venerdì 31 dicembre 2010

Un saggio di Lina Bolzoni sul rapporto tra scrittura e pittura. Il cuore di cristallo della nostra civiltà

Un saggio di Lina Bolzoni sul rapporto tra scrittura e pittura. Il cuore di cristallo della nostra civiltà
BENEDETTA CRAVERI
MERCOLEDÌ, 29 DICEMBRE 2010 LA REPUBBLICA - Cultura

Attraverso l´opera del Bembo si analizza un´epoca e come si è evoluta la cultura

Sono gli Asolani di Pietro Bembo a servire da punto d´avvio della splendida lezione di civiltà letteraria che Lina Bolzoni ci offre oggi con Il cuore di cristallo. Ragionamenti d´amore, poesia e ritratto nel Rinascimento (Einaudi). Una lezione che dall´indagine delle varianti testuali del celebre dialogo si estende via via alle altre opere dello scrittore, ai suoi modelli letterari - Dante, Petrarca, Boccaccio - , alla lirica a lui contemporanea, fino ad abbracciare la pittura e il ritratto. Sul filo di questo gioco vertiginoso di analogie e rimandi che costituiscono la sua ricerca, il saggio ricostruisce, infatti, "una vicenda pluridimensionale, in cui è possibile rintracciare, intorno ai grandi temi dell´amicizia, dell´amore, della rappresentazione dell´io, rapporti del tutto inaspettati".
Proviamo allora a ricordare alcuni momenti di questo viaggio che ci porta al cuore della civiltà italiana del Rinascimento. Pubblicati nel 1505, a Venezia, da Aldo Manuzio, gli Asolani sono la prima opera in volgare di Bembo (1470-1547), giovane e coltissimo patrizio veneziano. Ad imporsi all´attenzione è in primo luogo l´architettura narrativa di tipo ternario dell´opera: ci troviamo di fronte a tre libri, rispondenti a tre dialoghi - introdotti da tre canzoni - nel corso dei quali tre giovani gentiluomini illustrano la loro diversa concezione dell´amore a tre giovani dame. La cornice che dà il nome al dialogo è quella del castello di Asolo dove la regina di Cipro, Caterina Cornaro, sta festeggiando le nozze di una delle sue damigelle d´onore.
Tuttavia sarebbe sbagliato credere che questo elaboratissimo gioco di simmetrie rinvii a un discorso univoco. Il tre non è forse un numero magico? E, ricomposti insieme, i ritratti dei tre protagonisti del dialogo non ci offrono in realtà l´autoritratto dello stesso Bembo? E anziché l´amore non è piuttosto lo statuto stesso della letteratura ad essere qui al centro della riflessione? E la letteratura non apparirà allora come una vita vissuta indirettamente, "come un percorso che guida alla conoscenza e insieme una terapia dell´anima "?
Ma nel momento stesso in cui sembra investire la letteratura di un potere ermeneutico assoluto, Bembo si dimostra pronto a rimettere tutto in discussione. In che misura la ricerca della verità può essere compatibile con la vocazione ludica della scrittura? La letteratura non rischia di diventare una fuga e un rifugio nel sogno? E qual è la natura delle immagini mentali e il senso da dare alle figure del mito? Come mostra la Bolzoni, è proprio parlando dei sogni che Bembo rivela fino a che punto abbia fatto sua la lezione della Theologia platonica di Marsilio Ficino. Noi siamo quello che sogniamo non solo in vita ma anche dopo la morte e l´inferno altro non è che il mondo dei sogni che l´anima impura porta con sé. Ma in "questa radicale decostruzione del punto di vista sul mondo" suggerita nel terzo dialogo, anche il grande topos letterario della trasparenza del cuore innamorato così caro a Petrarca - "Avess´io almen d´un bel cristallo il core" - si rivela una ingannevole utopia.
