giovedì 19 marzo 2009

Il Rapimento di Proserpina. La guerra dei Goti

Claudiano
Il Rapimento di Proserpina. La guerra dei Goti
Rizzoli, Milano, 1981

Chi era Claudio Claudiano? Il suo nome, notissimo e amatissimo dai poeti del nostro Rinascimento, non dice più nulla ai lettori di oggi. Era solo un retore, che continuava a cesellare favole antiche mentre (era nato in Egitto verso il 370) l’Impero romano si lacerava, il Cristianesimo conquistava gli animi e i Goti stavano per saccheggiare Roma? Come compresero Coleridge e Huysmans, Claudiano era invece il primo e il più inquietante dei «poeti moderni», I suoi «esametri risplendenti e sonori», che creano l’epiteto con un colpo secco di martello tra fasci di scintille, sono soltanto degli schermi, dietro i quali si avverte l’erompere terribile del mondo dell’Abisso, della Notte, della Tenebra: il mondo di Plutone, che nel «Rapimento di Proserpina» minaccia la luce. Claudiano ne ha terrore e ne è affascinato; e si salva orchestrando con incantevole freddezza i suoi prodigi frondosi e barocchi, le sue meravigliose variazioni alessandrine.

«li rapimento di Proserpina» (scritto fra il 396 e il 402) e «La guerra dei Goti» Iscritta dopo la vittoria di Stilicone sui Goti) sono stati tradotti da Franco Serpa, che ha anche scritto l’introduzione e apprestato il corredo critico.

Dalla quarta di copertina

Ideologia e politica nel mondo di Disney

Ariel Dorfman, Armand Mattelart
Come leggere Paperino
Ideologia e politica nel mondo di Disney
Feltrinelli, Milano, 1980

Apparentemente ci sono territori dell’umano in cui la lotta di classe non esiste. Per esempio l’infanzia, i cui attributi classici sono purezza, ingenuità. Come leggere Paperino dimostra il contrario:
nulla sfugge all’ideologia. Nulla, quindi, sfugge alla lotta di classe. li libro tende a smascherare i meccanismi con cui l’ideologia borghese si riproduce attraverso i personaggi di Disney. L’analisi indaga sulla struttura dei fumetti, mostra l’universo di doppi significati in essi nascosti, che svolgono un ruolo fondamentale per la comprensione del messaggio. Paperino è la metafora del pensiero borghese che penetra insensibilmente nei bambini attraverso tutti i canali di formazione della struttura mentale. È la manifestazione simbolica di una cultura che incentra tutti i suoi significati sull’oro e lo rende innocente staccandolo dalla sua funzione sociale. Il denaro non vi appare come elemento di rapporto tra il capitalista e la società; l’ansia di possederlo di Paperone è solo una perversione individuale. Sulla stessa linea, tutti i personaggi disneyani emergono come individualità psicologiche e non come prodotti di rapporti. Accanto all’avaro esistono l’inventore, il fortunato, l’ingenuo. Sono comportamenti astratti e non funzioni concrete di una realtà sociale. Siamo ormai lontani dall’aneddoto Disney: siamo nel campo della politica. Non per nulla la stampa mondiale si è largamente interessata a questo libro e l’Associated Press, parlandone istericamente, ne ha citato questa frase: “Finché la sua figura sorridente passeggerà innocentemente per le strade del nostro paese, finché Paperino sarà potere e rappresentazione collettiva, l’imperialismo e la borghesia potranno dormire sonni tranquilli.

Ariel Dorfman, critico letterario, è nato in Cile neI 1942. Si occupa particolarmente di letteratura per l’infanzia. Armand Mattelart, sociologo, è nato in Belgio nel 1936 e si è trasferito in Cile nel 1962. Ha scritto molti libri sull’imperialismo culturale nei paesi sottosviluppati e sui mass media.

