domenica 22 giugno 2008

Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale

Il Sole 24 Ore Domenica 22.6.08
Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale
Tullio Gregory ricostruisce le elaborazioni filosofiche sul concetto di «natura» nell'Alto Medioevo. Una corrente di pensiero che sarà in crisi nel Seicento con la «caduta del sacro»
di Michele Ciliberto

Speculum naturale si intitola, suggestivamente, questo libro: e va detto che nel titolo esso tematizza con efficacia il nodo di problemi sui quali Tullio Gregory si concentra, svolgendo il filo di una riflessione assai compatta e organica. Quello che gli interessa, in questo volume, è analizzare anzitutto la "rivoluzione scientifica" (è una sua espressione) che si compie tra XII e XIII secolo in Occidente proprio intorno alla concezione della natura, con un netto - e progressivo - distanziamento dalle concezioni di carattere simbolico e allegorico elaborate, sulla scia della patristica, nei secoli dell'Alto medioevo (e a questo proposito Gregory scrive pagine assai efficaci sul tema del "libro" e sul suo complesso - e interessantissimo - modificarsi).
Indicando con precisione la connessione di questo nuovo approccio con fenomeni di ampia portata di ordine sociale ed economico, il volume mostra con acutezza l'emergere e l'imporsi di una nuova concezione della natura - strettamente connessa alla traduzione dei testi di Aristotele e degli arabi che durerà, come egli sottolinea più volte, fino al XVI e XVII secolo, quando essa sarà messa defmitivamente in crisi. È con una lunga spanna della storia del pensiero europeo che questo libro dunque si concentra, con una serie di osservazioni assai fini, tra le quali spiccano quelle sul significato assunto, lungo quei secoli, dall'astrologia nella concezione della natura, dell'uomo e della storia. Credo che sia qui uno dei contributi più importanti del volume. Gregory non si limita, infatti, a sottolineare il peso decisivo delle Meteore aristoteliche ma mostra l'effetto del «generale presupposto della causalità celeste» su ogni piano della realtà, compresa naturalmente la riflessione teologica: «i modi della creazione e gli scenari escatologici, la provvidenza e la libertà umana, la dottrina della conoscenza naturale e profetica, il problema dei temperamenti delle inclinazioni e delle passioni umane, la riflessione sulla storia, sulla successione degli imperi e delle religioni, l'attesa escatologica della Riforma della Chiesa e del trionfo della cristianità alla fine del tempo». L'astrologia - ribadisce Gregory più volte - in questo mondo si configura come una vera e propria "ermeneutica storica", che dà conto di tutti gli aspetti della realtà, sia nel suo corso ordinario che nei momenti di crisi e di trasformazione radicale illuminati, questi ultimi, attraverso la teoria delle "grandi congiunzioni" con cui vengono spiegate nascita e morte delle grandi religioni - da quella ebraica a quella pagana fino a quella cristiana. È una "fonte" significativa, ed è importante averla individuata: Gregory, però - e questo è uno dei punti più interessanti suo lavoro - si preoccupa di illustrare come queste concezioni intrise di necessitarismo si siano variamente, e fecondarnente, intrecciate con posizioni proprie della tradizione cristiana le quali rischiavano di affievolirsi fino a sparire alla luce della nuova concezione dei cieli, e del rapporto tra cieli, tempo e storia. Un solo esempio: secondo Albumasar dopo il cristianesimo (corrispondente alla lex mercurialis), sarebbe sopravvenuta una nuova, e ultima lex, la lex lunae, la quale «significat dubitationem ... ac expoliationem a fide»; ma è proprio questo schema che Ruggero Bacone corregge inserende la figura dell'Anticristo recuperando, da un lato, la "tensione escatologica" e impedendo dall'altro, «la riproposizione della eterna clicità degli eventi, dottrina che pur circolava nel secolo XIII negli ambienti del più rigoroso aristotelismo, come attestano Sigieri di Brabante e la condanna del 1277».
Sono battute del saggio I cieli, il tempo storia, uno dei più belli del volume, nel quale spiccano anche i contributi sullo Spazio come geografia del sacro, sulla Fenomenologia del cadavere e sui rapporti tra Cosmologia biblica e cosmologia cristiana - oltre a quello su Nani sulle spalle di giganti - veramente notevole per erudizione e sapienza espositiva, sulle traduzioni e sul ritorno degli antichi nel Medioevo latino. Sono tutti lavori che mirano a delineare in modi nuovi i «percorsi del pensiero medievale», come recita il sottotitolo del volume. Gregory si sofferma però anche su due altri temi importanti: il rapporto tra pensiero medievale e modernità e la storiografia filosofica sul medioevo tra ottocento e novecento. Sul primo punto è netto: la modernità non si identifica con un processo di secolarizzazione, ma con una "caduta del sacro", a tutti i livelli: dalla concezione dell'uomo (sottratto a ogni forma di primato) a quella della religione (ridotta a impostura), dalla visione della società (colta attraverso lo specchio degli spiriti animali) alla funzione dell'Europa (messa in crisi dalla scoperta del Nuovo mondo e dall'esperienza del "diverso"), fino alla interpretazione dello stesso testo sacro (criticato alla luce della filologia umanistica). Sul secondo tema è altrettanto chiaro: non si può parlare di filosofia medievale, ma di molte filosofie, non di una teologia, ma di molte teologie, tanto da preferire all'uso del termine filosofia quello di "pensiero medievale", anche sotto l'impulso fecondo di Paul Vignaux. Si tratta di una preziosa lezione di metodo, ben applicata nei saggi che costituiscono questo volume, che colpiscono per più ragioni: anzitutto per la salda continuità di una riflessione, come appare chiaro a chi conosce i lavori di Gregory sul platonismo medievale pubblicati negli anni Cinquanta. E poi per l'incessante lavoro di approfondimento al quale continua a sottoporre temi e problemi con cui si è incontrato, per la prima volta,oltre cinquanta anni fa.

Tullio Gregory, «Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale», Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 254, € 35,00.

giovedì 19 giugno 2008

«La guerra dell'Islam contro le donne»

Corriere del Mezzogiorno 18.6.08
Il prezzo del velo
«La guerra dell'Islam contro le donne» nel libro di Giuliana Sgrena
di Rossella Trabace