Per quale singolare paradosso, allora, quest´arte della parola letteraria di cui Bembo non si stanca di celebrare la capacità di svelamento e che sola sembra detenere la facoltà di penetrare nell´interiorità e cogliere l´essenza delle cose, "si protende" continuamente verso l´immagine, fa così spesso ricorso a metafore visive e entra in gara con la pittura?
E´ proprio su questo rapporto complesso di "rispecchiamento e di competizione" che si instaura tra poesia e ritratto che Lina Bolzoni torna qui nuovamente a riflettere. Confrontata alla voga crescente del ritratto e all´enorme prestigio raggiunto dalle arti visive nella civiltà rinascimentale, la poesia intende, in effetti, giovarsi delle suggestioni che le vengono dal mondo delle immagini e, al tempo stesso, difendere la superiorità conferitale dalla tradizione. L´impresa si rivela però tutt´altro che facile. Se, poeta egli stesso, Michelangelo evidenzia il carattere comune del processo artistico, altri geni sommi come Leonardo e Tiziano rivendicano con intransigenza la superiorità del linguaggio pittorico.
Di questa splendida gara di emulazione a base di versi, iscrizioni, motti, emblemi, imprese, allegorie, medaglie, ritratti di cui Lina Bolzoni ci regala oggi la storia, mi limiterò a uno degli esempi più celebri: il ritratto "doppio" di Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, ad opera di Piero della Francesca, davanti a cui sfilano ogni giorno i visitatori degli Uffizi.
Colti di profilo, secondo il modello numismatico, i ritratti del duca e della duchessa di Urbino ci trasmettono un primo messaggio di straordinaria efficacia politica. Ma per trascendere le contingenze storiche e proiettare i suoi committenti nel mondo eterno dei valori, le loro effigi non bastano e, per dar voce a questo secondo messaggio, Piero ha dovuto, sul rovescio delle due tavole, raffigurarli di nuovo, facendo ricorso anche alla scrittura e al linguaggio allegorico. Questa volta i due sposi sono ritratti da lontano, seduti sui due carri di trionfo di cui due iscrizioni latine spiegano la valenza simbolica - la duchessa incarna la Modestia, il duca la Fama - mentre il paesaggio sullo sfondo sta ad indicare la continuità con i ritratti precedenti. In una sintesi vertiginosa tra storia e mito, tradizione letteraria e sapere antiquario, interiorità e immagine, i ritratti doppi dei duchi di Urbino disegnano così, sui due lati di una stessa tavola, i momenti successivi di un percorso comune a tutte le arti. Un percorso che va, come scrive la Bolzoni, dall´individuale all´universale e "che nutre la memoria, stimola all´imitazione, e si può variamente declinare".

