Corriere della Sera 14.6.08
La seconda parte dell'antologia dedicata alla religiosità medievale: grandi Passioni che si esprimono nella contemplazione
L'ossessione della carne nell'amore cristiano
I trattati del XII secolo svelano il desiderio celeste
di Giorgio Montefoschi
«Dio sa bene che in te non ho mai cercato altro che te solo; ho desiderato esclusivamente te», scrive Eloisa ad Abelardo, nella sua lettera più disperata e gonfia d'amore. Più o meno negli stessi anni, in un capitolo della Expositio super Cantica Canticorum, il Cantico dei Cantici, e cioè il libro erotico per eccellenza della Bibbia, con parole che ricordano molto da presso il passo del Fedro in cui Platone descrive la frenetica comunione spirituale e fisica dell'amato e dell'amante, Guglielmo di Saint Thierry così si esprime a proposito del rapporto amoroso dell'anima con Dio: «Lo spirito dell'uomo assapora la dolcezza di un non so che di amato più che pensato, di gustato più che compreso, che rapisce colui che ama. E per un certo tempo, per un'ora, questo non so che penetra l'amante, ne attrae lo slancio, tanto che non più nella speranza, ma quasi nella realtà, gli sembra ormai di vedere con i propri occhi, di tenere e palpare con le proprie mani la sostanza di ciò che si spera riguardo al Verbo della vita». Ed ecco, nel suo sublime I quattro gradi della violenta carità, Riccardo, priore dell'abazia di San Vittore: «Non ti sembra forse di essere colpito al cuore, quando l'infuocato aculeo dell'amore penetra fino in fondo nella mente dell'uomo e trapassa il sentimento, al punto che esso non riesce più in alcun modo a contenere o a dissimulare la vampa del suo desiderio?».
L'anima e il corpo, lo spirito e la carne, partecipando di un legame indissolubile, vengono sì dopo l'amore gratuito di Dio per l'uomo nei Trattati d'amore cristiani del XII secolo (di cui appare in questi giorni il secondo volume, con l'ottima cura di Francesco Zambon, a completare una delle letture più emozionanti che si possano fare nei nostri giorni distratti), ma certamente, e non potrebbe essere altrimenti, proprio in questo rapporto inscindibile, sono al culmine della meditazione vittorina e cistercense che, nell'epoca dei Trovatori e di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra e di Abelardo e Eloisa, volle non escludere le fredde aule dei monasteri e la pace del chiostro dal sentimento che, congiungendo cielo e terra, o rimanendo schiantato sulla terra, sembrava allora dominare l'uomo e il tempo. Semmai, questa meditazione amorosa e mistica fortificò quella pace, temprò l'invisibile fragilità di quelle mura. E produsse testi che sono veri pilastri indistruttibili della cultura cristiana.
Cardinale, nella riflessione cristiana sull'amore — spiega Francesco Zambon — è la dottrina per la quale la creazione dell'uomo è a immagine e somiglianza di Dio, che è Trinità. Tutto parte da lì. Nella mente dell'uomo, o nel suo cuore, o nella sua anima, è impressa una forma che lo rende somigliante a Dio. Carattere fondamentale di questa somiglianza è la libertà: di scegliere fra il bene e il male. Col peccato, l'uomo si è rivolto verso il carnale, il terrestre. Ora, di quella comunione con il suo Creatore, conserva nella memoria un confuso ricordo. Ma, poiché il simile è destinato a tornare al simile, l'uomo vuole ricongiungersi con Dio. Vuole restaurare quella perfetta somiglianza. Vuole di nuovo vedere Dio. Vuole di nuovo essere in Dio, e sentire quella dolce pienezza dalla quale si è distaccato. Vuole sentire, nel suo cuore, l'amore illuminato che esclude ogni altro amore — a cominciare dall'amore carnale: un amore debole, malato, che tuttavia non deve essere soppresso, perché è il primo passo verso la salita all'ultimo grado dell'amore — e non è altro che la carità. «L'amore illuminato — scrive Guglielmo di Saint Thierry — è la carità: la carità è l'amore che viene da Dio, è in Dio e va verso Dio. Anzi, la carità è Dio. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità».
Come fa l'uomo mortale a ricongiungersi a Dio? Nella carità che l'uomo porta impressa nel cuore, scrive ancora Guglielmo, «vi sono due occhi che palpitano sempre in una sorta di naturale tensione dello sguardo per vedere la luce che è Dio: sono l'amore e la ragione». Da sola, la ragione può fare pochissimo: al massimo può vedere Dio soltanto in ciò che non è. Insieme, ragione e amore possono moltissimo. La ragione vivifica l'amore. E l'anima, penetrata da una dolcezza soave, da uno sfinimento che è simile alla morte, a un sonno celeste, è ghermita da un'altra forma di intelligenza che non procede più per immagini o concetti, bensì ha il suo luogo proprio nella spinta amorosa, nella volontà che l'uomo ha di essere attratto da Dio, di conoscere Dio.