E' soltanto un simbolo, il velo. Il segno di una sudditanza morale e materiale difficile da smantellare. Anche se le donne musulmane lottano da anni per affrancarsi. «Ho voluto evidenziare proprio questo. Nei paesi arabi esistono movimenti di donne che si battono per i diritti universali, gli stessi per i quali ci siamo battute noi e che ancora oggi - qui da noi - vengono a volte messi in discussione. Insomma, il femminismo nei paesi musulmani non è un fenomeno importato, ma è un movimento che esiste da molti anni. In Egitto risale addirittura agli inizi del 1900».
Certo, la situazione non è omogenea, esistono molte differenze fra quel che succede in Marocco, in Algeria, Tunisia, rispetto, per esempio, a quanto accade in Serbia, Iraq, Arabia Saudita, Iran, Bosnia-Erzegovina. Anche se resta il filo di quella subalternità femminile presente in tracce anche nei paesi più evoluti, come quelli dell'Africa settentrionale. E quello di Giuliana Sgrena è proprio un reportage a tutto campo, che tiene conto anche della situazione nei paesi occidentali nei quali la ricerca dell'integrazione è ormai una necessità. Tutto questo è finito fra le centosessanta pagine di Il prezzo del velo, sottotitolo La guerra dell'Islam contro le donne (Feltrinelli, Milano 2008, euro 13), vincitore del Premio Città di Bari 2008 per la saggistica. Che la stessa autrice verrà oggi a presentare, ospite dell'assessorato comunale alle Culture, nel corso di un incontro che si svolgerà nel pomeriggio (ore 19.30) sulla terrazza superiore del Fortino Sant'Antonio, dove la giornalista del Manifesto dialogherà con l'assessore Nicola Laforgia, con la semiolinguista Patrizia Calefato e con Rosina Basso Lobello, docente di Storia e Filosofia, in un dibattito moderato da Giusi Giannelli, del Centro cultura e documentazione delle donne di Bari.
Lei, la Sgrena, nella redazione esteri del Manifesto si è sempre interessata del mondo arabo, affacciandosi nei teatri di guerra per documentare l'impatto dei conflitti sulla vita della gente comune. E' così che ha conosciuto tante donne, in Algeria come in Marocco, in Afghanistan come in Iraq. E' così che ha scelto di raccontarne la condizione e le battaglie, volendo scalfire prima di ogni cosa quello che definisce il «relativismo culturale» radicato nei paesi europei e soprattutto in Italia, dove il dibattito, dice, è piuttosto «arretrato».
Quali le posizioni?
«C'è una destra che considera tutto quello che succede nel mondo musulmano espressione di una cultura arretrata, quasi selvaggia, e una sinistra per molti versi reticente, che ritiene di valorizzare quelle realtà, quelle culture, senza entrare nel merito, accettando tutto quello che avviene e finendo per giustificare non soltanto l'uso del velo, ma anche altri comportamenti e altre forme di oppressione».
Non è la prima volta che si occupa di questi temi, anni fa aveva già firmato un libro. Qualcosa è cambiato da allora ad oggi?
«Ci sono paesi nei quali non è cambiato nulla. Penso all'Arabia Saudita, dove proprio non c'è traccia di miglioramenti. Lì le donne addirittura non possono guidare, uscire da sole, né decidere alcunché. In altri paesi la situazione è peggiorata notevolmente: in Iraq a causa della guerra, in Palestina per il diffondersi del fondamentalismo... Mentre in Algeria, per esempio, c'e stata una revisione del codice della famiglia. Certo, non sono state accettate tutte le richieste dei movimenti femminili, ma sono state eliminate molte restrizioni. Il paese più avanzato, dal punto di vista dell'uguaglianza fra uomo e donna, è certamente la Tunisia, anche se molte conquiste restano ancora sulla carta».
Mentre è recente, per esempio, il divieto di infibulazione in Egitto.
«Come dicevo, in Egitto c'è una tradizione consolidata di battaglie femministe. Basti pensare che lì hanno avuto la prima donna ministro nel 1956... Da noi Tina Anselmi è stata nominata nel 1976, ben vent'anni dopo».
Se il velo è il simbolo della condizione femminile nei paesi arabi. esiste un velo anche per le donne occidentali?
«Eviterei questo paragone, posso dire però che ci sono due facce della stessa medaglia: nei paesi musulmani il corpo della donna viene nascosto, velato, per evitare ogni provocazione; in Occidente, invece il corpo dela donna viene spogliato. Sono due modi diversi, opposti, di trattare la donna come un oggetto».

sabato 14 giugno 2008

Da Pericle all'Ellenismo Incontri e contaminazioni nel Mediterraneo

La Stampa Tuttolibri 14.6.08
E i bizantini...
Pure i greci non furono mai "puri"
Da Pericle all'Ellenismo Incontri e contaminazioni nel Mediterraneo
di Claudio Franzoni

Poche epoche sanno, come la nostra, che cosa significhi mobilità delle merci, degli uomini, degli schemi culturali; eppure fenomeni analoghi e di non minore portata si sono verificati già molti secoli fa, e in particolare all'interno del Mediterraneo del primo millennio avanti Cristo. È questo uno dei temi che attraversa i due volumi della Storia d'Europa e del Mediterraneo diretta da Alessandro Barbero (Salerno Editrice) dedicati al mondo greco: Grecia e Mediterraneo dall'VIII sec. a. C. all'età delle guerre persiane (pp. 734, 140) e Grecia e Mediterraneo dall'età delle guerre persiane all'Ellenismo (pp. 740, 140), entrambi curati da Maurizio Giangiulio.
Un gruppo che comprende trentadue studiosi e lo stesso curatore compie un lungo percorso che si snoda, per tutti e due i volumi, in tre grandi sezioni, «Contesti e processi», «Eventi», «Società e cultura»; inserti iconografici a colori e cartine affiancano i saggi, ciascuno corredato da una sintetica bibliografia di riferimento.
Nonostante la ricchissima articolazione delle sezioni, l'opera non abbandona affatto l'idea di un racconto storico attento agli avvenimenti; ecco dunque vicende, figure e luoghi familiari anche a chi non abbia una speciale consuetudine con il mondo classico: la colonizzazione, le guerre persiane, la guerra del Peloponneso; Pisistrato, Pericle, Alessandro Magno; Sparta, Atene, la Macedonia. Un percorso di lettura dell'opera può essere dunque quello tradizionale che segue il filo degli eventi, sennonché il loro dipanarsi tende di continuo ad aprirsi geograficamente, verso un quadro sempre più «internazionale» e sempre meno locale; a questo si deve, per fare un solo esempio, l'attenzione alla formazione dell'«impero» fenicio e al ruolo di Cartagine.
Ma è nella prima parte di ciascun volume «Contesti e processi» che gli orizzonti tendono maggiormente ad allargarsi, obbedendo in definitiva alla cornice «europea» dell'intera serie; nel primo volume ecco entrare in scena il mondo etrusco e i popoli italici, ma anche quelle che per lungo tempo sono state guardate come periferie del mondo greco, l'Asia Minore, la Magna Grecia e la Sicilia; nel secondo volume la stessa sezione si apre anche al mondo romano, con una discussione sulle origini di Roma tema quanto mai presente nella letteratura specialistica degli ultimi anni e con un esame della struttura sociale e politica della città-stato in età repubblicana.
Come accade in quest'ultimo caso, dilatare i confini geografici significa anche aprirsi verso problemi più generali: la formazione della civiltà greca, la nascita della polis e, naturalmente, i meccanismi della democrazia ateniese. Particolarmente interessante, in entrambi i volumi, l'approccio alle aree orientali lo spazio tra Iran e Mare Egeo che viene condotto dal punto di vista degli studiosi di iranistica, ribaltando quindi la direzione del consueto sguardo da Occidente; l'area di contatto tra civiltà così distanti, quella greca e quella dei Medi e Persiani, diventa luogo di scontri, ma anche di scambi e di contaminazioni, di cui è spia evidente la molteplicità degli usi linguistici e la sovrapposizione di esperienze culturali.
In queste zone, per così dire, di interfaccia tra civiltà diverse si tocca quasi con mano l'artificiosità dell'idea di una Grecia «pura» e incontaminata, e perciò potenzialmente esemplare; del resto in pressoché tutti i saggi l'attenzione è rivolta proprio agli elementi dinamici che caratterizzano la storia del Mediterraneo antico, e con coerenza vengono rimarcati i processi di trasformazione e di transizione originati da contatti e da interazioni, processi che possono avvenire tanto all'interno delle grandi aree, quanto entro una singola città-stato.
È nella sezione che chiude i libri «Società e cultura» che la complessa dinamica della vita delle città greche viene osservata anche nelle pratiche culturali, sia che si tratti della vita teatrale, della produzione letteraria o della riflessione filosofica; persino la vasta regione dei miti greci, apparentemente così lontana dalla dimensione della storia, viene ricondotta entro le dinamiche delle società, osservandone il «funzionamento» entro la stessa città greca (dove i miti servono anche a costruire l'identità delle singole comunità) e al di fuori della Grecia stessa (i miti legati ai viaggi dei Greci sul mare).

