copertina del catalogo
Mostra delle pitture rupestri preistoriche del Tadrat Acacus - Sahara Libico
mostra tenuta Tripoli - Assaraya al Hamra
12 settembre - 12 novembre 1981
Giamahiriah araba libica popolare socialista
Segretariato dell'istruzione
Dipartimento delle antichità
sabato 28 marzo 2020
venerdì 27 marzo 2020
La morte di Ipazia
La morte di Ipazia
Ciò che doveva avvenire, alla fine, avviene. Oreste ha preso
una decisione, senza dubbio pessima: ha proibito una processione organizzata
dal vescovo Cirillo per portare in giro attraverso i quartieri popolari della
città il corpo del Beato Thaumasios. Pulcheria stessa, l’Augusta, aveva
autorizzato con una bolla imperiale il culto del «martire » parabalano. Ma
Oreste teme disordini: una pessima decisione, certamente, ma anche quella
opposta sarebbe stata pessima; ci sono momenti in cui tutte le decisioni sono
pessime e la buona semplicemente non esiste.
Alla notizia del divieto Cirillo reagisce chiamando a
raccolta i suoi fedeli, compresi i parabalani che cominciano a riaffacciarsi
per i vicoli della città, non promettendo nulla di buono. Il vescovo li
infiamma contro il prefetto, anche se non sarebbe necessario. Il prefetto,
dice, calpesta la religione di Cristo e perseguita i suoi fedeli; Ipazia, la
perfida consigliera di Oreste, è certamente l’ispiratrice di questa decisione.
Occorre reagire e combattere, in nome di Cristo, per difendere il diritto dei
cristiani alloro culto e alle loro devozioni.
Ipazia esce di casa, come ogni mattina, per recarsi al
Museo. Ogni giorno Demetra o Antinoo le ricordano che è in pericolo, che non
deve esporsi, che non è saggio sfidare la sorte. Ma sanno tutti e due che tali
raccomandazioni non hanno alcun effetto. Antinoo, comunque, l’accompagna; non è
armato, ma è forte e giovane, deciso a difendere la sua donna con tutte le
forze, fino alla morte. Ipazia sale sulla carrozza e Antinoo la segue a piedi,
per meglio sorvegliare la situazione.
La strada sembra deserta, cosa alquanto inconsueta. Antinoo
sente una fitta al petto, come un presentimento tangibile di qualcosa di
tremendo che sta per succedere. Mentre si guarda attorno, da ogni parte,
scrutando ogni angolo alla ricerca di uomini nascosti che stiano tendendo un
agguato, non sente i passi leggeri alle sue spalle, che si avvicinano
rapidamente. Sente solo la lama di un coltello entrargli tra le scapole e
ferirlo profondamente. Si volge e fa fronte al nemico, ma tutt’a un tratto i
nemici sono tanti, un gruppo di parabalani incappucciati, armati di coltelli e
di asce, che infieriscono su di lui massacrandolo come un agnello da macellare.
Riesce appena a gridare: «Ipazia, fuggi » e perde i sensi, in un lago di
sangue.
Ipazia non fa a tempo a fuggire, forse neppure lo vuole;
guarda il suo amato che giace a terra e ne incontra lo sguardo disperato, pieno
d’amore. Vorrebbe abbracciarlo, stringerlo forte a sé e dirgli come è stato
bello vivere insieme, amarsi, lavorare la terra e camminare insieme, nelle sere
autunnali, rientrare a casa insieme e prepararsi una cena frugale; insomma,
vivere, semplicemente, come tutte le coppie che si amano.
Perché non ha saputo accontentarsi, accettare un destino
semplice e felice? Perché ha trascinato Antinoo nella sua sventura? Ma non c’è
tempo per pensare, neppure per piangere. Una folla che si infittisce ogni
momento di più, un’enorme folla di gente in delirio, sta ora sopra di lei.
Riconosce, tra quelli che più le si avvicinano urlando e sbeffeggiandola, il
giovane Sergio, con il quale si era scontrata nella pubblica discussione, tanto
tempo fa. Ha serbato il suo odio per tanto tempo, pensa Ipazia, e ora pregusta
la vendetta.