Questa conoscenza superiore — già lo scriveva Gregorio di Nissa — è una conoscenza difficile, oscura, avvolta all'inizio nelle tenebre. Anche il luogo in cui avviene, il cuore, è oscuro. «Qualche volta, Signore — scrive Guglielmo — come se io stessi con gli occhi chiusi e la bocca aperta a te, tu mi metti qualcosa nella bocca del cuore: ma non mi è lecito discernere cosa sia. Certo lo deglutisco, qualunque cosa sia, nella speranza della vita eterna. Ma svanisce così in fretta!». Gli fa eco il monaco Ivo: «Il cuore umano è profondo e insondabile: raro è che sia talmente ritirato in sé stesso da riconoscere la parte più intima di sé. Però è lì che i suoi sensi, quando sono rapiti da Dio, stanno meglio con sé stessi: «Proprio quando non sanno dove sono, e intrattengono con Dio un colloquio senza lingua o suono di labbra, da cui ogni estraneo è escluso».
Dio, che ci ha amati per primo e gratuitamente, si deve amare senza misura, e per gradi, dice Bernardo di Chiaravalle. L'ultimo grado dell'amore è quello nel quale, come una goccia si disperde nel vino, come l'aria illuminata diventa luce, l'uomo si annulla in Dio. Prima, però, dovrà accadere che le anime si liberino del tutto dalla nostalgia della carne. E questo potrà avvenire solo quando sarà vinta la morte. «Quando la luce eterna avrà invaso da ogni parte e posto interamente sotto il suo dominio i territori della notte, al punto da far risplendere anche nei corpi la gloria celeste».
Ecco, di nuovo, la carne. E la sua risurrezione: il dilemma che ci tortura fino alla soglia dell'ultimo grado dell'amore. L'ultimo grado nel quale, Riccardo da San Vittore ci fa trovare l'uomo: Dio che si è fatto uomo, il Cristo. Perché, in quell'ultimo grado in cui l'uomo è stato rapito, l'anima è ormai «perfettamente cotta dal fuoco divino», è molle, piegabile come un ferro nel fuoco. E, in quel momento, non le resterà che essere plasmata secondo il modello di Cristo nella sua umiltà.
Nel Cristo che ha assunto la carne, ha patito, è stato servo dell'uomo, e, col suo amore per l'uomo, ha mostrato l'eccellenza dell'amore.
La seconda parte dell'antologia dedicata alla religiosità medievale: grandi Passioni che si esprimono nella contemplazione
L'ossessione della carne nell'amore cristiano
I trattati del XII secolo svelano il desiderio celeste
di Giorgio Montefoschi
«Dio sa bene che in te non ho mai cercato altro che te solo; ho desiderato esclusivamente te», scrive Eloisa ad Abelardo, nella sua lettera più disperata e gonfia d'amore. Più o meno negli stessi anni, in un capitolo della Expositio super Cantica Canticorum, il Cantico dei Cantici, e cioè il libro erotico per eccellenza della Bibbia, con parole che ricordano molto da presso il passo del Fedro in cui Platone descrive la frenetica comunione spirituale e fisica dell'amato e dell'amante, Guglielmo di Saint Thierry così si esprime a proposito del rapporto amoroso dell'anima con Dio: «Lo spirito dell'uomo assapora la dolcezza di un non so che di amato più che pensato, di gustato più che compreso, che rapisce colui che ama. E per un certo tempo, per un'ora, questo non so che penetra l'amante, ne attrae lo slancio, tanto che non più nella speranza, ma quasi nella realtà, gli sembra ormai di vedere con i propri occhi, di tenere e palpare con le proprie mani la sostanza di ciò che si spera riguardo al Verbo della vita». Ed ecco, nel suo sublime I quattro gradi della violenta carità, Riccardo, priore dell'abazia di San Vittore: «Non ti sembra forse di essere colpito al cuore, quando l'infuocato aculeo dell'amore penetra fino in fondo nella mente dell'uomo e trapassa il sentimento, al punto che esso non riesce più in alcun modo a contenere o a dissimulare la vampa del suo desiderio?».
L'anima e il corpo, lo spirito e la carne, partecipando di un legame indissolubile, vengono sì dopo l'amore gratuito di Dio per l'uomo nei Trattati d'amore cristiani del XII secolo (di cui appare in questi giorni il secondo volume, con l'ottima cura di Francesco Zambon, a completare una delle letture più emozionanti che si possano fare nei nostri giorni distratti), ma certamente, e non potrebbe essere altrimenti, proprio in questo rapporto inscindibile, sono al culmine della meditazione vittorina e cistercense che, nell'epoca dei Trovatori e di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra e di Abelardo e Eloisa, volle non escludere le fredde aule dei monasteri e la pace del chiostro dal sentimento che, congiungendo cielo e terra, o rimanendo schiantato sulla terra, sembrava allora dominare l'uomo e il tempo. Semmai, questa meditazione amorosa e mistica fortificò quella pace, temprò l'invisibile fragilità di quelle mura. E produsse testi che sono veri pilastri indistruttibili della cultura cristiana.
