Mario Bernabò Silorata,
Federico Il di Svevia. Saggezza di
un Imperatore,
Nardini-Convivio, Firenze 1993,
pagg. 244, lire 38.000.
L’ottavo centenario della nascita di Federico II di Hohenstaufen,
imperatore del Sacro Romano Impero, cade a proposito per ricordare e celebrare
una delle personalità più eminenti della storia europea. In lui si assommarono
le qualità dell’uomo di vasta cultura e dello statista illuminato, insieme a
quella particolare sensibilità per le virtù sovrane della regalità che ne ha fatto
l’esempio massimo del potere medievale.
Il lavoro di Mario Bernabò Silorata ci restituisce con appassionata
partecipazione tutta l’immagine dello Stupor
Mundi, di colui che anticipò i tempi con una concezione ‘laica” dello Stato
supportata da una raffinata impostazione culturale, che divenne fecondo punto
d’incontro di più civiltà. Egli seppe far convivere la tradizione
latino-germanica portatrice dell’idea della monarchia sacrale, la tradizione
normanna, fondata sull’accentramento burocratico e sull’efficienza delle
istituzioni, e la tradizione araba, con il suo amore per il sapere e per un
certo edonismo, cui l’imperatore svevo indulse con sfarzo spregiudicato.
Quasi già uomo rinascimentale per questo sincretismo e per la capacità di
farsi acuto osservatore della natura, Federico non si sottrasse però alla
mentalità medievale, ad esempio nell’interesse per l’astrologia, esercitando in
tutti i casi uno straordinario fascino, che perdura ancora ai nostri giorni. La
forte personalità del nipote del Barbarossa si mostra sia nella salda gestione
del potere imperiale, rivendicato nella sua supremazia lungo una lotta
pluridecennale col Papato, sia nell’ampiezza degli interessi scientifici e
letterari, che attirarono presso la sua celebre Corte un gran numero di
intellettuali di alto valore, fonte e prima espressione di cultura e lingua
italiana. Gran mecenate della scuola poetica siciliana, poeta egli stesso, ma
politico lucido e pervicace nel suo disegno di supremazia: questi gli estremi
tra i quali un animo nobile ma violento, magnanimo ma vendicatore, risoluto ma
a volte stranamente arrendevole, riassunse in sé le contraddizioni dell’epoca,
mistica e insieme sanguinaria.
La biografia del personaggio, nelle linee essenziali, è nota a tutti.
Figlio di Enrico IV e di Costanza d’Altavilla, rimasto presto orfano, posto
sotto la tutela di Innocenzo III, il papa suo futuro nemico, neI 1208 Federico
assunse il governo del Regno di Sicilia e Puglia; nel 1215 divenne re di
Germania, e nel 1220 il nuovo pontefice Onorio III lo consacrò imperatore.
Crociato in Terrasanta, ripristinò il Regno di Gerusalemme per via diplomatica,
aprendo col sultano saraceno rapporti amichevoli; domò la ribellione del
figlio Enrico in Germania e quella dei Comuni italiani, che batté a Cortenuova.
Nonostante due scomuniche e la deposizione proclamata dal Concilio di Lione nel
1245, il suo prestigio rimase intatto e anzi rappresentò il catalizzatore di
quanti vedevano nella Chiesa dell’epoca il tradimento dei postulati evangelici,
tanto che Silorata lo giudica un antesignano dei più tardi fermenti
riformistici: « Per la sua visione politica e laica, Federico sarebbe stato,
forse, l’Imperatore ideale al tempo della grande Riforma Luterana «.
