l’Unità 14.4.11
Il libro di Russo e Santoni traccia la prima storia del sapere scientifico nel nostro paese
Il ruolo degli scienziati italiani fu fondamentale nella formazione dell’Unità d’Italia
Risorgimento e scienza: le relazioni prosperose
Risalendo a Fibonacci, primo matematico europeo, «Ingegni minuti» traccia una storia della scienza italiana, sottolineandone il ruolo avuto nel Risorgimento ma anche il mancato dialogo tra produzione e ricerca.
di Pietro Greco
Camillo Benso, Conte di Cavour, scriveva insieme ad Alessandro Volta sugli «Annali universali di statistica», una rivista fondata nel 1824 e a lungo diretta da Gian Domenico Romagnosi, giurista e fisico dilettante. Anche Carlo Cattaneo, il padre del (serio) pensiero federalista, collaborò alla rivista, prima di fondare a sua volta «Il Politecnico» nel 1839, perché i cittadini tutti avessero cognizione che la Scienza è il modo migliore per fecondare il campo della Pratica e accrescere «la prosperità comune e la convivenza civile».
Stanislao Cannizzaro, il più grande chimico italiano del XIX secolo insieme ad Amedeo Avogadro, partecipò ai moti siciliani del 1848 e dovette riparare in Francia inseguito da una condanna a morte da parte del Borbone. Macedonio Melloni, uno dei più grandi fisici italiani dell’Ottocento, fu destituito dall’insegnamento a Parma, dopo che nel 1830 aveva parlato ai suoi studenti della rivolta di Parigi. Riparò, in seguito, a Napoli dove gli fu chiesto di fondare e dirigere l’Osservatorio Vesuviano.
Il primo osservatorio vulcanologico al mondo fu inaugurato nel 1845, nel corso della settima «Riunione degli Scienziati Italiani», che portò nella capitale borbonica oltre 1.600 uomini di scienza provenienti da tutta Italia.
Hanno ragione Lucio Russo ed Emanuale Santoni, autori degli Ingegni minuti (Feltrinelli, pagine 506, euro 30,00), la prima storia completa della scienza italiana – dal 1202 (poi spiegheremo perché una data così precisa) ai nostri gior-
ni – e dei suoi limiti: quella del Risorgimento è semplicemente una storia monca se non tiene conto del ruolo che vi hanno avuto gli scienziati e la scienza. Per svariati motivi.
Perché gli uomini di scienza hanno partecipato in maniera attiva e da protagonisti assoluti al Risorgimento – anche in armi (esisteva, per esempio, un battaglione degli studenti pisani che ha partecipato alle battaglie di Curtatone e Montanara). E perché hanno partecipato in maniera altrettanto attiva alla costruzione dell’Italia appena unita: il fisico forlivese Carlo Matteucci fu Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia nel 1862; il chimico calabrese Raffaele Piria fu Ministro dell’Istruzione del governo Garibaldi a Napoli nel 1860, dopo la liberazione dai Borboni.
Perché la scienza è stato uno dei grandi collanti culturali che hanno creato uno «spirito nazionale». La prima «Riunione degli Scienziati Italiani» avvenne nel 1839, mentre l’Italia non esisteva – era ancora una costellazione di stati – ma gli italiani si percepivano come membri di uno stesso popolo e di una medesima nazione.
Perché, come ribadiscono Lucio Russo ed Emanuela Santoni, la scienza non era e non era vista come separata dalla politica e come un ruscelletto minore che scorre in parallelo al grande corso della storia. Ma, appunto, ne era componente essenziale.
Ma poi di tutto questo ce ne siamo dimenticati. Qual è la causa della damnatio memoriae che ricorre spesso nella vicenda scientifica italiana fin dalle origini?
LE ORIGINI
Il libro di Russo e Santoni ha molti meriti. Ci racconta in dettaglio la storia della scienza italiana fin dalle origini che risalgono, appunto, al 1202, quando Leonardo Fibonacci scrive il suo Liber Abaci e si afferma come il primo matematico e scienziato nella storia europea (Archimede appartiene alla cultura ellenistica e Roma non ha avuto mai una cultura scientifica sviluppata). Ci racconta di una scienza che ha avuto punte di valore assoluto – da Galileo ad Avogadro, da Redi a Fermi. Di una scienza che si è incontrata (nel Rinascimento, per esempio) o scontrata (con Croce e Gentile, per esempio) con gli intellettuali di diversa matrice culturale. Ma che ha avuto, sempre, una costante. Non ha mai incontrato un sistema produttivo che ha creduto nella ricerca scientifica e sulla ricerca scientifica ha fondato il suo sviluppo. Ed è questa incapacità, a ben vedere, il tema dominante della storia d’Italia. Prima dell’Unità. Ma anche dopo.
Certo ci sono state delle eccezioni, in cui il tessuto produttivo italiano è stato informato dalla scienza: nel Rinascimento, nella stagione risorgimentale (appunto), appena dopo la seconda guerra mondiale. Ma si è trattato di episodi, alcuni luminosissimi. Tutti rapidamente conclusi. Non dell’espressione di una cultura dalla radici profonde. Questa incapacità del sistema produttivo italiano di avere un rapporto critico ma stabile con la scienza spiega in buona parte la «crisi perenne» del paese. Il suo costante aggirarsi intorno al baratro. E, di tanto in tanto, caderci dentro.