La morte di Ipazia
Ciò che doveva avvenire, alla fine, avviene. Oreste ha preso
una decisione, senza dubbio pessima: ha proibito una processione organizzata
dal vescovo Cirillo per portare in giro attraverso i quartieri popolari della
città il corpo del Beato Thaumasios. Pulcheria stessa, l’Augusta, aveva
autorizzato con una bolla imperiale il culto del «martire » parabalano. Ma
Oreste teme disordini: una pessima decisione, certamente, ma anche quella
opposta sarebbe stata pessima; ci sono momenti in cui tutte le decisioni sono
pessime e la buona semplicemente non esiste.
Alla notizia del divieto Cirillo reagisce chiamando a
raccolta i suoi fedeli, compresi i parabalani che cominciano a riaffacciarsi
per i vicoli della città, non promettendo nulla di buono. Il vescovo li
infiamma contro il prefetto, anche se non sarebbe necessario. Il prefetto,
dice, calpesta la religione di Cristo e perseguita i suoi fedeli; Ipazia, la
perfida consigliera di Oreste, è certamente l’ispiratrice di questa decisione.
Occorre reagire e combattere, in nome di Cristo, per difendere il diritto dei
cristiani alloro culto e alle loro devozioni.
Ipazia esce di casa, come ogni mattina, per recarsi al
Museo. Ogni giorno Demetra o Antinoo le ricordano che è in pericolo, che non
deve esporsi, che non è saggio sfidare la sorte. Ma sanno tutti e due che tali
raccomandazioni non hanno alcun effetto. Antinoo, comunque, l’accompagna; non è
armato, ma è forte e giovane, deciso a difendere la sua donna con tutte le
forze, fino alla morte. Ipazia sale sulla carrozza e Antinoo la segue a piedi,
per meglio sorvegliare la situazione.
La strada sembra deserta, cosa alquanto inconsueta. Antinoo
sente una fitta al petto, come un presentimento tangibile di qualcosa di
tremendo che sta per succedere. Mentre si guarda attorno, da ogni parte,
scrutando ogni angolo alla ricerca di uomini nascosti che stiano tendendo un
agguato, non sente i passi leggeri alle sue spalle, che si avvicinano
rapidamente. Sente solo la lama di un coltello entrargli tra le scapole e
ferirlo profondamente. Si volge e fa fronte al nemico, ma tutt’a un tratto i
nemici sono tanti, un gruppo di parabalani incappucciati, armati di coltelli e
di asce, che infieriscono su di lui massacrandolo come un agnello da macellare.
Riesce appena a gridare: «Ipazia, fuggi » e perde i sensi, in un lago di
sangue.
Ipazia non fa a tempo a fuggire, forse neppure lo vuole;
guarda il suo amato che giace a terra e ne incontra lo sguardo disperato, pieno
d’amore. Vorrebbe abbracciarlo, stringerlo forte a sé e dirgli come è stato
bello vivere insieme, amarsi, lavorare la terra e camminare insieme, nelle sere
autunnali, rientrare a casa insieme e prepararsi una cena frugale; insomma,
vivere, semplicemente, come tutte le coppie che si amano.
Perché non ha saputo accontentarsi, accettare un destino
semplice e felice? Perché ha trascinato Antinoo nella sua sventura? Ma non c’è
tempo per pensare, neppure per piangere. Una folla che si infittisce ogni
momento di più, un’enorme folla di gente in delirio, sta ora sopra di lei.
Riconosce, tra quelli che più le si avvicinano urlando e sbeffeggiandola, il
giovane Sergio, con il quale si era scontrata nella pubblica discussione, tanto
tempo fa. Ha serbato il suo odio per tanto tempo, pensa Ipazia, e ora pregusta
la vendetta.
L’hanno afferrata in tanti, la stanno trascinando verso il
Cesareo, il tempio cristiano. Deve morire lì, sul sagrato, perché Cristo si
appaghi del suo sangue e goda della vendetta contro la donna infedele,
istigatrice di pagani e di atei. Le gridano insulti e sconcezze, la toccano, le
strappano le vesti, gridano, ridono risate oscene. Si spingono gli uni con gli
altri, si calpestano, corrono come un branco di animali infuriati o sorpresi da
un incendio. Non sono più una somma di uomini, ma un unico immenso animale
acefalo che corre qua e là senza sapere dove né perché, reso cieco da un
immenso furore. Sono come una muta di cani che abbia annusato l’odore della
preda, ne abbia già assaggiato il sangue e non possa più fermarsi, non oda più
il richiamo del padrone che vorrebbe trattenerla. Hanno bocche spalancate
nell’urlo dell’odio, mani adunche che graffiano e sbranano, occhi sbarrati,
senz’altra espressione che un’ira cieca e bestiale. La tirano da ogni parte,
lacerandole la pelle e poi la carne; la prendono a calci sul ventre, sul petto,
sul viso. Uno le ha ficcato due dita nelle orbite ed è riuscito a cavarne fuori
gli occhi, due globi sanguinanti.
Ipazia è già morta da un pezzo, e la sua anima si è librata
lontano, oltre il cielo della luna, nell’altezza degli spazi siderali, vicino
alla luce totale, impossibile da guardare, che è l’occhio di Dio; ma sulla
terra, dove strisciano i vermi, gli uomini infieriscono ancora su di lei,
facendo a brani il suo corpo che ora è disseminato qua e là, di fronte alla chiesa,
miseri pezzi di carne umana, irriconoscibili, sui quali nessuno potrà piangere
e compiere riti funebri, perché non hanno più niente di umano.
Intanto un gruppo di parabalani forza la porta della casa di
Ipazia, malmenando i suoi servi e picchiando a sangue Demetra. Vogliono avere
accesso ai suoi libri, ai suoi studi; spalancano tutte le porte, buttano tutto
per terra, aprono cassetti e ne rovesciano il contenuto. Poi uno, che ha
raggiunto la torre, chiama gli altri con gioia selvaggia. Sono tutti su, adesso,
nella stanza sacra al sapere e alla contemplazione, dove la filosofa si è
rifugiata mille e mille volte, da sola o con il padre, lontano dai clamori e
dall’insensatezza del mondo; anche questo estremo rifugio deve essere ora
violato. I parabalani afferrano pergamene, volumi, tavolette, disegni, modelli,
macchine, tutto ciò che Ipazia ha scritto, pensato o inventato nell’arco della
sua intera esistenza. Non deve restare niente, proprio niente, di lei, così ha
detto Cirillo: tutto deve andare distrutto, fatto a pezzi o bruciato, affinché
di lei si perda ogni ricordo. Cirillo sarà contento: Cristo Re ha vinto, Ipazia
è morta, anzi non è mai esistita.
Caterina Contini
Ipazia e la notte, romanzo,
Longanesi, Milano, 1999
Capitolo 39, pagine 262-265