. A Champfleury spedì questo biglietto: «Se volete fare un articolo scherzoso, fatelo pure, purché non mi faccia troppo male. Ma, se volete farmi piacere, fate qualche riga seria, e parlate dei Salons di Diderot. E forse il meglio sarebbe di avere le DUE COSE insieme».
Champfleury rispettò il desiderio dell´amico e sul Corsaire-Satan di pochi giorni dopo si poteva leggere, in un articolo anonimo: «M. Baudelaire-Dufays è audace come Diderot, senza però il paradosso».
Ma che cosa, in Diderot, attirava Baudelaire? Non certo il «culto della Natura», quella «grande religione» che accomunava Diderot a d´Holbach ed era del tutto aliena a Baudelaire. Piuttosto, l´attrazione era dovuta a un certo passo del pensiero, a una certa capacità di oscillazione psichica, dove - come Baudelaire scrisse di un personaggio teatrale di Diderot - «la sensibilità è unita all´ironia e al cinismo più bizzarro». E poi - non si può forse ascrivere alle coincidenze fatali che proprio Diderot fosse stato uno dei primi francesi a nominare lo spleen? Così aveva scritto a Sophie Volland il 28 ottobre 1760: «Non sapete che cos´è lo spline o vapori inglesi? Non lo sapevo neppure io». Ma il suo amico scozzese Hoop gli avrebbe illustrato quel nuovo flagello.
In tutti i suoi aspetti Diderot era terreno congeniale per Baudelaire, che alla fine non riuscì a trattenersi e svelò le sue carte in un asterisco del Salon de 1846: «Raccomando a coloro che talvolta devono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere la lettura dei Salons di Diderot. In mezzo ad altri esempi di carità ben intesa, vi troveranno che questo grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva famiglia, disse che occorreva abolire o i quadri o la famiglia». Invano è stato cercato il passo corrispondente nei Salons di Diderot. Ma certamente così Baudelaire voleva che Diderot scrivesse.
Nella catena dell´insolenza, dell´improntitudine e dell´immediatezza che collega i Salons di Diderot a quelli di Baudelaire c´è un anello intermedio: l´Histoire de la peinture en Italie di Stendhal. Pubblicato nel 1817 per un pubblico pressoché inesistente, questo libro dovette apparire al giovane Baudelaire come un viatico prezioso. Non tanto per la comprensione dei pittori, che non fu mai il forte di Stendhal, ma per la sua maniera impertinente, sbrigativa, ariosa, come di chi è pronto a tutto ma non ad annoiarsi mentre scrive. Stendhal aveva saccheggiato Lanzi per risparmiarsi certe faticose incombenze (descrizioni, date, dettagli) nella stesura del libro.
Baudelaire invece si appropriò di due passi del libro di Stendhal per devozione, secondo la regola per cui il vero scrittore non prende in prestito ma ruba. E lo fece nel punto più delicato del suo Salon del 1846, là dove parla di Ingres. Tutta la storia della letteratura - quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di scrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi - può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull´ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura. I due passi che Baudelaire prese da Stendhal sono più Baudelaire di Baudelaire e intervengono in un momento cruciale della sua esposizione. Scrivere è ciò che, come l´eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell´io. E ogni stile si forma per successive campagne - con drappelli di incursori o con armate intere - in territori altrui.
Chi volesse dare un esempio del timbro inconfondibile di Baudelaire critico potrebbe persino scegliere alcune sue righe che sono ricalcate da Stendhal: «M. Ingres disegna mirabilmente bene, e disegna con rapidità. Nei suoi abbozzi fa naturalmente l´ideale; il suo disegno, spesso poco carico, non contiene molti tratti; ma ciascuno rende un contorno importante. Avvicinateli a quelli di tutti questi operai della pittura, che spesso sono suoi allievi; - prima di tutto rendono le minuzie, e appunto per questo incantano i volgari, il cui occhio in tutti i generi si apre soltanto per ciò che è piccolo».
C´è poi un altro caso: «Il Bello non è che la promessa della felicità». Baudelaire doveva tenere molto a queste parole, che sono una variazione da Stendhal, se le ha citate tre volte nei suoi scritti. Le aveva trovate in De l´amour, libro che sino allora circolava fra molto pochi degli happy few. Stendhal non si riferiva all´arte, bensì alla bellezza femminile. Che Stendhal intendesse la sua celebre definizione del bello senza insinuarvi implicazioni metafisiche si può desumere da una sua annotazione in Rome, Naples et Florence. Sono le cinque del mattino e Stendhal esce, ancora ammaliato, da un ballo della società dei negozianti di Milano. Annota: «Non ho mai visto in vita mia una riunione di donne altrettanto belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi. Per un Francese, ha un carattere nobile e fosco che fa pensare alla felicità delle passioni ben più che ai piaceri passeggeri di una galanteria vivace e gaia. La bellezza non è mai, mi sembra, che una promessa di felicità». Si avverte subito il brio infantile, il presto di Stendhal.