Dalla quarta di copertina

giovedì 12 marzo 2009

I nomadi del mare

Jean Raspail
I nomadi del mare
SugarCo, Milano 1987, pagg. 269

Di un raid automobilistico che, agli inizi degli anni Cinquanta, lo condusse dalla Terra del Fuoco all’Alaska, Jean Raspail ha conservato un ricordo ossessionante:
«Attraversando lo stretto di Magellano, ho incontrato, nello spazio di un’ora, sotto la neve, nel vento, uno degli ultimi canotti degli Alakaluf». Di questo incontro coi superstiti di un popolo respinto ai confini del mondo, l’autore di Le camp des saints e di Moi, Antoine de Tounens, roi de Patagonie ha fatto il lievito del suo ultimo romanzo, Qui se souvient des hommes..., ora tradotto in italiano con il titolo I nomadi del mare.
Nello stesso periodo, un etnologo diventato poi suo amico, José Emperaire, aveva voluto conoscere la vita che ancora conducevano, all’estremità del mondo australe, quegli Indiani Alakaluf la cui razza si è in seguito estinta. Avrebbe passato fra di loro due anni, dal 1951 al 1953, sotto le loro capanne di pelle di foca, sulla costa orientale della grande isola di Wellington. li suo libro, pubblicato nel 1955 da Gallimard con lo stesso titolo ora impiegato dall’editore italiano di Raspail (Les Nomades de la mer), non è mai stato riedito. José Emperaire era destinato a trovare la morte il 12 dicembre 1958, nello stesso stretto di Magellano, mentre, come ricorda Jean Raspail nella commovente dedica del suo libro, ~~cercava di ricostruire la storia di quel popolo disprezzato sulla base di vestigia vecchie cento secoli». L’opera più recente di Jean Raspail vuoi essere un «romanzo semplice», vale a dire il contrario di un «romanzo a tesi». Eppure, I nomadi del mare pone il problema dei popoli che rifiutano il modello occidentale senza peraltro trovare la via d’uscita che permetta loro di evolvere senza rinnegare la propria cultura. Il destino tragico degli Alakaluf ispira a Jean Raspail pagine la cui emozione non si distacca mai da una straordinaria dignità. Ma Raspail non è uomo da cedere al mito del «buon selvaggio». Ha troppo viaggiato, e troppo amato i popoli che ha incontrato, per abbandonarsi a questo genere di illusioni. Non è neppure uomo incline a coltivare sensi di colpa di qualsiasi tipo. Si fa carico, con lucidità e coraggio, della storia prometeica dell’Occidente, anche in ciò che essa ha di più discutibile ai nostri occhi. E non ha paura di esprimere la sua ammirazione per la fantastica energia, la volontà di potenza di quegli esploratori rinascimentali che, nel solco di Magellano, portarono con sè i germi della distruzione degli Alakaluf, nella fattispecie la Croce e la tecnica...
La ricchezza umana de I nomadi del mare risiede tutta proprio in questa ambiguità. Tratteggiando il dramatico confronto fra Alakaluf ed europei con una imparzialità notevole, Jean Raspail fa sfoggio di una sensibilità pudica ed inquieta, nemica delle certezze ideologiche. Non ci sono né buoni né cattivi (salvo uno) ne I nomadi del mare. Solamente uomini, e soprattutto una terribile incomprensione. Ciononostante, il lettore non potrà impedirsi di pensare che il confronto sarebbe stato diverso, se il virus universalista non avesse infettato l’Occidente... E che se non sapranno opporre un’alternativa al nuovo virus che giunge oggi a loro da oltre-Atlantico, gli europei potrebbero davvero subire a loro volta la sorte dei «nomadi del mare».
(…)
da Diorama Letterario, gennaio 1988, pagina 25

mercoledì 11 marzo 2009

Ma Aristotele non viene dall'Islam

Il Sole 24 Ore, 04/05/2008
Ma Aristotele non viene dall'Islam
Uno studioso francese sostiene che il pensiero greco classico è arrivato dai cristiani d'Oriente. E gli esperti si dividono
Marco Filoni


