Liberazione 5.3.09
A cent'anni dalla nascita un convegno ricorda il grande studioso. A inaugurare i lavori il presidente Napolitano
Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio
di Alberto Burgio
Da domani parte il convegno di tre giorni dedicato a Eugenio Garin. Dal Rinascimento all'Illuminismo" a Firenze (Palazzo Vecchio e Palazzo Strozzi). A inaugurare i lavori anche Michele Ciliberto (presidente dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento). In anticipazione uno stralcio della relazione di Alberto Burgio "Rousseau: una teodicea post-cristiana"
In un testo molto caro a Garin, Il problema Jean-Jacques Rousseau (1932), Cassirer scrive che Kant «attribuisce a Rousseau nulla di meno che il merito di avere risolto il problema della teodicea». Tradotto in termini storici (etici, sociali, politici), il problema del male (dell'errore, della violenza, dell'ingiustizia, dell'egoismo distruttivo) non ha più nulla di trascendente; si configura come risultato del cattivo uso della libertà, quindi del pervertimento della ragione: della sua scissione dal sentimento morale e della sua conseguente regressione ad astratto raziocinio, a mero intelletto riflettente.
Per contro, la ricomposizione della razionalità nella sua pienezza e concretezza (ragione e sentimento morale, raison e conscience ) restituisce le condizioni per il buon uso della libertà, nel segno dell'amore dell'ordine e del bello, quindi dell'armonia, della giustizia e dell'unità dell'uomo con se stesso e degli uomini tra loro nella Cité .
Tutto questo Garin riprende riconoscendone il merito all'«illuminante saggio» di Cassirer (quindi a Kant), ma anche ad altri protagonisti della rinascita rousseuaiana negli anni Sessanta (sulla scorta del bicentenario del Contrat e dell' Émile ), a cominciare da Derathé, Starobinski e Gouhier, e, per quel che riguarda Italia, da Paolo Casini. Garin tiene a segnalare altresì un altro tema che si pone lungo questa linea, ma la sviluppa ulteriormente (sempre nel segno della storicità e dell'immanenza assoluta quale sfondo della possibile unità dell'esperienza e del pensiero). È un tema importante, che serve a leggere meglio Rousseau, ma illumina anche la prospettiva dello storico che ne studia l'opera: parla delle sue fonti e, forse, delle sue esigenze più propriamente teoriche (in qualche modo legate alla sua stessa vicenda biografica). Garin vede che in tanto la questione del male può essere (da Rousseau) sottratta all'ipoteca della teologia e riportata sul terreno della storia (quindi sotto la piena giurisdizione dell'uomo e della sua azione razionale e responsabile) in quanto (per Rousseau) semplicemente la natura umana non esiste: l'umano è in tutto e per tutto storico, frutto di artificio e di scelta.
È interessante: proprio in questi anni Garin si trova a svolgere osservazioni del tutto analoghe a proposito di un altro suo autore: il Giovanni Pico del De hominis dignitate , del quale mette in risalto una tesi - l'idea, appunto, «che una natura umana non c'è, […] che il […] destino [dell'uomo] è libero atto di scelta», cha la sola "natura" di cui si possa parlare a proposito dell'uomo è «progetto e non destino» - in tutto simile a quella che scopre in Rousseau.
E si potrebbe aggiungere che Garin legge in Rousseau un tema che a sua volta Gramsci aveva posto in evidenza in Marx, ritenendolo essenziale ai fini della radicalità della sua prospettiva critica: «l'innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli - così si esprime Gramsci nei Quaderni - è la dimostrazione che non esiste una "natura umana" fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto […] come un organismo in isviluppo».