Baudelaire, sulla base delle sue parole, batterà un´altra strada. Stendhal pensa alla vita - e se ne appaga. Baudelaire non riesce a impedirsi di innervarvi un pensiero, operando uno spostamento decisivo: dirotta le parole di Stendhal verso l´arte e, invece che di «bellezza», parla del «Bello». Ora non si tratta più dell´avvenenza femminile, ma di una categoria platonica. E qui avviene l´urto con la felicità, che la speculazione estetica - persino in Kant - non era ancora riuscita a collegare al Bello. Non solo: ma, con questa lieve e travolgente torsione del discorso, la «promessa» sviluppa un alone escatologico. Quale sarà mai la felicità che si preannuncia nel Bello? Non certo quella celebrata con petulanza nel secolo dei Lumi.
Baudelaire non si sentì mai attratto, per costituzione, a seguire quella via. Ma di quale altra felicità può trattarsi? E come se ora quella promesse du bonheur si riferisse alla vita perfetta. A qualcosa che travalica l´estetico e lo assorbe in sé. E questa - di Baudelaire ben più che di Stendhal - la luce utopica in cui la promesse du bonheur riaffiorerà quasi un secolo più tardi: nei Minima moralia di Adorno.
Nel momento in cui appare la fotografia - e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto - , già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi.
«Questo peccato è il nostro peccato. Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «Sin da giovanissimo, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell´immensità», traboccanti di simulacri.
L´avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d´arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche».
Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d´amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un´opera di trasposizione da un registro all´altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, dimenticando presto che potevano anche essere la descrizione di un acquarello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d´ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
Copyright Roberto Calasso
Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini
di Roberto Calasso
Il grande poeta francese raccomandava la lettura dei "Salons" di Diderot a cui si era largamente ispirato
Pubblichiamo il testo letto ieri sera da alla Warburg-Haus di Amburgo, dove ha ricevuto il Premio Warburg
I Salons di Diderot sono l´inizio di ogni critica deambulante, capricciosa, insofferente, umorale, che si rivolge ai quadri come ad altrettante persone, si aggira curiosa fra paesaggi e figure, usa le immagini come trampolini e pretesti per esercizi di metamorfosi a cui si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Se si elimina la parola arte, sempre ingombrante e spesso improvvida, fare un Salon equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di immagini che rappresentano, in ordinati drappelli, i momenti più disparati della vita: dalla mutezza inaccessibile della natura morta sino agli episodi solenni della Bibbia e alle cerimonie grandiloquenti della Storia. Per un uomo come Diderot, dalla mente cangiante e disponibile pressoché a tutto, il Salon diventava l´occasione più adatta per mettere in scena quell´officina turbolenta e perennemente attiva che aveva sede nella sua testa.
Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo febbrile automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua scossa nervosa che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi. Per questo Diderot disse dei Salons: «Non c´è nessuna delle mie opere che mi somigli altrettanto».
Perché i Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all´altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce - e talvolta ci si perde: «E un metodo piuttosto buono per descrivere i quadri, soprattutto campestri, quello di entrare nel luogo della scena da destra o da sinistra, e seguendo nell´avanzare il bordo inferiore descrivere gli oggetti via via che si presentano». (...)
Quando Baudelaire vide per la prima volta il suo nome (allora Baudelaire Dufays) sulla copertina di un esile libro - il Salon de 1845 -, la sua prima aspirazione fu che qualcuno si accorgesse dell´affinità fra quelle pagine e Diderot. A Champfleury spedì questo biglietto: «Se volete fare un articolo scherzoso, fatelo pure, purché non mi faccia troppo male. Ma, se volete farmi piacere, fate qualche riga seria, e parlate dei Salons di Diderot. E forse il meglio sarebbe di avere le DUE COSE insieme».
Champfleury rispettò il desiderio dell´amico e sul Corsaire-Satan di pochi giorni dopo si poteva leggere, in un articolo anonimo: «M. Baudelaire-Dufays è audace come Diderot, senza però il paradosso».
Ma che cosa, in Diderot, attirava Baudelaire? Non certo il «culto della Natura», quella «grande religione» che accomunava Diderot a d´Holbach ed era del tutto aliena a Baudelaire. Piuttosto, l´attrazione era dovuta a un certo passo del pensiero, a una certa capacità di oscillazione psichica, dove - come Baudelaire scrisse di un personaggio teatrale di Diderot - «la sensibilità è unita all´ironia e al cinismo più bizzarro». E poi - non si può forse ascrivere alle coincidenze fatali che proprio Diderot fosse stato uno dei primi francesi a nominare lo spleen? Così aveva scritto a Sophie Volland il 28 ottobre 1760: «Non sapete che cos´è lo spline o vapori inglesi? Non lo sapevo neppure io». Ma il suo amico scozzese Hoop gli avrebbe illustrato quel nuovo flagello.