giovedì 30 dicembre 2010

Posseduti ed esorcisti nel mondo ebraico

“Posseduti ed esorcisti nel mondo ebraico”
Bollati Boringhieri
J. H. Chajes

Accadde qualcosa, in Europa e nel Vicino Oriente tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, che coinvolse con intensità diversa le culture dei tre monoteismi. Gli storici parlano, al riguardo, di «demonizzazione del mondo». Espressione un po’ sinistra, e tuttavia efficace nel significare la concomitante recrudescenza, forse l’ibridazione o il singolare polifonismo, dei fenomeni di possessione, peraltro presenti in tutte le epoche e a ogni latitudine. Cambiavano gli agenti di intrusione nel corpo dei vivi – il Diavolo per i cristiani, o gli spiriti dei defunti che gli ebrei chiamavano dybbuk, o i demoni islamici – e spesso divergevano le interpretazioni del fatto, a seconda che si giudicasse o meno colpevole il posseduto, ma analoghi erano gli scotimenti della carne e i ricorsi a rituali di esorcismo per scacciare il temibile ospite. Nonostante l’abbondanza delle fonti nei singoli ambiti, il peso storiografico degli avvenimenti è rimasto imparagonabile. Mentre la stregoneria, con i suoi dispositivi giudiziari e i suoi epiloghi cruenti, ha avuto un rilievo indiscutibile negli studi sulla cristianità, finora mancava un libro organico sui posseduti ebrei.
J.H. Chajes provvede magnificamente a colmare la lacuna, in un saggio di antropologia storica ricchissimo di testimonianze da una letteratura sommersa, portata per la prima volta alla luce.
«Con il potere della nostra intelligenza è difficile capire come lo spirito di una persona morta possa agire in un altro corpo vivente e usarne tutte le membra e i sensi. In verità pare che sia una delle meraviglie del nostro tempo, eccezionalmente bizzarra»: così rifletteva nel 1586 un talmudista che aveva trattato un caso a Ferrara, riuscendo a farsi dire dallo spirito quanto fosse grande (circa un uovo di gallina) e in quale parte della giovane vittima giacesse (tra le costole e i lombi). I risvolti mistico-magici della possessione agitavano le comunità ebraiche da Praga ad Amsterdam, fino in Galilea, dove a Safed, dalla forte componente sefardita, era normale che i morti arruolassero i vivi. Attraverso la visionaria compenetrazione di mondo e oltremondo, gli inizi della modernità si popolarono dunque di anime trasmigranti e infestanti che confermavano l’esistenza dell’aldilà. Di questo baluardo eretto contro l’incipiente incredulità Chajes offre un quadro vivido, destinato a rivaleggiare con i classici sul demonismo cristiano.
[dalla quarta di copertina]

martedì 21 dicembre 2010

Beni archeologici: arriva la rivista "aperta" a tutti

Beni archeologici: arriva la rivista "aperta" a tutti
LIBERO – 12 dicembre 2010

Sarà presentata lunedì 20 dicembre presso la sala della Crociera, in via del Collegio Romano 27, la guida al patrimonio artistico ed etnoantropologico "Nel Lazio". Ad inaugurare questo nuovo progetto sarà Anna Imponente, soprintendente per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici della Regione Lazio, alla presenza della Presidente della Regione, Renata Polverini, il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Maria Giro, il direttore generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, Antonia Pasqua Recchia, il Direttore della Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte Maria Concetta Petrollo Pagliarani, il professore ordinario di Storia dell'Arte Moderna della Sapienza Università di Roma, Alessandro Zuccari e il giornalista e scrittore Andrea Caterini. La rivista nasce come strumento d'incontro tra istituzione e territorio, per far conoscere a un vasto pubblico, non solo di specialisti del settore, ma anche di amatori e turisti curiosi, gli interventi effettuati su un'ampia gamma di beni archeologici nel Lazio. La pubblicazione, composta di 138 pagine, si articola in diverse sezioni che illustrano il compito istituzionale di tutela alla promozione del territorio attraverso inediti, scoperte e riscoperte, nonchè interventi di restauro.

mercoledì 8 dicembre 2010

Eros e civiltà (e trasgressione...) in tre millenni di storia umana

l’Unità 8.12.10
Riscoperte
Da Creta all’India nel nuovo libro del Nobel un viaggio straordinario
Eros e civiltà (e trasgressione...) in tre millenni di storia umana
Escort e lap dance? No grazie Quando l’osceno era sacro
In libreria «L’osceno è sacro» di Dario Fo (a cura di Franca Rame, Guanda, pp.293, euro 20). L’osceno non quotidiano, l’osceno catartico: ecco un libro che ci fa riflettere davvero sulla trivialità. Di ieri e di oggi.
di Gaia Manzini