Vale la pena di riportare il passaggio dell' Introduzione agli Scritti politici di Rousseau nel quale Garin introduce questo elemento, per la forza con cui enuncia l'argomento e ne segnala l'importanza: «Dio non entra, in nessun modo, né nella colpa né nella sventura dell'uomo. Solo che, e questo è il passo decisivo che non emerge né in Kant né in Cassirer, nella prospettiva di Rousseau Dio non entra nel peccato originale, non tanto perché è dalla società che ha origine il male, quanto perché dalle mani di Dio neppure l'uomo è uscito. L'uomo del male e del bene, delle leggi e del diritto, del linguaggio e della cultura, è l'uomo della società, indisgiungibile dalla società: e l'uomo della società è l'homme de l'homme ». Insomma, la geniale soluzione del problema consiste (e Garin lo dichiara con la stessa veemenza con la quale nei primi anni della sua ricerca aveva affermato la centralità del divino) nella totale, assoluta negazione (o estromissione) di Dio in quanto l'uomo di Rousseau è creatore di se stesso.
In questo senso Garin rileva come Rousseau si ponga, trascrivendolo «in termini tutti mondani» (cioè affidandolo a un «rinnovamento» degli uomini e dei loro rapporti reciproci), proprio «quello che era stato per il Cristianesimo il problema della salvezza» - precisamente come si pone, «ridotto in termini integralmente umani», il problema della teodicea e dell'origine del male e del peccato. Nella religione rousseauiana dell'immanenza (una «religione umana e sociale»), la storia è ri-creazione, metamorfosi (de-naturazione e generazione di una natura rinnovata): autopoiesi umana (anche questo, a ben guardare, un tema gramsciano, che circola in molte pagine del quaderno su Americanismo e fordismo ). Per Garin questo riorientamento della prospettiva morale e politica (e persino ontologica) in una chiave di radicale storicità rappresenta la conseguenza più rilevante della secolarizzazione rousseauiana della teodicea.
Storia e politica, dunque, come auto-creazione. Massima libertà e massima responsabilità: termini ricorrenti, come in una endiadi, già nella prima fase della ricerca gariniana, ma ora declinati in univoco riferimento all'orizzonte del mondo storico e dell'agire politico. Un tema ambivalente: nel quale è inscritta anche la solitudine dell'uomo; ma che per il momento Garin declina (ancora) in positivo: di Rousseau mette in risalto l'idea del possibile riscatto, della palingenesi che si compie attraverso l'«alienazione totale» imposta dal contratto e attraverso la «frattura assoluta rispetto al divenire storico» che conduce a un nuovo inizio nel segno dell'armonia e della piena autonomia del corpo sociale. [...]
Garin rilegge Rousseau e si sofferma sulla sua opera (nel testo più importante che ha prodotto sull'argomento) in un momento della sua vita in cui è ancora fiducioso nella possibilità di trovare una via d'uscita dalla rovina, dalla violenza e dall'assenza di senso dell'esistenza. Come Gramsci, anche se, certo, con minore impatto, Rousseau - per la sua «alta e vigorosa ispirazione morale» - è un'àncora. L'importanza di Rousseau consiste nell'indicare una strada per ritrovare (in realtà, per costruire ex novo ) l'unità della persona e della compagine umana: il suo è un pensiero della libertà nel segno dell'operare costruttivo; un pensiero della politica e della storia inscritto nell'umanesimo reale e integrale che Garin viene elaborando sulla scia di Gramsci in una temperie storica (civile e politica) che ancora gli pare consentire uno sguardo fiducioso sul futuro, la fiducia nell'«azione riformatrice della volontà» e della razionalità individuale e collettiva (morale, etica e politica).
Se questo è vero, c'è qui un elemento drammatico: alla fine degli anni Sessanta Garin sembra rivolgersi a Rousseau come per un estremo tentativo: per tenere aperta una prospettiva che sta invece per chiudersi; di lì a poco (già nel corso degli anni Settanta) l'equilibrio dinamico e costruttivo che aveva sostenuto la sua attività nella fase dell'Umanesimo civile si incrinerà, sino a spezzarsi del tutto, per lasciare il campo a una crisi profonda: si affermerà allora una Stimmung segnata dal disincanto e dal nichilismo: la vita parrà senza senso e senza significato, un gioco degli dei, del cui capriccio l'uomo è in balia.
Allora non vi sarà più possibile unità, né ricomposizione: esistere significherà dibattersi in un caos di frammenti. A quel punto Rousseau, nonostante la sua «fede operosa», anzi, forse proprio in ragione di essa, non avrà più nulla da dire.