di Marco Filoni A prima vista sembra uno dei tanti "casi" editoriali. Un affaire francese, finito però sui giornali di mezzo mondo. Del resto vale sempre la vecchia regola non scritta: bene o male, l'importante è che se ne parli. Così un dotto saggio storico, che normalmente verrebbe letto da qualche decina di specialisti, in poche settimane moltiplica le vendite e vede schierarsi su due fronti detrattori e appassionati difensori. La cosa si complica visto il tema fondamentale che investe: ovvero le radici dell'Europa e della sua civilizzazione. Tutto nasce con un volume di Sylvain Gouguenheim. Professore di storia medievale a Lione, specialista di mistica renana e cavalieri teutonici, ha mandato in libreria Aristote au Mont Saint-Michel. Les racines grecques de l'Europe chrétienne, per l'editore Seuil. La tesi, banalmente riassunta, suona più o meno così: il debito che l'Occidente cristiano ha nei confronti della civilizzazione musulmana è stato enfatizzato in maniera impropria. Al contrario, la scoperta e la trasmissione del pensiero greco classico si deve ai cristiani d'Oriente. L'ipotesi centrale è infatti che la cristianità medievale ha avuto una conoscenza diretta del sapere greco, poiché le relazioni fra mondo latino e Impero bizantino sarebbero ben più importanti di quanto le fonti disponibili hanno finora lasciato supporre. In particolare Gouguenheim si sofferma sulla figura di Giacomo da Venezia, vescovo che visse a Costantinopoli poi monaco all'abbazia di Mont Saint-Michel: egli tradusse gran parte delle opere aristoteliche dal greco al latino all'inizio del XII secolo, cioè decenni prima che comparissero le versioni arabe nella Spagna dei Mori. La conclusione è semplice: la storia della cultura europea deve davvero poco all'Islam, mentre le sue radici risiedono nella cristianità. Se l'audacia della tesi è stata elogiata da due importanti supplementi culturali francesi (>>Le Monde des livres<<>>Figaro littéraire<<), molti illustri storici e filosofi medievalisti si sono mobilitati contro. Sono nate petizioni firmate da studiosi prestigiosi, e in pochi giorni le critiche a Gouguenheim si sono moltiplicate. Anzitutto sulle presunte "scoperte", che in realtà ripropongono un dibattito già avvenuto a cavallo fra XIX e XX secolo (l'importanza di Giacomo da Venezia e dell'abbazia di Mont Saint-Michel è stata ampiamente studiata). La ricostruzione sarebbe dunque tutta di seconda mano e incurante della ricerca contemporanea che parla di translatio studiorum; al punto che il titolo stesso del libro è ricalcato da un saggio di Coloman Viola del 1967! Nonostante il libro contenga elementi incontestabili, parlare di un >>mondo cristiano medievale<<>>avrebbe seguito un identico cammino anche in assenza di qualsiasi legame con il mondo islamico<<. Alcuni studiosi, come Alain de Libera, hanno denunciato l'aspetto ideologico delle ricerche di Gouguenheim. È infatti nell'ultimo capitolo che egli sembra voler postulare, in maniera un po' caricaturale, la contrapposizione fra un Oriente islamico limitato dai principi coranici e un Occidente cristiano tutto orientato verso la razionalità. E la denuncia di un pamphlet tutt'altro che innocente viene anche dalla scoperta che ampie parti del libro erano state pubblicate mesi fa su >>Occidentalis<<, un sito di >>islamo-vigilanza<<>>minaccia fascista islamica<<. Nasce allora il dubbio che il vero scopo del libro sia quello che rivela, magari inconsapevolmente, l'entusiasta recensore del >>Figaro<<: >>Ci congratuliamo con Gouguenheim per aver avuto il coraggio di ricordare che vi fu un crogiolo cristiano medievale, frutto delle eredità di Atene e di Gerusalemme. Quando l'Islam non aveva ancora proposto i propri saperi agli occidentali, è stato questo incontro, al quale si deve aggiungere il lascito romano, che come ci dice Benedetto XVI "ha creato l'Europa e resta il fondamento di ciò che, a ragione, chiamiamo Europa"<<.

Le tesi provocatorie di Sylvain Gouguenheim in un libro

La Repubblica 11.3.09
Le tesi provocatorie di Sylvain Gouguenheim in un libro
Aristotele e l’islamofobia
di Franco Volpi

Alla sua uscita in Francia il libro di Sylvain Gouguenheim appena tradotto con il titolo Aristotele contro Averroè (Rizzoli, pagg. 195, euro 16) ha sollevato un polverone. Non solo stroncature, ma addirittura due petizioni: una pubblicata da Libération, che raduna le firme di storici e intellettuali illustri, tra cui Carlo Ginzburg; un´altra sottoscritta da circa duecento docenti e studenti dell´École Normale Supérieure di Lione, dove l´autore insegna Storia medievale. Nel frattempo, sull´«affaire Aristote» c´è un´intera sitografia.
La ragione dello scandalo sta nella provocatoria tesi che Gouguenheim avanza circa una vexata quaestio: chi trasmise alla cristianità latina il patrimonio della filosofia e della scienza greco-antica? La storiografia tradizionale non ha dubbi: il merito va ascritto agli arabi, che svolsero una preziosa opera di mediazione diffondendo in Occidente gran parte del sapere antico, in particolare il corpus degli scritti di Aristotele, che fu tradotto dal greco al siriaco, dal siriaco all´arabo e dall´arabo al latino. Una tradizione araba racconta addirittura che il «maestro primo» � diventato in Dante il «maestro di color che sanno» � apparve in sogno al califfo al-Ma´mûn, che nell´830 fondò a Bagdad la «Casa della sapienza», uno dei centri più importanti per la traduzione dei testi greci.
Gouguenheim contrappone una diversa ricostruzione. Egli sostiene che il contatto con la filosofia e la scienza greche fu ristabilito ben prima dell´arrivo degli arabi ad opera di eruditi cristiani, latini, siriani e greco-bizantini. In particolare, assegna un ruolo decisivo ai monaci dell´abbazia di Mont-Saint-Michel, capeggiati da Giovanni Veneto, che già agli inizi del XII secolo, dunque circa mezzo secolo prima degli arabi, tradussero quasi tutto Aristotele.
Dietro un´erudizione apparentemente innocua, si nasconde un «negazionismo» pesante, cioè la tesi che l´Occidente cristiano non dovrebbe nulla agli arabi. In certi passaggi Gouguenheim lascia addirittura intendere che la filosofia e la scienza parlano in greco e in latino, mentre la cultura araba, già per ragioni linguistiche, risulterebbe «handicappata». Se si aggiungono i ringraziamenti che egli rivolge a intellettuali di destra, come René Marchand, non è difficile capire perché i firmatari lo hanno attaccato con veemenza. L´accusa è che le sue tesi fomentano lo scontro di civiltà, se non addirittura l´islamofobia.