Due imperi, un unico karma geopolitico. Al rinato interesse per quell'interfaccia tra oriente e occidente che fu l'impero ottomano si affianca una sempre maggiore attenzione per l'impero che lo precedette lungo undici secoli nella stessa area del globo: quello bizantino. Nel libro di Judith Herrin «Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario» (Corbaccio, pp. 470, 22,60) la storia bizantina è letta in chiave attualizzante, come indispensabile per comprendere le complesse radici culturali dell'Europa. Mentre Hartmut Leppin si concentra sulla cristianizzazione dell'impero romano d'oriente nell'attento, rigorosissimo volume dedicato al più controverso dei suoi artefici, «Teodosio il Grande» (Salerno, pp. 350, 26 ). Anche in Italia la bizantinistica si risveglia. Giorgio Ravegnani, nei suoi «Imperatori di Bisanzio» (Il Mulino, pp. 186, 11,50), offre una preziosa, sintetica quanto documentata e aggiornata panoramica dell'intero millennio bizantino. Mentre Mario Gallina, nell'ottimo «Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII) » edito da Carocci (pp. 306, 23,70), si ferma alla vigilia di quella devastante catastrofe che fu la presa crociata di Costantinopoli del 1204. La stessa «Conquista di Costantinopoli» che Geoffroy de Villehardouin narra, non certo imparzialmente, in uno dei più impressionanti documenti storici mai prodotti da un occidentale su Bisanzio (SE, pp. 159, 19). tità di prima linea di difesa per l'Europa». Da allora in poi gli Asburgo mobilitarono sotto le insegne imperiali le risorse di tedeschi, ungheresi, cèchi, croati, slovacchi e italiani, associando veneziani e polacchi, costruendo un impero multietnico e multireligioso, che durerà fino al 1918. Sarà così l'impero asburgico il vero continuatore di quello bizantino: crinale tra oriente e occidente, difensore e insieme ibridatore di popoli e culture, mediatore di forme d'arte, di musica, di letteratura. Erede, nell'era degli stati nazionali, di quella Sehnsucht imperiale, di quel nostalgico, malinconico senso di un dovere storico sempre venato dal presagio di una fine, che aveva pervaso per secoli la civiltà di Bisanzio

L'ossessione della carne nell'amore cristiano

Corriere della Sera 14.6.08
La seconda parte dell'antologia dedicata alla religiosità medievale: grandi Passioni che si esprimono nella contemplazione
L'ossessione della carne nell'amore cristiano
I trattati del XII secolo svelano il desiderio celeste
di Giorgio Montefoschi

«Dio sa bene che in te non ho mai cercato altro che te solo; ho desiderato esclusivamente te», scrive Eloisa ad Abelardo, nella sua lettera più disperata e gonfia d'amore. Più o meno negli stessi anni, in un capitolo della Expositio super Cantica Canticorum, il Cantico dei Cantici, e cioè il libro erotico per eccellenza della Bibbia, con parole che ricordano molto da presso il passo del Fedro in cui Platone descrive la frenetica comunione spirituale e fisica dell'amato e dell'amante, Guglielmo di Saint Thierry così si esprime a proposito del rapporto amoroso dell'anima con Dio: «Lo spirito dell'uomo assapora la dolcezza di un non so che di amato più che pensato, di gustato più che compreso, che rapisce colui che ama. E per un certo tempo, per un'ora, questo non so che penetra l'amante, ne attrae lo slancio, tanto che non più nella speranza, ma quasi nella realtà, gli sembra ormai di vedere con i propri occhi, di tenere e palpare con le proprie mani la sostanza di ciò che si spera riguardo al Verbo della vita». Ed ecco, nel suo sublime I quattro gradi della violenta carità, Riccardo, priore dell'abazia di San Vittore: «Non ti sembra forse di essere colpito al cuore, quando l'infuocato aculeo dell'amore penetra fino in fondo nella mente dell'uomo e trapassa il sentimento, al punto che esso non riesce più in alcun modo a contenere o a dissimulare la vampa del suo desiderio?».
L'anima e il corpo, lo spirito e la carne, partecipando di un legame indissolubile, vengono sì dopo l'amore gratuito di Dio per l'uomo nei Trattati d'amore cristiani del XII secolo (di cui appare in questi giorni il secondo volume, con l'ottima cura di Francesco Zambon, a completare una delle letture più emozionanti che si possano fare nei nostri giorni distratti), ma certamente, e non potrebbe essere altrimenti, proprio in questo rapporto inscindibile, sono al culmine della meditazione vittorina e cistercense che, nell'epoca dei Trovatori e di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra e di Abelardo e Eloisa, volle non escludere le fredde aule dei monasteri e la pace del chiostro dal sentimento che, congiungendo cielo e terra, o rimanendo schiantato sulla terra, sembrava allora dominare l'uomo e il tempo. Semmai, questa meditazione amorosa e mistica fortificò quella pace, temprò l'invisibile fragilità di quelle mura. E produsse testi che sono veri pilastri indistruttibili della cultura cristiana.
Cardinale, nella riflessione cristiana sull'amore — spiega Francesco Zambon — è la dottrina per la quale la creazione dell'uomo è a immagine e somiglianza di Dio, che è Trinità. Tutto parte da lì. Nella mente dell'uomo, o nel suo cuore, o nella sua anima, è impressa una forma che lo rende somigliante a Dio. Carattere fondamentale di questa somiglianza è la libertà: di scegliere fra il bene e il male. Col peccato, l'uomo si è rivolto verso il carnale, il terrestre. Ora, di quella comunione con il suo Creatore, conserva nella memoria un confuso ricordo. Ma, poiché il simile è destinato a tornare al simile, l'uomo vuole ricongiungersi con Dio. Vuole restaurare quella perfetta somiglianza. Vuole di nuovo vedere Dio. Vuole di nuovo essere in Dio, e sentire quella dolce pienezza dalla quale si è distaccato. Vuole sentire, nel suo cuore, l'amore illuminato che esclude ogni altro amore — a cominciare dall'amore carnale: un amore debole, malato, che tuttavia non deve essere soppresso, perché è il primo passo verso la salita all'ultimo grado dell'amore — e non è altro che la carità. «L'amore illuminato — scrive Guglielmo di Saint Thierry — è la carità: la carità è l'amore che viene da Dio, è in Dio e va verso Dio. Anzi, la carità è Dio. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità».
Come fa l'uomo mortale a ricongiungersi a Dio? Nella carità che l'uomo porta impressa nel cuore, scrive ancora Guglielmo, «vi sono due occhi che palpitano sempre in una sorta di naturale tensione dello sguardo per vedere la luce che è Dio: sono l'amore e la ragione». Da sola, la ragione può fare pochissimo: al massimo può vedere Dio soltanto in ciò che non è. Insieme, ragione e amore possono moltissimo. La ragione vivifica l'amore. E l'anima, penetrata da una dolcezza soave, da uno sfinimento che è simile alla morte, a un sonno celeste, è ghermita da un'altra forma di intelligenza che non procede più per immagini o concetti, bensì ha il suo luogo proprio nella spinta amorosa, nella volontà che l'uomo ha di essere attratto da Dio, di conoscere Dio.
Questa conoscenza superiore — già lo scriveva Gregorio di Nissa — è una conoscenza difficile, oscura, avvolta all'inizio nelle tenebre. Anche il luogo in cui avviene, il cuore, è oscuro. «Qualche volta, Signore — scrive Guglielmo — come se io stessi con gli occhi chiusi e la bocca aperta a te, tu mi metti qualcosa nella bocca del cuore: ma non mi è lecito discernere cosa sia. Certo lo deglutisco, qualunque cosa sia, nella speranza della vita eterna. Ma svanisce così in fretta!». Gli fa eco il monaco Ivo: «Il cuore umano è profondo e insondabile: raro è che sia talmente ritirato in sé stesso da riconoscere la parte più intima di sé. Però è lì che i suoi sensi, quando sono rapiti da Dio, stanno meglio con sé stessi: «Proprio quando non sanno dove sono, e intrattengono con Dio un colloquio senza lingua o suono di labbra, da cui ogni estraneo è escluso».
Dio, che ci ha amati per primo e gratuitamente, si deve amare senza misura, e per gradi, dice Bernardo di Chiaravalle. L'ultimo grado dell'amore è quello nel quale, come una goccia si disperde nel vino, come l'aria illuminata diventa luce, l'uomo si annulla in Dio. Prima, però, dovrà accadere che le anime si liberino del tutto dalla nostalgia della carne. E questo potrà avvenire solo quando sarà vinta la morte. «Quando la luce eterna avrà invaso da ogni parte e posto interamente sotto il suo dominio i territori della notte, al punto da far risplendere anche nei corpi la gloria celeste».
Ecco, di nuovo, la carne. E la sua risurrezione: il dilemma che ci tortura fino alla soglia dell'ultimo grado dell'amore. L'ultimo grado nel quale, Riccardo da San Vittore ci fa trovare l'uomo: Dio che si è fatto uomo, il Cristo. Perché, in quell'ultimo grado in cui l'uomo è stato rapito, l'anima è ormai «perfettamente cotta dal fuoco divino», è molle, piegabile come un ferro nel fuoco. E, in quel momento, non le resterà che essere plasmata secondo il modello di Cristo nella sua umiltà.
Nel Cristo che ha assunto la carne, ha patito, è stato servo dell'uomo, e, col suo amore per l'uomo, ha mostrato l'eccellenza dell'amore.