L’ostinata inimicizia portatagli specialmente da Onorio III e Innocenzo IV
— sui cui subdoli disegni per eliminare fisicamente Federico l’autore torna più
volte, sottolineando la sete di potere che guidava un papato ridotto ormai a
centrale di intrighi — non fu però mai tale da far vacillare il trono dello Staufen,
che si trovò a dover lottare su più fronti, costretto a tener testa a tutti i
contropoteri coalizzati volta a volta dal Papa: da anti-re di Germania
frettolosamente oppostigli alla Lega Lombarda, di continuo istigata alla
ribellione in qualità di mano militare al servizio del dominio secolare e
territoriale del Soglio. Pur in queste ristrettezze di orizzonte politico, cui
soggiacquero i suoi antagonisti, e pur vittima dell’immaturità dei tempi,
Federico non ebbe che rare cadute di tono; i suoi nervi, diciamo così,
saltarono solo poche volte, come nell’occasione della ribellione del figlio
Enrico, che fu costretto a lunga e dura prigionia, o come quando, neI 1249,
scoprì una congiura a suo danno ordita da nobili del Regno, tutti brutalmente
torturati e uccisi con impassibile crudeltà. Per il resto, le sue repressioni
contro gli eretici — giudicati pericolosi per motivi politici e non religiosi —
o le devastazioni di città infedeli rientrano nelle “normali” misure
dell’epoca; stupisce semmai l’estrema pacatezza di cui dette prova più volte
(ad esempio con le offerte di pace indirizzate a Innocenzo IV nel 1245, in cui
fu inclusa la rinunzia al trono), con punte di moderazione di fronte alle quali
anche Bernabò Silorata si interroga: « E difficile dare una spiegazione a
quella resa totale, così come è difficile credere che un uomo come Federico
avrebbe potuto rinunciare tanto facilmente al suo grande capolavoro. Possiamo
solo tentare di intuire i pensieri di Federico in quel momento cruciale della
sua vita: voleva salvare l’Impero affidandolo nelle mani del figlio «. Forse fu
reso un po’ fatalista dalla dimestichezza con la mentalità araba, o forse era
sinceramente preoccupato di non sospingere la lotta contro il Papato fino
all’estremo limite, dando il via ad una guerra senza quartiere dall’esito
incerto, comunque pericolosa per l’integrità dell’Impero. Fatto sta che la
temperanza federiciana pare inusuale per un sovrano a più riprese bollato come
eretico, Anticristo, sentina di ogni vizio.
Al di là dell’estenuante prova sostenuta con quattro Papi, con i Comuni
lombardi e con i feudatari siciliani e tedeschi, al di là del dualismo con le
pretese temporali dei successori di Pietro, Federico Il ha comunque lasciato
alcune tracce nella storia che sono ditale portata da farne in ogni caso un unicus. Dalle Costituzioni di Melfi,
monumento della legislazione medievale cui non furono estranei influssi tanto
normanni quanto bizantini (questi ultimi nella figura del sovrano despota
assoluto ma benevolo e saggio), parte una serie di indicazioni
sorprendentemente moderne, come la proclamata intenzione di preferire la
prevenzione dei delitti alla loro repressione o l’istituzione di una specie di
previdenza sociale per i sudditi indigenti. Ma da esse muovono anche suggestioni
prettamente tradizionali sulla natura divina e trascendente del potere, che
possono essere riassunte da quei particolare statuto giuridico chiamato invocatio nominis Imperatoris, un
appello aperto a tutti al nome sovrano, di per sé riconosciuto come valido per
assicurare “alla voce” l’intimidazione del reo e l’ottenimento di giustizia:
istituto arcaicissimo nei suoi risvolti magico-sacrali. Le Costituzioni
melfitane segnano in ogni caso il trionfo di una concezione centralista,
rivolta all’ecumene imperiale pur in una realtà disarmonica e spezzettata dai
forti poteri feudali ancora in grado di opporre resistenze tenaci.
Ma la traccia di Federico è anche altrove: nella fondazione dell’Università
di Napoli, pensata in opposizione a quella ecclesiastica di Bologna, oppure
nella promulgazione della Bolla d’oro di Rimini (1226), la carta che, elevando
il Gran Maestro dell’Ordine Teutonico a principe dell’Impero in qualità di
sovrano territoriale, sta a fondamento della Prussia germanica, di cui
costituisce il primo atto storico. Conoscitore di cinque lingue, circondato da
dotti di ogni razza, scrittore, padre di una pletora di figli, legittimi e
illegittimi, divulgatore di quel trobarclus
provenzale che ne sollecitò certe non chiarite simpatie per i Fedeli d’Amore,
Federico li ebbe in più la tempra guerriera del nonno Barbarossa e la rara
capacità di saper scegliere i collaboratori e gli alleati. E ne ebbe di
prestigiosi: il dantesco Pier delle Vigne, massimo giurista del tempo, il Gran
Maestro Hermann von SaIza, diplomatico, lo statista Taddeo di Sessa, fino al famigerato
ma fedele Ezzelino da Romano. Federico, che, come scrive Bernabò SiIorata, «
sarebbe potuto diventare fondatore dello Stato italico » se non fosse stato
intralciato dal malconcepito cesaropapismo romano, morì all’apice dei potere e
praticamente invitto. Scomparso lui, alla metà del secolo, l’impero imboccò la
strada di un lento tramonto, e invano Dante ed altri ingegni dopo di lui
scrutarono l’orizzonte della storia per indovinare un suo erede. il « figlio
del vento di Svevia» non ebbe continuatori politici della sua portata, e il
messaggio di un Impero continentale rimase solo un sogno generoso.
Luca Leonello Rimbotti
Da Diorama Letterario - Firenze