sabato 7 marzo 2009

Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio

Liberazione 5.3.09
A cent'anni dalla nascita un convegno ricorda il grande studioso. A inaugurare i lavori il presidente Napolitano
Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio
di Alberto Burgio

Da domani parte il convegno di tre giorni dedicato a Eugenio Garin. Dal Rinascimento all'Illuminismo" a Firenze (Palazzo Vecchio e Palazzo Strozzi). A inaugurare i lavori anche Michele Ciliberto (presidente dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento). In anticipazione uno stralcio della relazione di Alberto Burgio "Rousseau: una teodicea post-cristiana"


In un testo molto caro a Garin, Il problema Jean-Jacques Rousseau (1932), Cassirer scrive che Kant «attribuisce a Rousseau nulla di meno che il merito di avere risolto il problema della teodicea». Tradotto in termini storici (etici, sociali, politici), il problema del male (dell'errore, della violenza, dell'ingiustizia, dell'egoismo distruttivo) non ha più nulla di trascendente; si configura come risultato del cattivo uso della libertà, quindi del pervertimento della ragione: della sua scissione dal sentimento morale e della sua conseguente regressione ad astratto raziocinio, a mero intelletto riflettente. 
Per contro, la ricomposizione della razionalità nella sua pienezza e concretezza (ragione e sentimento morale, raison e conscience ) restituisce le condizioni per il buon uso della libertà, nel segno dell'amore dell'ordine e del bello, quindi dell'armonia, della giustizia e dell'unità dell'uomo con se stesso e degli uomini tra loro nella Cité .
Tutto questo Garin riprende riconoscendone il merito all'«illuminante saggio» di Cassirer (quindi a Kant), ma anche ad altri protagonisti della rinascita rousseuaiana negli anni Sessanta (sulla scorta del bicentenario del Contrat e dell' Émile ), a cominciare da Derathé, Starobinski e Gouhier, e, per quel che riguarda Italia, da Paolo Casini. Garin tiene a segnalare altresì un altro tema che si pone lungo questa linea, ma la sviluppa ulteriormente (sempre nel segno della storicità e dell'immanenza assoluta quale sfondo della possibile unità dell'esperienza e del pensiero). È un tema importante, che serve a leggere meglio Rousseau, ma illumina anche la prospettiva dello storico che ne studia l'opera: parla delle sue fonti e, forse, delle sue esigenze più propriamente teoriche (in qualche modo legate alla sua stessa vicenda biografica). Garin vede che in tanto la questione del male può essere (da Rousseau) sottratta all'ipoteca della teologia e riportata sul terreno della storia (quindi sotto la piena giurisdizione dell'uomo e della sua azione razionale e responsabile) in quanto (per Rousseau) semplicemente la natura umana non esiste: l'umano è in tutto e per tutto storico, frutto di artificio e di scelta.
È interessante: proprio in questi anni Garin si trova a svolgere osservazioni del tutto analoghe a proposito di un altro suo autore: il Giovanni Pico del De hominis dignitate , del quale mette in risalto una tesi - l'idea, appunto, «che una natura umana non c'è, […] che il […] destino [dell'uomo] è libero atto di scelta», cha la sola "natura" di cui si possa parlare a proposito dell'uomo è «progetto e non destino» - in tutto simile a quella che scopre in Rousseau.
E si potrebbe aggiungere che Garin legge in Rousseau un tema che a sua volta Gramsci aveva posto in evidenza in Marx, ritenendolo essenziale ai fini della radicalità della sua prospettiva critica: «l'innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli - così si esprime Gramsci nei Quaderni - è la dimostrazione che non esiste una "natura umana" fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto […] come un organismo in isviluppo».