In tutti i suoi aspetti Diderot era terreno congeniale per Baudelaire, che alla fine non riuscì a trattenersi e svelò le sue carte in un asterisco del Salon de 1846: «Raccomando a coloro che talvolta devono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere la lettura dei Salons di Diderot. In mezzo ad altri esempi di carità ben intesa, vi troveranno che questo grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva famiglia, disse che occorreva abolire o i quadri o la famiglia». Invano è stato cercato il passo corrispondente nei Salons di Diderot. Ma certamente così Baudelaire voleva che Diderot scrivesse.
Nella catena dell´insolenza, dell´improntitudine e dell´immediatezza che collega i Salons di Diderot a quelli di Baudelaire c´è un anello intermedio: l´Histoire de la peinture en Italie di Stendhal. Pubblicato nel 1817 per un pubblico pressoché inesistente, questo libro dovette apparire al giovane Baudelaire come un viatico prezioso. Non tanto per la comprensione dei pittori, che non fu mai il forte di Stendhal, ma per la sua maniera impertinente, sbrigativa, ariosa, come di chi è pronto a tutto ma non ad annoiarsi mentre scrive. Stendhal aveva saccheggiato Lanzi per risparmiarsi certe faticose incombenze (descrizioni, date, dettagli) nella stesura del libro.
Baudelaire invece si appropriò di due passi del libro di Stendhal per devozione, secondo la regola per cui il vero scrittore non prende in prestito ma ruba. E lo fece nel punto più delicato del suo Salon del 1846, là dove parla di Ingres. Tutta la storia della letteratura - quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di scrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi - può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull´ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura. I due passi che Baudelaire prese da Stendhal sono più Baudelaire di Baudelaire e intervengono in un momento cruciale della sua esposizione. Scrivere è ciò che, come l´eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell´io. E ogni stile si forma per successive campagne - con drappelli di incursori o con armate intere - in territori altrui.
Chi volesse dare un esempio del timbro inconfondibile di Baudelaire critico potrebbe persino scegliere alcune sue righe che sono ricalcate da Stendhal: «M. Ingres disegna mirabilmente bene, e disegna con rapidità. Nei suoi abbozzi fa naturalmente l´ideale; il suo disegno, spesso poco carico, non contiene molti tratti; ma ciascuno rende un contorno importante. Avvicinateli a quelli di tutti questi operai della pittura, che spesso sono suoi allievi; - prima di tutto rendono le minuzie, e appunto per questo incantano i volgari, il cui occhio in tutti i generi si apre soltanto per ciò che è piccolo».
C´è poi un altro caso: «Il Bello non è che la promessa della felicità». Baudelaire doveva tenere molto a queste parole, che sono una variazione da Stendhal, se le ha citate tre volte nei suoi scritti. Le aveva trovate in De l´amour, libro che sino allora circolava fra molto pochi degli happy few. Stendhal non si riferiva all´arte, bensì alla bellezza femminile. Che Stendhal intendesse la sua celebre definizione del bello senza insinuarvi implicazioni metafisiche si può desumere da una sua annotazione in Rome, Naples et Florence. Sono le cinque del mattino e Stendhal esce, ancora ammaliato, da un ballo della società dei negozianti di Milano. Annota: «Non ho mai visto in vita mia una riunione di donne altrettanto belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi. Per un Francese, ha un carattere nobile e fosco che fa pensare alla felicità delle passioni ben più che ai piaceri passeggeri di una galanteria vivace e gaia. La bellezza non è mai, mi sembra, che una promessa di felicità». Si avverte subito il brio infantile, il presto di Stendhal.
Baudelaire, sulla base delle sue parole, batterà un´altra strada. Stendhal pensa alla vita - e se ne appaga. Baudelaire non riesce a impedirsi di innervarvi un pensiero, operando uno spostamento decisivo: dirotta le parole di Stendhal verso l´arte e, invece che di «bellezza», parla del «Bello». Ora non si tratta più dell´avvenenza femminile, ma di una categoria platonica. E qui avviene l´urto con la felicità, che la speculazione estetica - persino in Kant - non era ancora riuscita a collegare al Bello. Non solo: ma, con questa lieve e travolgente torsione del discorso, la «promessa» sviluppa un alone escatologico. Quale sarà mai la felicità che si preannuncia nel Bello? Non certo quella celebrata con petulanza nel secolo dei Lumi.
Baudelaire non si sentì mai attratto, per costituzione, a seguire quella via. Ma di quale altra felicità può trattarsi? E come se ora quella promesse du bonheur si riferisse alla vita perfetta. A qualcosa che travalica l´estetico e lo assorbe in sé. E questa - di Baudelaire ben più che di Stendhal - la luce utopica in cui la promesse du bonheur riaffiorerà quasi un secolo più tardi: nei Minima moralia di Adorno.
Nel momento in cui appare la fotografia - e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto - , già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi.
«Questo peccato è il nostro peccato. Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «Sin da giovanissimo, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell´immensità», traboccanti di simulacri.
L´avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d´arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche».
Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d´amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un´opera di trasposizione da un registro all´altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, dimenticando presto che potevano anche essere la descrizione di un acquarello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d´ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
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