Cardinale, nella riflessione cristiana sull'amore — spiega Francesco Zambon — è la dottrina per la quale la creazione dell'uomo è a immagine e somiglianza di Dio, che è Trinità. Tutto parte da lì. Nella mente dell'uomo, o nel suo cuore, o nella sua anima, è impressa una forma che lo rende somigliante a Dio. Carattere fondamentale di questa somiglianza è la libertà: di scegliere fra il bene e il male. Col peccato, l'uomo si è rivolto verso il carnale, il terrestre. Ora, di quella comunione con il suo Creatore, conserva nella memoria un confuso ricordo. Ma, poiché il simile è destinato a tornare al simile, l'uomo vuole ricongiungersi con Dio. Vuole restaurare quella perfetta somiglianza. Vuole di nuovo vedere Dio. Vuole di nuovo essere in Dio, e sentire quella dolce pienezza dalla quale si è distaccato. Vuole sentire, nel suo cuore, l'amore illuminato che esclude ogni altro amore — a cominciare dall'amore carnale: un amore debole, malato, che tuttavia non deve essere soppresso, perché è il primo passo verso la salita all'ultimo grado dell'amore — e non è altro che la carità. «L'amore illuminato — scrive Guglielmo di Saint Thierry — è la carità: la carità è l'amore che viene da Dio, è in Dio e va verso Dio. Anzi, la carità è Dio. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità».
Come fa l'uomo mortale a ricongiungersi a Dio? Nella carità che l'uomo porta impressa nel cuore, scrive ancora Guglielmo, «vi sono due occhi che palpitano sempre in una sorta di naturale tensione dello sguardo per vedere la luce che è Dio: sono l'amore e la ragione». Da sola, la ragione può fare pochissimo: al massimo può vedere Dio soltanto in ciò che non è. Insieme, ragione e amore possono moltissimo. La ragione vivifica l'amore. E l'anima, penetrata da una dolcezza soave, da uno sfinimento che è simile alla morte, a un sonno celeste, è ghermita da un'altra forma di intelligenza che non procede più per immagini o concetti, bensì ha il suo luogo proprio nella spinta amorosa, nella volontà che l'uomo ha di essere attratto da Dio, di conoscere Dio.
Questa conoscenza superiore — già lo scriveva Gregorio di Nissa — è una conoscenza difficile, oscura, avvolta all'inizio nelle tenebre. Anche il luogo in cui avviene, il cuore, è oscuro. «Qualche volta, Signore — scrive Guglielmo — come se io stessi con gli occhi chiusi e la bocca aperta a te, tu mi metti qualcosa nella bocca del cuore: ma non mi è lecito discernere cosa sia. Certo lo deglutisco, qualunque cosa sia, nella speranza della vita eterna. Ma svanisce così in fretta!». Gli fa eco il monaco Ivo: «Il cuore umano è profondo e insondabile: raro è che sia talmente ritirato in sé stesso da riconoscere la parte più intima di sé. Però è lì che i suoi sensi, quando sono rapiti da Dio, stanno meglio con sé stessi: «Proprio quando non sanno dove sono, e intrattengono con Dio un colloquio senza lingua o suono di labbra, da cui ogni estraneo è escluso».
Dio, che ci ha amati per primo e gratuitamente, si deve amare senza misura, e per gradi, dice Bernardo di Chiaravalle. L'ultimo grado dell'amore è quello nel quale, come una goccia si disperde nel vino, come l'aria illuminata diventa luce, l'uomo si annulla in Dio. Prima, però, dovrà accadere che le anime si liberino del tutto dalla nostalgia della carne. E questo potrà avvenire solo quando sarà vinta la morte. «Quando la luce eterna avrà invaso da ogni parte e posto interamente sotto il suo dominio i territori della notte, al punto da far risplendere anche nei corpi la gloria celeste».
Ecco, di nuovo, la carne. E la sua risurrezione: il dilemma che ci tortura fino alla soglia dell'ultimo grado dell'amore. L'ultimo grado nel quale, Riccardo da San Vittore ci fa trovare l'uomo: Dio che si è fatto uomo, il Cristo. Perché, in quell'ultimo grado in cui l'uomo è stato rapito, l'anima è ormai «perfettamente cotta dal fuoco divino», è molle, piegabile come un ferro nel fuoco. E, in quel momento, non le resterà che essere plasmata secondo il modello di Cristo nella sua umiltà.
Nel Cristo che ha assunto la carne, ha patito, è stato servo dell'uomo, e, col suo amore per l'uomo, ha mostrato l'eccellenza dell'amore.