Vale la pena di riportare il passaggio dell' Introduzione agli Scritti politici di Rousseau nel quale Garin introduce questo elemento, per la forza con cui enuncia l'argomento e ne segnala l'importanza: «Dio non entra, in nessun modo, né nella colpa né nella sventura dell'uomo. Solo che, e questo è il passo decisivo che non emerge né in Kant né in Cassirer, nella prospettiva di Rousseau Dio non entra nel peccato originale, non tanto perché è dalla società che ha origine il male, quanto perché dalle mani di Dio neppure l'uomo è uscito. L'uomo del male e del bene, delle leggi e del diritto, del linguaggio e della cultura, è l'uomo della società, indisgiungibile dalla società: e l'uomo della società è l'homme de l'homme ». Insomma, la geniale soluzione del problema consiste (e Garin lo dichiara con la stessa veemenza con la quale nei primi anni della sua ricerca aveva affermato la centralità del divino) nella totale, assoluta negazione (o estromissione) di Dio in quanto l'uomo di Rousseau è creatore di se stesso.
In questo senso Garin rileva come Rousseau si ponga, trascrivendolo «in termini tutti mondani» (cioè affidandolo a un «rinnovamento» degli uomini e dei loro rapporti reciproci), proprio «quello che era stato per il Cristianesimo il problema della salvezza» - precisamente come si pone, «ridotto in termini integralmente umani», il problema della teodicea e dell'origine del male e del peccato. Nella religione rousseauiana dell'immanenza (una «religione umana e sociale»), la storia è ri-creazione, metamorfosi (de-naturazione e generazione di una natura rinnovata): autopoiesi umana (anche questo, a ben guardare, un tema gramsciano, che circola in molte pagine del quaderno su Americanismo e fordismo ). Per Garin questo riorientamento della prospettiva morale e politica (e persino ontologica) in una chiave di radicale storicità rappresenta la conseguenza più rilevante della secolarizzazione rousseauiana della teodicea.
Storia e politica, dunque, come auto-creazione. Massima libertà e massima responsabilità: termini ricorrenti, come in una endiadi, già nella prima fase della ricerca gariniana, ma ora declinati in univoco riferimento all'orizzonte del mondo storico e dell'agire politico. Un tema ambivalente: nel quale è inscritta anche la solitudine dell'uomo; ma che per il momento Garin declina (ancora) in positivo: di Rousseau mette in risalto l'idea del possibile riscatto, della palingenesi che si compie attraverso l'«alienazione totale» imposta dal contratto e attraverso la «frattura assoluta rispetto al divenire storico» che conduce a un nuovo inizio nel segno dell'armonia e della piena autonomia del corpo sociale. [...]
Garin rilegge Rousseau e si sofferma sulla sua opera (nel testo più importante che ha prodotto sull'argomento) in un momento della sua vita in cui è ancora fiducioso nella possibilità di trovare una via d'uscita dalla rovina, dalla violenza e dall'assenza di senso dell'esistenza. Come Gramsci, anche se, certo, con minore impatto, Rousseau - per la sua «alta e vigorosa ispirazione morale» - è un'àncora. L'importanza di Rousseau consiste nell'indicare una strada per ritrovare (in realtà, per costruire ex novo ) l'unità della persona e della compagine umana: il suo è un pensiero della libertà nel segno dell'operare costruttivo; un pensiero della politica e della storia inscritto nell'umanesimo reale e integrale che Garin viene elaborando sulla scia di Gramsci in una temperie storica (civile e politica) che ancora gli pare consentire uno sguardo fiducioso sul futuro, la fiducia nell'«azione riformatrice della volontà» e della razionalità individuale e collettiva (morale, etica e politica).
Se questo è vero, c'è qui un elemento drammatico: alla fine degli anni Sessanta Garin sembra rivolgersi a Rousseau come per un estremo tentativo: per tenere aperta una prospettiva che sta invece per chiudersi; di lì a poco (già nel corso degli anni Settanta) l'equilibrio dinamico e costruttivo che aveva sostenuto la sua attività nella fase dell'Umanesimo civile si incrinerà, sino a spezzarsi del tutto, per lasciare il campo a una crisi profonda: si affermerà allora una Stimmung segnata dal disincanto e dal nichilismo: la vita parrà senza senso e senza significato, un gioco degli dei, del cui capriccio l'uomo è in balia.
Allora non vi sarà più possibile unità, né ricomposizione: esistere significherà dibattersi in un caos di frammenti. A quel punto Rousseau, nonostante la sua «fede operosa», anzi, forse proprio in ragione di essa, non avrà più nulla da dire.