mercoledì 11 giugno 2008

In un papiro l'educazione sentimentale al tempo dei greci

Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2008
In un papiro l'educazione sentimentale al tempo dei greci
di Aristide Malnati

Un esteso frammento di papiro, pubblicato recentemente nella prestigiosa collana dei Papiri di Ossirinco (volume LXX, numero 4762), a cura dell'Università di Oxford, rivela nuovi, preziosi elementi del romanzo greco; e dunque in buona sostanza ci riconduce ai prodromi di un genere letterario, che ha avuto una straordinaria fortuna nella letteratura mondiale moderna e contemporanea. Il nuovo frammento, databile grazie all'analisi della grafia al III secolo d. C., è parte di una copia di un romanzo più antico, di un'opera redatta da un ignoto autore verosimilmente un secolo prima, visti i modelli letterari, a cui mostra di ispirarsi. Nella sezione conservata la protagonista è una giovane fanciulla alle prime esperienze erotiche, desiderosa di ricevere in materia preziosi consigli, indispensabili per il successo della relazione, a cui la ragazza aspira. Questo è un "tòpos" letterario, un clichet tipico della letteratura erotica romanzata, che inizia con il romanzo di Nino (II sec. a. C.), ambientato nelle lussuriose corti persiane, e che ha una sorta di "akmé", di esplosione, con le storie d'amore, scaturite dalla fantasia immaginifica di Caritone, vero e proprio fondatore del romanzo come genere della letteratura greca.
La variazione presente in questo nuovo frustolo papiraceo è l'interlocutore della ragazza: un aitante asino, a dimostrazione di una scelta audace, ma perfettamente consentanea alla sensibilità degli antichi (si pensi alla novellistica di Esopo e Fedro), per i quali gli animali erano depositari di saggezza e di ricchezza di sentimenti. L'asino nel nostro caso appare saggio suggeritore di comportamenti da adottare, ma anche ardito partner della giovane protagonista, che a lui si concede con evidenza di situazioni di erotismo grottesco: fin dall'inizio la ragazza si mosrra "infuocata" e da subito si assiste a un crescendo di una relazione esplicitamente raccontata, certamente conclusa con preziosi consigli amorosi, a tutti i livelli, garanzia di successo con il giovane, che lei ama. Il testo in questione, e in genere il romanzo d'amore tardoantico e bizantino, traggono parecchi spunti e quasi saccheggiano la letteratura classica e in particolare la lirica arcaica: l'idea di un'educazione sentimentale propedeutica a una corretta vita matrimoniale era elemento fondante della pedagogia delle "pòleis" grecoantiche; a partire da Mitilene, sull'isola di Lesbo, dove circoli di educazione sessuale (famoso è il "thìaso" di Saffo) si occupavano di formare le giovani fanciulle per farle diventare spose perfette.
Nel caso del romanzo, in parte conservato dal papiro ossirinchita, si possono riscontrare anche fonti contemporanee al suo ignoto autore; sicuramente Apuleio ("L'asino d'oro") e Luciano di Samosata ("Lucio e l'asino"), prolifici e dissacranti figure letterarie del periodo della seconda sofistica (metà II secolo d. C.), quando venne promossa la riscoperta e anche un po' la parodia dei periodi classico ed ellenistico, di secoli precedenti. In particolare Luciano rivalutò la figura del filosofo cinico, critico e derisorio verso i miti, a suo dire illusori, dei suoi contemporanei, e in aperta polemica con le nuove fedi (per lui "superstizioni irrazionali"), importate dall'Oriente e destinate di lì a poco ad imporsi. E i romanzieri furono qua e là influenzati da una simile congerie di elementi eterogenei, a cui cercarono di conferire fusione armoniosa nelle loro opere: spesso avendo successo, come mostra il nuovo papiro, che trovò il gradimento dei lettori un secolo dopo la stesura dell'opera originale.

La Curia di Nocera Inferiore: quel saggio deve andare al macero

La Repubblica 11.6.08
La Curia di Nocera Inferiore: quel saggio deve andare al macero
E il vescovo censura il libro sull’Inquisizione
Nel volume sono riprodotti documenti su avvenimenti accaduti fra Sei e Settecento "Potrebbero scandalizzare il lettore", replica il prelato
di Adriano Prosperi