L’hanno afferrata in tanti, la stanno trascinando verso il
Cesareo, il tempio cristiano. Deve morire lì, sul sagrato, perché Cristo si
appaghi del suo sangue e goda della vendetta contro la donna infedele,
istigatrice di pagani e di atei. Le gridano insulti e sconcezze, la toccano, le
strappano le vesti, gridano, ridono risate oscene. Si spingono gli uni con gli
altri, si calpestano, corrono come un branco di animali infuriati o sorpresi da
un incendio. Non sono più una somma di uomini, ma un unico immenso animale
acefalo che corre qua e là senza sapere dove né perché, reso cieco da un
immenso furore. Sono come una muta di cani che abbia annusato l’odore della
preda, ne abbia già assaggiato il sangue e non possa più fermarsi, non oda più
il richiamo del padrone che vorrebbe trattenerla. Hanno bocche spalancate
nell’urlo dell’odio, mani adunche che graffiano e sbranano, occhi sbarrati,
senz’altra espressione che un’ira cieca e bestiale. La tirano da ogni parte,
lacerandole la pelle e poi la carne; la prendono a calci sul ventre, sul petto,
sul viso. Uno le ha ficcato due dita nelle orbite ed è riuscito a cavarne fuori
gli occhi, due globi sanguinanti.
Ipazia è già morta da un pezzo, e la sua anima si è librata
lontano, oltre il cielo della luna, nell’altezza degli spazi siderali, vicino
alla luce totale, impossibile da guardare, che è l’occhio di Dio; ma sulla
terra, dove strisciano i vermi, gli uomini infieriscono ancora su di lei,
facendo a brani il suo corpo che ora è disseminato qua e là, di fronte alla chiesa,
miseri pezzi di carne umana, irriconoscibili, sui quali nessuno potrà piangere
e compiere riti funebri, perché non hanno più niente di umano.
Intanto un gruppo di parabalani forza la porta della casa di
Ipazia, malmenando i suoi servi e picchiando a sangue Demetra. Vogliono avere
accesso ai suoi libri, ai suoi studi; spalancano tutte le porte, buttano tutto
per terra, aprono cassetti e ne rovesciano il contenuto. Poi uno, che ha
raggiunto la torre, chiama gli altri con gioia selvaggia. Sono tutti su, adesso,
nella stanza sacra al sapere e alla contemplazione, dove la filosofa si è
rifugiata mille e mille volte, da sola o con il padre, lontano dai clamori e
dall’insensatezza del mondo; anche questo estremo rifugio deve essere ora
violato. I parabalani afferrano pergamene, volumi, tavolette, disegni, modelli,
macchine, tutto ciò che Ipazia ha scritto, pensato o inventato nell’arco della
sua intera esistenza. Non deve restare niente, proprio niente, di lei, così ha
detto Cirillo: tutto deve andare distrutto, fatto a pezzi o bruciato, affinché
di lei si perda ogni ricordo. Cirillo sarà contento: Cristo Re ha vinto, Ipazia
è morta, anzi non è mai esistita.