Anni luce dal bunga bunga, lustri da escort e accompagnatrici, dalla lap dance e sex and the city, dall’età di lulù e dalla depilazione brasiliana, prima dei cento colpi di spazzola (e prima pure delle spazzole), esisteva tutto un esercito di tòpole, che l’immaginario voleva gaudenti, più rubacuori, rubiconde e rubizze, di una rubi qualsiasi.
Già, perché nella tradizione popolare il sesso femminile impazza che è una bellezza dall’Alto al Basso Medioevo: la parpàja (farfalla), il mügnaghìn (albicocchina), la ciumachèlla, la pèrsega (pesca), la ciùccia, la cumachèna, lo sticchiu, il coño, la móna, la fessa, la muscarella (il muschio), il brolo tenerin de dolzo parfùmo (ma qui solo come «auto definizione»). Tutta una storia di trivio e giullarate, che Fo richiama a memoria per riabilitare l’osceno come tale, nella sua funzione giocosa e vitale, parte (ma, attenzione, solo parte) della cultura di un popolo.
Osceno che non è all’ordine del giorno (se no che osceno sarebbe?). Osceno che è e vuole essere osceno, per liberare da vizio e perversione. Osceno catartico, dunque sacro.
E, allora, ecco che non mancano all’appello miti greci ed etruschi, riletture apuleiane e cretesi giochi rituali. E poi, conte popolari che con bretoniano surrealismo mettono in scena sticchi parlanti e dotati di vita propria, che espongono le loro lamentazioni per l’onore calpestato e la dignità vilipesa, direttamente al Padreterno. Oppure storie di fanciulle siciliane violate e di satiri bavosi, che perseguono l’impunità grazie a la defénsa, la legge promulgata a loro favore da Federico II, come racconta Cielo d’Alcamo. Nobiluomini, che con le braghe ancora calate, potevano estrarre duemila augustari, gettarli sulla violata a mo’ di risarcimento e scampare così il carcere e il tribunale. Storie che ricordano pericolosamente tanti fabulazzi odierni, di quelli che fioriscono rigogliosi tra le pagine dei giornali, tra menzogne e agnizioni, finzioni e stratagemmi che manco Plauto...
LA PARPÀJA DIMENTICATA
Poi, storie dell’XI secolo, come quella di Alessia, la donna che non vuole concedersi allo sposo, Giavàn Petro, tonto e poco virile, e inventa che la sua parpàja è stata dimenticata alla casa paterna. Storie di falloforie e fanciulle gaudenti che cavalcano tori con mosse circensi. Storie sacre di ceri da chiesa che evocano altro, e che la tradizione popolare porta in processione e simbolica corsa verso anfore, che dicono di vita e fertilità. Storie desunte e rielaborate da Le mille e una notte. Infine, storie trecentesche di falli falliti, come quello di Bellomo. Falli che mettono in imbarazzo per la loro ingordigia e prontezza di riflessi, e allora, per un incantesimo, cadono insieme ai loro attributi, e così, tutti scissi l’un dall’altro, con personalità precise e a tutto tondo, falli, ammennicoli e «cavalieri sfallati (immagine da augurarsi profetica per l’oggi della nostra storia politica) diventano un’ottima compagnia di giro. Comici che neanche allo Zelig.
Come da copertina, gli splendidi bassorilievi indiani di Khajurhao, nel Madhya Pradesh, rappresentano pratiche erotiche e formosità femminili dalle avvenenti proporzioni. Eppure non c’è nulla di volgare. Nonostante le guide della città attirino i turisti con slogan di basso livello, «The most exciting tour in your life», una volta arrivati si assiste a uno spettacolo di pura e autentica bellezza. L’osceno, dunque, serve a trascendere se stesso e a restituire all’oggetto in questione piena dignità. Ma un problema rimane: se il triviale è parte della cultura d’un popolo, che dire quando (come capita dalle nostre parti) il triviale diventa la cultura di un popolo? Forse la ripetizione continua, la duplicazione arbitraria di fatti osceni e volgari, deve averci ormai anestetizzati alla trivialità... be’ allora, chiedo a Fo, cosa dovremmo fare? Ormai che i giochi sono fatti, a quale osceno sacro possiamo votarci?