Al lettore normale, smarrito davanti all´abbondanza dei libri e in cerca di recensioni che lo aiutino a scegliere, diciamo subito che il libro di cui si parlerà qui non lo troverà in libreria né ora né - forse - mai. Ma il libro esiste, anche se forse non lo potremo leggere. Ne parliamo perché la sua vicenda riporta tra lettori annoiati da storie di censure più o meno inventate per ragioni di bottega il fantasma di una censura antica, che ha operato a lungo nel passato remoto e che credevamo scomparsa.
Si tratta di un libro di storia che racconta vicende accadute in un luogo d´Italia in un passato remoto, tra ´600 e ´700. Vi si incontrano persone e fatti di vita quotidiana, passati attraverso il filtro di carte processuali. C´è la storia di un uomo che aveva l´abitudine di bestemmiare la Trinità, la Madonna e san Michele Arcangelo, si rifiutava di andare in chiesa, non ascoltava le prediche; e c´è quella di un francescano che giocava a carte e quando perdeva prendeva a calci il crocifisso appeso nella sua cella; o quella di una ragazza che raccontò "con molto rossore" al vescovo e ai consultori dell´Inquisizione come si fosse trovata a confessarsi da preti che tentavano in molti modi di rubarle baci e di fare l´amore con lei.
Inquisizione: ecco la parola. Una istituzione ecclesiastica già molto temuta, che esplorava comportamenti e idee delle persone e i cui documenti sono stati ricercati e studiati dagli storici. Per molto tempo la ricerca storica ha dovuto scontrarsi col segreto imposto dagli archivi delle curie vescovili e dall´archivio del Sant´Uffizio romano, istituzione che da papa Paolo VI ricevette la nuova denominazione di Congregazione per la Dottrina della Fede.
Una svolta fondamentale si ebbe quando papa Giovanni Paolo II, preparando il giubileo del 2000 sotto il segno di una solenne "purificazione della memoria", volle l´apertura alla consultazione dell´archivio centrale dell´Inquisizione Romana. L´annuncio fu dato dall´allora cardinal Joseph Ratzinger il 22 gennaio 1998 nella sede dell´Accademia Nazionale dei Lincei. Ratzinger disse fra l´altro: «Sono sicuro che aprendo i nostri archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l´uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia».
Da allora circola in questo settore di studi un nuovo fervore di interessi e di ricerche e un clima di collaborazione tra studiosi e archivisti ecclesiastici. Un´intesa tra lo Stato italiano e la Conferenza episcopale, del 2000, ha fissato una serie di punti sulla tutela e sull´apertura alla consultazione degli archivi di interesse storico appartenenti a istituzioni ed enti ecclesiastici che dovrebbe garantire sviluppi positivi alle indagini degli storici. Per quanto riguarda in particolare i fondi documentari relativi alla storia dell´Inquisizione, il loro censimento sul piano nazionale è in atto per opera di studiosi di grande e riconosciuta serietà scientifica. La ragione dell´interesse che oggi guida la maggior parte degli storici risiede non più in una volontà di polemica anticlericale ma nella ricerca di una storia più ricca e più viva. Dall´esplorazione di queste carte emergono migliaia e migliaia di volti umani, di pratiche, idee e sentimenti che attraverso il filtro del tribunale ecclesiastico dell´Inquisizione si sono calate in documenti scritti e si offrono oggi al lettore come un deposito di uno speciale tipo di archeologia: quella dei pensieri, delle pratiche, dell´economia morale di un popolo intero.
La ragione è semplice: quel tribunale, la cui segretezza ha alimentato un tempo fosche fantasie di sadica violenza, era un luogo che faceva parte della vita quotidiana anche dei piccoli centri. Lì era obbligatorio recarsi per denunziare la bestemmia del vicino, per riferire con vergogna e rossore la violenza subìta dal prete in confessione. Di tutto questo serbano memoria le carte degli archivi ecclesiastici. Su questa faccia nascosta della storia d´Italia, sulla folla di storie di vita che si sono sedimentate in quelle carte, da tempo stanno lavorando gli storici al solo scopo di capire, di restaurare una memoria meno lacunosa degli atti e dei sentimenti che hanno reso il nostro paese quello che è.
Ma ecco che in una cittadina italiana la cortina del segreto e la durezza delle intimazioni ecclesiastiche si sono levate di nuovo. Un libro scritto da una studiosa, Gaetana Mazza, su documenti dell´inquisizione conservati nell´archivio diocesano di Sarno, Curia diocesana di Nocera Inferiore, ha scatenato la furia di una entità che sembrerebbe un fantasma da operetta se non fosse reale: la censura ecclesiastica. All´autrice, che aveva inviato copia al vescovo della diocesi prima di mettere in distribuzione l´opera già stampata, è stato intimato di mandare al macero l´intero secondo volume dell´opera che riproduceva documenti d´archivio (definiti «testi di dubbia delicatezza, che potrebbero scandalizzare non poco il lettore») e di sottoporre il primo volume all´esame di una commissione ad hoc al fine di emendarlo secondo quello che le sarebbe stato imposto.
L´intimazione riporta in vita l´antico linguaggio e le abitudini della censura ecclesiastica - quella, per intenderci, dei tempi di Galileo. Ci sarebbe da credere a uno scherzo, se non fosse che quella intimazione è fatta a termini di norme concordatarie e sulla base della condizione degli archivi ecclesiastici che sono da considerarsi non pubblici anche se godono di finanziamenti statali. In quella intimazione si legge il senso di vergogna di una istituzione per i comportamenti del clero del passato e per una realtà antica di uso dei suoi poteri da cui non riesce a concepire la liberazione se non nella forma della cancellazione o segretazione dei documenti, insomma di un bavaglio agli storici. Vedremo presto se questo episodio è - come si potrebbe temere - un segno di ritorno all´antico o se è solo il riflesso condizionato di una cultura che non si è aggiornata alle intenzioni delle autorità centrali della Chiesa e alle parole solenni dell´allora cardinal Ratzinger. Basterà vedere se il libro contestato arriverà o meno in libreria.

giovedì 5 giugno 2008

Unioni di fatto, la storia di sempre

Corriere della Sera 5.6.08
Alcune ricerche smentiscono l'immagine tradizionale, diffusa dal clero, dei vincoli matrimoniali sacri e indissolubili
Unioni di fatto, la storia di sempre
Rapporti flessibili, convivenze, concubini e cavalieri serventi: il passato «irregolare» della famiglia
di Sergio Luzzatto