Caterina Contini
Ipazia e la notte, romanzo,
Longanesi, Milano, 1999
Capitolo 39, pagine 262-265
martedì 24 marzo 2020
Entità Fatate della Padania - Ovvero trattato dei Draghi, Fate, Folletti e di altre strane creature
Alberta Dalbosco e Carla Brughi
Entità Fatate della Padania - Ovvero trattato dei Draghi, Fate, Folletti e di altre strane creature che possono apparire in questa terra, dei loro usi e costumi e di alcune loro gesta ed imprese
Milano: Edizioni della Terra di Mezzo, 1993 248 pagine, Lit.35.000
Entità Fatate della Padania - Ovvero trattato dei Draghi, Fate, Folletti e di altre strane creature che possono apparire in questa terra, dei loro usi e costumi e di alcune loro gesta ed imprese
Milano: Edizioni della Terra di Mezzo, 1993 248 pagine, Lit.35.000
Nella edizione originale del diffusissimo divertente libro sugli gnomi di Wil Huygen e Rien Poortvliet, la cartina della diffusione europea delle simpatiche creature le dava per presenti nella penisola solo attorno al Monte Bianco e in alcune valli del Tirolo meridionale. Nella edizione italiana essi erano invece segnalati un po’ dappertutto, ivi comprese alcune lontane isole mediterranee. Se la seconda versione era dettata da evidenti ragioni commerciali, la prima risentiva di un luogo comune assai diffuso all’estero ma generato in Italia e secondo il quale la romanizzazione prima e la cristianizzazione dopo avrebbero completamente ripulito tutta la penisola da ogni traccia di culture preesistenti e di tutti i loro corollari di presenze fantastiche. Il “piccolo popolo” ed ogni altra entità fatata, panteistica o di sacralizzazione della natura avrebbero cioè abbandonato le nostre terre cacciati dal cristianesimo, dall’illuminismo e dal positivismo.
La ricchezza della mitologia tradizionale e della cultura dell’immaginario popolare europeo si sarebbe ridotta a sole fiabe moraleggianti o a storie “alla De Amicis”, edificanti, melense e patriottiche.
Il piccolo popolo non ha mai veramente abbandonato queste terre.
Lo dimostra questo libro. Il tono semiserio del lungo sottotitolo non rende giustizia a questo interessante e divertente lavoro di due appassionate studiose di cultura padana. In realtà esso è qualcosa di più di una affascinante lettura, è uno studio serio di “catalogazione” delle entità presenti nella tradizione e nell’immaginario popolare delle varie contrade padane. Ne risulta un elenco molto lungo e minuzioso di creature dai nomi bizzarri e dalle abitudini stravaganti, ne risulta un panorama estremamente variegato che tocca tutte le parti della terra compresa fra le Alpi e gli Appennini. Anche al di sotto dell’apparente leggerezza della narrazione, traspaiono il preciso raccordo e la derivazione dalla mitologia più “seria”, di cui queste creature sono la deformazione o la trasformazione popolare sopravvissuta a secoli (ormai millenni) di tentativi - sistematici e non - di cancellazione, di demonizzazione o di scherno. Certo esse dimostrano una forza di persistenza incredibile, sopravvissute ali eserciti di preti, esorcisti, predicatori e missionari che ne hanno distrutto i luoghi di culto, ne hanno ridicolizzato o colpevolizzato le immagini e perseguitato i credenti.
Grandi foreste sono state tagliate, pietre sacre ridotte a davanzali, montagne risacralizzate, fiumi cementati e un intero habitat (fisico prima ancora che culturale) è stato massacrato ma queste creature - evidentemente dotate di una forza incredibile - resistono nei più lontani recessi del territorio e delle menti degli uomini. La loro forza stà proprio nel legame con la natura e con la cultura popolare. Esse sono emanazione della natura, parte di essa ed esse riacquistano inevitabilmente vigore con la rinascita dell’amore e del rispetto per la natura. Esse sono i suoi primi e veri difensori, gli ecologisti più autentici. Gli esseri fatati proteggono la natura e puniscono gli uomini quando la trattano male: nani,uomini selvatici, gigiatt e servanot sono amici dell’uomo quando questi lo è della natura e - in caso contrario - gli organizzano dispetti tremendi. Essi sono emanazione delle più profonde radici culturali dei nostri popoli e non è un caso che somiglino tanto ai loro omologhi e parenti d’oltralpe. Il loro riconoscimento (nel senso di “conoscere di nuovo”), il loro ritorno di famigliarità costituisce un altro tassello della ricostruzione dell’identità di una terra oppressa anche nella dimensione fantastica da satiri mediterranei, topi americani e da puffi televisivi. Ancora una volta ritiratisi sui monti più alti e nelle vallate più lontane, i nostri si sono salvati ed ora scendono a valle a ripopolare il paese. Il loro ritorno è il nostro ritorno alle origini ed alla cultura dei padri, la loro libertà è la nostra. Anzi la loro stessa vitale esistenza costituisce per noi una bandiera di libertà ed uno sprone: questo paese non morrà mai finchè anche il suo piccolo popolo vivrà. Questa è anche la battaglia dei guriuz, dei mazapegul e di tutte le antre entità fatate che popolano (e rendono ancora più sacra) la nostra terra.