Lo sentiamo dire tanto spesso che rischiamo di crederci. Bombardati dai sermoni vaticani sul matrimonio come «unione indissolubile tra un uomo e una donna», storditi dalla propaganda bigotta dei Family Days, colpevolizzati dal discorso pubblico laico intorno ai devastanti effetti sociali della «crisi della coppia», rischiamo di credere davvero nella favola di un bel tempo andato in cui la famiglia era un'istituzione armoniosa, stabile, coesa: papà-mamma- bambini felicemente riuniti sotto lo stesso tetto, senza tentazioni peccaminose né grilli per la testa, come Dio comanda. Giunge allora opportuno il lavoro degli storici, che non si accontentano di racconti favolosi. In una Storia del matrimonio (Il Mulino) appena pubblicata, Daniela Lombardi ci insegna a riconoscere come false le leggende più correnti sulla differenza tra il nostro oggi e lo ieri, o l'altroieri. Falso che il celibato e il nubilato siano fenomeni caratteristici della modernità (nella Bologna del 1796, per esempio, quasi il 40 per cento degli adulti non era sposato). Falso che la sessualità fosse circoscritta entro i confini del matrimonio (in certe grandi città, il numero di nascite illegittime sfiorava il 50 per cento). E falso, in generale, il cliché della famigliola «tradizionale», non foss'altro perché la precarietà delle esistenze (epidemie, guerre, migrazioni) rendeva la vita di coppia costituzionalmente instabile, a rischio.
Con buona pace dei presuli di ogni tempo e dei teodem d'oggidì, gli studiosi insegnano sia la volatilità delle unioni coniugali del passato, sia la varietà dei modi storicamente praticati per metter su famiglia: insegnano la flessibilità — quasi l'elasticità — che per secoli ha contraddistinto la formazione delle coppie e le relazioni tra i sessi, in Italia come altrove in Europa. Coppie di fatto? Non c'è da attendere il Novecento, chissà quale Sessantotto, per incontrare uomini e donne che sceglievano di amarsi e di riprodursi fuori da ogni vincolo matrimoniale, senza «regolarizzare» la propria situazione davanti a un notaio né davanti a un prete. Le coppie di fatto rappresentavano una realtà diffusa già nell'Italia del Cinque e Seicento, come lo storico Giovanni Romeo dimostra bene nel libro
Amori proibiti (Laterza).
Fino a quando la Chiesa della Controriforma non decise di rimediare drasticamente al problema, maestri del concubinato erano i sacerdoti. Nel primo Cinquecento, forse metà dei preti viveva more uxorio con la rispettiva perpetua, senza d'altronde che i parrocchiani si scandalizzassero più di tanto. E ancora dopo il Concilio di Trento, vinta la terribile guerra contro i «lutherani d'Italia», le autorità centrali e periferiche della Chiesa si concentrarono nella lotta contro la magia, la bestemmia, la bigamia, piuttosto che contro le coppie di fatto. Soltanto a partire dal Seicento la battaglia contro i concubini divenne prioritaria, per gerarchie vaticane sempre più ossessionate dall'idea di dover sorvegliare la sessualità delle donne.
Specialista di storia religiosa del Mezzogiorno, Romeo si concentra sulla più popolata, la più variopinta e (già allora) la più ingovernabile delle città italiane: Napoli. Un proverbiale porto di mare, una capitale abituata a fare i conti con genti diverse e usanze multiformi, baroni della terra e cortigiani di Spagna, chierici e artisti, puttane e vagabondi, marinai e soldati, musulmani ed ebrei. Una polveriera della carne e dello spirito, dove zelanti arcivescovi venuti da Roma cercarono di imporre le nuove regole della Controriforma: oltre all'obbligo di confessarsi regolarmente e di comunicarsi a Pasqua, il divieto di vivere da concubini.
Fossero le prostitute dei Quartieri spagnoli che coabitavano con il loro sfruttatore, o fossero le popolane troppo indigenti per presentarsi con una dote sul mercato dei matrimoni combinati, ma capaci lo stesso di rimediare un'anima gemella, migliaia di donne del Seicento vennero sottoposte a un articolato sistema di misure sanzionatorie (convocazioni in parrocchia, blitz nelle case, cartelli infamanti, minacce di scomunica) affinché ponessero fine allo scandalo del loro accoppiamento di fatto. Salvo trovare, il più delle volte, un modo per resistere. Urlando a squarciagola come Popa Mazza, la cortigiana calabrese che nel 1639 spiegò al vicinato che la scomunica della Chiesa lei la «teneva in culo». Oppure facendo finta di nulla, aspettando che la tempesta passasse...
Durante l'antico regime, le convenzioni sociali restringevano enormemente la libertà di scelta matrimoniale per uomini e donne. E tanto più nell'alta società, dove la posta in gioco, oltre a un titolo nobiliare, era un patrimonio che si voleva trasmettere integro ai discendenti. Da qui — all'opposto della piramide sociale rispetto alle coppie «'nnammecate » della Napoli plebea — un'altra forma di antidoto al regolatissimo mercato del matrimonio: la curiosa istituzione che è stata, nel tardo Seicento e soprattutto nel Settecento, il sistema del «cavalier servente». Cioè il matrimonio a tre fra una donna aristocratica, un marito di analoga condizione, e l'accompagnatore ufficiale della donna non sua, cui Roberto Bizzocchi ha dedicato ora uno studio altrettanto colto che godibile, Cicisbei
(Laterza).
L'importanza del cicisbeismo nella vita italiana del XVIII secolo è illustrata da tutta una segnaletica artistica e letteraria: le incisioni di Longhi come i quadri di Tiepolo, le commedie di Goldoni come i versi di Parini. Ma Bizzocchi non si è limitato a registrare l'onnipresenza dei cicisbei nell'immaginario figurativo, teatrale, poetico, del secolo dei Lumi. Frugando dentro una gran massa di lettere, diari, memorie, Bizzocchi ha saputo riconoscere in quei lontani «triangoli» (semplicemente mondani, o anche affettivi, o anche sessuali) un pezzo di storia sociale e politica dell'Italia moderna.
In effetti, il cicisbeismo fu ben più che una valvola di sfogo per donne frustrate da un matrimonio di convenienza, e per ruspanti cadetti che le strategie ereditarie destinavano al celibato. Fu un vero e proprio gioco di ruoli inteso alla conservazione del primato nobiliare: non a caso si diffuse particolarmente nelle cosiddette Repubbliche aristocratiche, Venezia, Genova, Lucca. Per un «giovin signore», «servire» una dama senza sposarla, di notte come di giorno, era un buon modo per stare alla larga dai due ambienti che più rischiavano di irretirlo, il mondo delle carte da gioco e il mondo delle donne da strapazzo.
Ma il cicisbeismo ha rivestito, da ultimo, anche una valenza illuministica: è stato un esercizio di libertà personale — maschile e femminile — contro il dispotismo coniugale e familiare. Così capitò di viverlo a personaggi di prima grandezza del nostro Settecento, come Pietro Verri. Che lungamente servì da cicisbeo di Maddalena Isimbardi, la sorella di Cesare Beccaria. Al marito di lei, geloso peggio d'«un eunuco del Serraglio», Verri non riservava che disprezzo; mentre ammirava il temperamento focoso della sua Maddalena, «buona, amabile e selvaggia».
François Clouet (1510-1572), «Una scena galante». In basso: Giandomenico Tiepolo (1727-1804), particolare da «Minuetto» (c. 1791)

Tre libri appena pubblicati trattano delle relazioni familiari e sessuali nel passato: il saggio di Daniela Lombardi «Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi» (pp.
296, e 18,50) è edito dal Mulino, mentre da Laterza sono usciti i libri di Giovanni Romeo «Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione» (pp. 256, e 18) e di Roberto Bizzocchi «Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia» (pp. 360, e 20)

martedì 3 giugno 2008

Il vero volto di padre Gemelli

La Repubblica, 03/07/2007

NELLO AJELLO

Il vero volto di padre Gemelli
Documenti, anche inediti, confermano razzismo e delazioni Fondatore dell' Università Cattolica fu un factotum di grande potere * Denunciò uno studente, poi condannato al confino, perché leggeva Lenin - La guerra contro padre pio di pietralcina - L' antisemitism ricordato nel libro di Rosetta Loy

Un romanzo dal vero. Una storia esemplare del Novecento italiano. Un inesauribile work in progress. Sto parlando della presenza di Agostino Gemelli (1878-1959) nella storia, e nelle cronache, del nostro Paese. E' come se alla fama di questo personaggio, a quasi mezzo secolo dalla morte, non bastasse di essere affidata ad una coppia di istituzioni solide e giustamente proverbiali: l' Università cattolica del Sacro Cuore, da lui fondata nel 1919 a Milano - e nella quale si sono formati alcuni esponenti illustri del cattolicesimo politico, a partire da Giuseppe Dossetti - e il Policlinico a lui intestato a Roma. Di ricerca in ricerca, altri capitoli integrano il romanzo di cui dicevo. Il protagonista emerge come un factotum dotato di rilevante potere, in bilico tra religione, politica e scienza. A illustrarne la personalità valgono, fra l' altro, alcune immagini che egli ha ispirato. Basti ricordarne una, «la cimice sul saio», che, coniata dal suo biografo Giorgio Cosmacini, si riferisce alla contemporanea devozione che il francescano Gemelli professava al Vaticano e a palazzo Venezia («cimice» veniva popolarmente chiamato il distintivo del Fascio). In una mostra sulla partecipazione degli antifascisti italiani alla guerra civile spagnola, curata da Gianna Granati per la fondazione Nenni, inaugurata a Roma l' inverno scorso e ora trasferita a turno in altre città italiane, Gemelli è di casa: una serie di documenti, illustrati nei pannelli, documentano la sua attività d' informatore del governo fascista. Oggetto di questi "promemoria" sono gli intellettuali che il celebre religioso incontrava nelle sue molteplici attività di docente, di Rettore della Cattolica e in generale di animatore culturale. Emblematico è il caso di uno studente universitario, Giuseppe Boretti. Già noto alla polizia per aver partecipato nel 1930 a manifestazioni antifasciste in favore di Arturo Toscanini, proposto per l' assegnazione al confino e poi semplicemente «ammonito», Boretti viene indicato in una lettera di Gemelli alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza per aver richiesto alla biblioteca dell' Università milanese, in complicità con un altro studente, Eugenio Giovanardi, alcuni volumi riguardanti le «teorie leniniste». Il tutto risulta da un documento dell' aprile 1933 - a firma del capo della polizia fascista, Arturo Bocchini. I due giovani, fermati e perquisiti, vengono accusati di aver svolto propaganda comunista nella sede della «Cattolica». Denunziato al Tribunale Speciale e poi prosciolto, Boretti fu comunque assegnato «al confino di polizia per la durata di cinque anni», ancora una volta non scontati essendo intervenuto un richiamo alle armi con affidamento a una «compagnia di correzione». Già intricata, qui a storia diventa un «giallo» d' azione: evaso, il sovversivo è arrestato alla frontiera con la Svizzera e tradotto a Portoferraio (nel «Plotone Speciale dei militari confinati», si specifica in linguaggio «buro-poliziesco»). Benché sottoposto ad attiva sorveglianza in quanto «irriducibile nemico del Regime», Boretti evade ancora una volta, il 9 aprile 1937, sempre insieme all' amico Giovanardi. Li si ritrova in Spagna, combattenti sul fronte antifranchista nella Brigata Garibaldi. Mentre di Giovanardi si perdono le tracce, varie carte della polizia, datate 1939, attestano che in quella guerra Boretti trovò la morte. Una trama - come spesso quelle che implicano padre Gemelli - venata di suspense. Non per nulla il caso Boretti-Giovanardi copre varie pagine del volume di Mimmo Franzinelli, Delatori (Mondadori 2001). Spicca, formulata dall' autore, un' ipotesi: che a Gemelli l' attività di confidente del regime servisse per contrastare gli attacchi di quei fascisti che additavano proprio in lui un «cattivo maestro della gioventù italiana». A differenza del ras di Cremona Roberto Farinacci, che al Rettore della Cattolica era legato dalla comune ossessione antisemita, non sempre i gerarchi consideravano con simpatia il suo cangiante attivismo. Nel fascicolo «Gemelli» depositato all' Archivio Centrale dello Stato, si trovano informative nelle quali gli agenti della Polizia politica formulano su di lui pesanti riserve. In una nota del 4 febbraio 1932 si accenna a una conferenza di Gemelli sul problema razziale e il «meticciato», nel corso della quale il celebre religioso dà «pienamente ragione ai provvedimenti del Governo nell' interesse della razza bianca». Ma - sottolinea l' agente - «gli studenti e il pubblico» appaiono «vivamente meravigliati nel vedere un Frate» esprimere «argomenti in contrasto con le direttive del Vaticano, desumendone che quest' ultimo avrebbe cambiato parere» sulla questione ebraica. Ambiguo Gemelli, non meno ambigui coloro che lo criticano. Più d' un attacco contro di lui viene presentato come opinione prevalente nel mondo cattolico. In un' informativa datata Città del Vaticano, 23 novembre 1933, si segnala «un po' di risentimento contro il Padre Agostino Gemelli, dei Minori, per la guerra da lui fatta a Padre Pio di Pietralcina, Cappuccino, che vive nel concetto di Santità». E l' informatore così conclude: «Persone che hanno avvicinato il Padre Pio, assicurano trattarsi veramente di un Santo», mentre chi ha di fronte Gemelli sente di incontrare «un fanfarone qualunque che non ha affatto lo spirito religioso». Altra volta, pur riconoscendo che «nelle conferenze e nelle prediche» il noto religioso «si ispira sempre a simpatia e devozione per il Regime», il confidente di polizia accoglie le voci relative a «certe sue passeggiate fatte sul Lago Maggiore col pretesto della propaganda e in compagnia di ragazze della gioventù cattolica». Risale infine all' estate del '42 una specie di requisitoria ad uso poliziesco intitolata «l' inframettenza gemelliana in tutti i campi». E' il ritratto d' un intrigante, di cui s' illustra la tendenza a «imporre la sua volontà anche nel campo scientifico nel quale non è specializzato». Quando, volendo vendicarsi contro chi dissente dalle sue teorie, non dispone di argomenti, egli «lo fa spesso e volentieri nel campo della delazione e della calunnia». Vizio che, formulato da una spia professionale, esperta dunque nel ramo, sembra pesare il doppio. Oggetto e vittima di informazioni riservate, e informatore egli stesso, Gemelli non tralascia comunque alcuna occasione per rendersi utile. Porta la data del 27 dicembre 1935 una lettera a sua firma su carta intestata della Universitas Catholica Sacri Cordis Jesu Mediolani. Ne è destinatario il Ministro dell' Educazione Nazionale. «Mi permetto di segnalare a Vostra Eccellenza», scrive il Rettore in questa missiva finora inedita, «una circolare mandata ai professori dell' Università Cattolica intorno ad una riunione da tenersi a Monaco dal 1º al 12 febbraio, per iniziativa dell' «Association Universelle pour la Protection Internationale de l' Humanité». Informazioni assunte da amici fidati mi dicono che si tratta di un' organizzazione di carattere massonico» Perciò «accludo una copia della circolare». Sul foglio, qualcuno ha segnato: «Si senta il ministero Esteri». Il quale risponde dando ragione a Gemelli. «Da informazioni pervenute» dal Consolato del Principato di Monaco, «pare» che la riunione «emani da organizzazioni di carattere massonico». Il tutto legato a «una metodica opera di "disfattismo" nei confronti del nostro Paese». Conclusione: è «opportuno soprassedere a qualsiasi adesione». Si può osservare che, nella sua ottica, il frate scienziato ha mirato a un bersaglio giusto: forse solo la massoneria riesce a suscitare un odio concorde da parte delle autorità fasciste e di quelle cattoliche. Alla domanda se padre Gemelli sia ancora fra noi, si è tentati di rispondere di sì. Il personaggio non è di quelli che ti possano sfuggire di mente. Dieci anni fa un saggio di Rosetta Loy, La parola ebreo, ci ha riproposto con adeguato sgomento alcune escandescenze del frate-scienziato contro «i Giudei, che hanno crocifisso nostro Signore»; espressioni riportate nell' opera di Franco Cuomo, I Dieci, (Baldini Castoldi Dalai, 2005), dedicata agli scienziati che firmarono il Manifesto della razza: Gemelli non mancò all' appello. Sempre lui, con le sue azioni e i suoi pensieri, si riaffaccia ora nel libro di Emma Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. Ed è ancora Gemelli a ripresentarsi nel lavoro di Lisa Roscioni, Lo smemorato di Collegno, dedicato a una vicenda proverbiale dell' Italia di ieri, e recensito sulla Repubblica da Pietro Citati. Forse lui per primo, il santo delatore, si sentiva intramontabile. Sapeva di essere un figlio del secolo (o magari di due). Come non dargli ragione, almeno in questo?