sabato 21 marzo 2020
Giuliano l apostata - La morte degli Dei
Luca Desiato
Giuliano l’apostata
La morte degli Dei
Romanzo
Mondadori, 1997, Milano
Al centro del vasto romanzo di Luca Desiato è l’enigmatica figura di Flavio Claudio Giuliano, l’imperatore che fu noto come “l’Apostata” e che i libri di storia ricordano quasi solo per uno sfortunato, effimero tentativo di restaurazione del paganesimo.
Eppure, Giuliano, come il periodo di passaggio, di enorme travaglio, in cui visse - un epoca al tramonto e un nuovo mondo in gestazione - fu personaggio di estremo interesse storico e umano. Sopravvissuto, assieme al fratellastro Gallo, al massacro della famiglia, educato al culto della classicità, lui stesso filosofo, introverso, malinconico, di indole complessa, vissuto in mezzo ai libri, arrivato al comando in seguito a circostanze fortuite, pur avendo un’allucinata percezione della realtà e pur sentendo stringersi la morsa dell’isolamento, dimostrò di saper essere imperatore e condottiero.
Imbevuto di cultura pagana, neoplatonica, misterica, fu iniziato ai culti di Iside e di Mitra, ma il suo sogno di un ritorno degli dèi si scontrò presto con le ragioni della trionfante religione cristiana. Da quest’uomo nevrotico, partorito da una storia che di rado fu tanto crudele, Desiato ha tratto un personaggio di appassionante inquietudine, ricco di tragica poesia. Figure tormentate, evocate dalle pieghe del tempo, lo attorniano: dal sanguinano Gallo all’orribile despota Costanzo, alla trepida moglie Elena.
Assolutamente attendibile nella ricostruzione storica, curata nei minimi dettagli, con Giuliano l’Apostata Desiato ci offre un romanzo di severo impegno, un’immersione totale in una delle epoche più inesplorate e confuse, in una delle sue anime più sensibili e torturate.
domenica 1 marzo 2020
Contro la Moda
Ugo Volli
Contro la Moda
Feltrinelli, 1988
Dalla quarta di copertina:
Viviamo circondati dalla Moda. Gli abiti sono Moda, naturalmente. Ma anche film, automobili, cibi, giornali, luoghi, politiche, pensieri sono oggi inesorabilmente soggetti alla legge della Moda, l’oscillazione obbligatoria del gusto collettivo.
Non tutto è Moda, senza dubbio. Ma non si può negare che la nostra società sia dominata dalle sue forme e dai suoi ritmi, al punto che oggi l’ipersviluppo della società dei consumi ha portato a una Forma Moda della cultura occidentale. E nel frattempo però la Moda vera, quella dei grandi creatori del passato, sembra dissolversi in un confuso mercato di immagini, dove quello che conta è il look, la simulazione esplicita dell’originalità.
Quali sono le leggi della nascita e della diffusione delle mode nella nostra cultura? Chi comanda le mode? E possibile sfuggirvi? Sopravviveranno al loro successo gli stilisti trionfanti? Quali sono gli svantaggi di una situazione in cui tutti sono obbligatoriamente felici? Contro la Moda parla di questo, del grande obbligo di piacere che ci controlla, del meccanismo in cui siamo sedotti e costretti assieme. Con lo sguardo minuzioso del semiologo, ma anche con la rabbia polemica del moralista. Perché in definitiva il potere della Moda non sta nel sistema economico o nelle strutture di potere del consumismo: prima di tutto dobbiamo cercarla dentro di noi, nel nostro modo di guardare il mondo. E dunque è arrivato il momento di preoccuparsi per l’inquinamento simbolico come per quello dell’ambiente fisico, e di progettare un’ecologia dei segni, come risposta necessaria al consumo di senso che la Moda ci impone.
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