L'illusione del capitalismo eterno

Corriere della Sera 3.6.08
Scenari Un libro dello scienziato, edito da Mondadori, riapre il dibattito sugli obiettivi della crescente industrializzazione: profitto o miglioramento della vita
L'illusione del capitalismo eterno
Effetto serra e benessere: Severino replica all'«ambientalista scettico» Lomborg
di Emanuele Severino

Dopo la fine dell'Unione Sovietica è divenuta dominante — sebbene da qualche tempo discussa — la convinzione che il capitalismo sia la forma sociale ormai incontrastabile. Molte le conferme. Ad esempio il fatto che l'unica «superpotenza » mondiale rimasta in campo, gli Usa, sia insieme il luogo per eccellenza dello sviluppo capitalistico. Oppure la paradossale adozione del capitalismo da parte della stessa Cina «comunista». O, anche, la consapevolezza che il supporto teorico del socialismo reale, cioè il marxismo, appartenga ormai al passato dell'indagine filosofica ed economica. È una conferma di questo modo di pensare la stessa mobilitazione contro il capitalismo da parte delle forze che ne sentono l'incombere, tra le quali l'Islam, la Chiesa cattolica, i movimenti ecologici e «di sinistra» che vedono nel capitalismo il principale responsabile della devastazione della Terra.
Che ciò sia scientificamente provato è però tutt'altro che pacifico. Anzi, quanto più i mass media, i politici, gli ambientalisti vanno da qualche tempo additando all'opinione pubblica il pericolo di una catastrofe imminente, provocata dalla crescente industrializzazione, tanto più la scienza ufficiale tende a scagionare quest'ultima da tale responsabilità. Esempio notevole di questa tendenza il libro dello scienziato danese Bjorn Lomborg, che Mondadori ha appena pubblicato con il titolo Stiamo freschi. Perché non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale. Chiaro, compatto, impressionante per la mole e la qualità delle informazioni. Se non erro, l'autore non usa mai la parola «capitalismo», ma si preoccupa di dissipare il sospetto che egli scriva per conto di qualche multinazionale del petrolio. La sua tesi di fondo è, cioè, che l'accusa al capitalismo di devastare la Terra e il conseguente proposito di detronizzarlo non abbiano alcun fondamento scientifico.
Da più di trent'anni i miei scritti sviluppano invece la tesi che anche il capitalismo è destinato al tramonto, come lo era il socialismo reale e come lo sono tutte le altre grandi forze della tradizione occidentale (e orientale). In Declino del capitalismo (Rizzoli, 1993) rilevo che anche supponendo che il carattere distruttivo del capitalismo non abbia alcun riscontro scientifico, anche in questo caso la convinzione dell'esistenza di questa distruttività sta però vistosamente diffondendosi (né Lomborg lo nega, anzi lo depreca vivacemente), e a tal punto da prender piede all'interno dello stesso mondo capitalistico, tanto da indurlo a cambiar strada e, alla fine, a rinunciare a se stesso. Il maggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso, non i suoi avversari dichiarati. Ma Lomborg ritiene, insieme a tanti altri, che la scienza possa aver partita vinta sull'«oscurantismo» (e si dà in molti modi da fare per fargliela vincere); il che implica che, contrariamente a quanto sostengo, non vi sia alcuna destinazione del capitalismo al tramonto. E allora?
Egli mostra in modo persuasivo i gravi pericoli del fatto che a livello mondiale l'unica iniziativa politica per ridurre il riscaldamento del Pianeta sia il protocollo di Kyoto (1997), che sarà probabilmente rinnovato tra pochi anni. Esso stabilisce che tra il 2008 e il 2012 i Paesi industriali riducano del 20 per cento le emissioni di anidride carbonica. Lomborg mostra dettagliatamente che, qualora sia attuata per tutto il XXI secolo, l'applicazione del protocollo avrà un costo elevatissimo e un'efficacia molto bassa, cioè una riduzione molto bassa delle morti dovute al riscaldamento globale, un pericolo peraltro certamente sempre più grave. Molto bassa, tale riduzione, in rapporto al numero delle vittime della fame, della povertà, delle malattie, del freddo: «problemi ben più urgenti», questi, che però possono essere affrontati «con una spesa più bassa e probabilità di successo molto più elevate di quelle offerte dalle severe politiche climatiche, che hanno un costo di miliardi e miliardi di dollari». Evitando questo esborso irrazionale, l'umanità può dotarsi delle tecnologie specifiche capaci di ridurre il riscaldamento del pianeta, ma non promosse dal protocollo di Kyoto. Alla base di tutto il discorso di Lomborg sta infatti la tesi che «l'obiettivo finale non è la riduzione dei gas serra o del riscaldamento globale in sé, ma il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente» e che la condizione fondamentale per realizzare questo obiettivo è costituita dalla tecnica.
Ma, quando il discorso è impostato in questo modo, la convinzione di proporre soluzioni che, sebbene più razionali, si muovano pur sempre all'interno dell'orizzonte della produzione capitalistica è un'illusione. Lomborg la coltiva. L'«obiettivo finale» di ogni forma di capitalismo, infatti, non è «il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente», non è il benessere dell'umanità, ma è la crescita indefinita del profitto, anche se, per ottenerla, la produzione capitalistica deve portare sul mercato merci che diano o che i consumatori ritengano che diano benessere e miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente. Ma — eccoci al punto decisivo — se si agisce affinché l'«obiettivo finale» della produzione e distribuzione capitalistica delle risorse sia il benessere dell'umanità, si agisce per far diventare il capitalismo qualcosa di diverso da ciò che esso è, ossia si agisce per distruggerlo. Si agisce così anche quando non si è consapevoli di ciò che propriamente si sta facendo, come accade ad esempio alla Chiesa cattolica quando sollecita il capitalismo ad assumere come obiettivo finale il «bene comune» della società. (Si agisce così anche quando, seguendo la Chiesa, ci si oppone, come ha fatto Giulio Tremonti anche qualche giorno fa sul Corriere, all' «idea del primato del mercato su ogni altra forma sociale»; o quando si limita questo primato auspicando, come mi sembra abbia fatto più volte Mario Monti, che l'«obiettivo» costituito dalla capacità di competere con gli altri Paesi industrializzati sia affiancato, almeno in Italia, dagli «obiettivi di solidarietà»).
Si agisce così, perché nell'agire umano un'azione o un sistema di azioni sono ciò che esse sono proprio in virtù dell'obiettivo che esse si propongono; sì che, se quest'ultimo viene cambiato — e, nella fattispecie, ci si adopera affinchè l'obiettivo del capitalismo sia il benessere dell'uomo o il «bene comune», e quindi il mercato non abbia più il «primato sulle altre forme sociali» —, tali azioni restano distrutte e ci si trova davanti ad azioni diverse, anche se vengono chiamate con i vecchi nomi e si crede che quelle di prima siano ancora in vita.
Questo discorso vale anche per Lomborg, che affida alla tecnica e alle energie alternative il compito di evitare che la produzione capitalistica, lasciata a se stessa, distrugga la Terra. Anch'egli si adopera quindi per un «capitalismo» che abbia come obiettivo finale il benessere dell'uomo e, insieme, la condizione ormai imprescindibile per la realizzazione di tale benessere, cioè lo sviluppo tecnologico. Anche qui, si assegna cioè al «capitalismo» un obiettivo diverso da quello che fa vivere il capitalismo vero e proprio: anche qui si mira, senza rendersene conto, alla distruzione del capitalismo. O anche, se — e poiché — il capitalismo dà ascolto a questo tipo di sollecitazione, è esso stesso a cambiar strada, a rinunciare a se stesso.
Anche accettando la tesi di Lomborg che la scienza ridimensiona fortemente il carattere distruttivo della produzione capitalistica, questa tesi non è dunque una smentita di quel «declino del capitalismo» che da parte mia vado sostenendo, non è una smentita della destinazione del capitalismo al tramonto. E riconoscendo che, su questa Terra, al nostro «obiettivo finale» appartiene lo sviluppo tecnologico, quindi l'eliminazione dei limiti che lo frenano, si riconosce che il tramonto del capitalismo (e di ogni altra forma della tradizione) è la stessa destinazione del mondo a un nuovo «primato »: quello della tecnica.