La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Libertini /1
Un’antologia raccoglie testi, idee avventure di letterati tra XVII e XVIII secolo
Dai nei delle donne è nato l’Illuminismo
di Giovanni Bogliolo
Alberto Beniscelli (a cura di) LIBERTINI ITALIANI. LETTERATURA E IDEE TRA XVII E XVIII SECOLO BUR Rizzoli, p. XLI-911, 16,90
Il volume riscatta una fitta schiera di poligrafi e libellisti sempre relegati tra i minori Si occupavano di fede metafisica, o alchimia ma anche di temi più futili, come l’amore i piaceri, o la bruttezza
Se non fosse per il sottotitolo - «Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo» - il titolo della corposa e gustosa antologia costruita e riccamente annotata da Alberto Beniscelli - Libertini italiani - resterebbe, oltre che ambiguo, oscuro. Ambiguo, perché nell’uso corrente il termine «libertino» accomuna filosofi, eruditi e pensatori che, sfidando dogmi e poteri costituiti, hanno professato il loro libero pensiero alla colorita legione dei tanti estrosi personaggi che hanno praticato e celebrato soprattutto la libertà dei costumi sessuali. Oscuro, perché anche chi ha fatto buone scuole non ricorda di avere mai trovato questa etichetta né nei manuali di letteratura italiana né in quelli di filosofia e si sorprenderà non poco nello scoprire che essa non solo si attaglia perfettamente a scrittori e pensatori ben noti ed eterogenei come Bruno, Campanella, Giannone o Casti, ma riscatta anche la folta schiera di coloro che le storie letterarie definiscono «poligrafi», «mestieranti», «libellisti», «avventurieri della penna» e relegano, spesso limitandosi a citarne il nome, tra i minori e i minimi.
Omissione inspiegabile e anche un pochino sospetta, dal momento che il libertinismo francese, questo sì da tempo riconosciuto come uno dei fermenti che animano e rendono tutt’altro che monolitico il Grand Siècle creandovi le premesse dell’Illuminismo, ha sempre esplicitamente rivendicato le sue origini italiane, Machiavelli, Campanella, Cardano e soprattutto l’averroismo della scuola padovana di Pomponazzi e poi di Cremonini, che Peiresc aveva visitato e Naudé frequentato. Gli alunni italiani di quella e di altre scuole in cui circolava un aristotelismo eterodosso, anziché costituire una solida rete di rapporti come quella che aveva consentito agli omologhi francesi di dar vita, pur con molte precauzioni, a quelle che Naudé chiamava delle débauches philosophiques, si sono dispersi, cercando di passare inosservati, fuggendo come l’irrequieto frate Giulio Cesare Vanini che sarebbe finito sul rogo a Tolosa o usando, «in apparente contraddizione, lo schermo della trattatistica sull’anima per poter dire la loro».
Beniscelli li va a scovare in questa loro diaspora e dietro i loro camuffamenti e dal mare magno delle loro opere di poligrafi troppo spesso debordanti estrae con acume e pazienza le pagine più sapide e rivelatrici, collocandole con sicura dottrina nella precisa intersezione tra le diverse tensioni filosofiche e scientifiche che si sono susseguite nel corso dei due secoli e organizzando l’eterogenea e spesso scottante materia per temi, periodi e generi. Si spazia così dalla metafisica all’astrologia, dalla medicina alla religione, dalla politica all’alchimia, dalla storia alla fisiognomica. I temi più profondi e pericolosi - l’anima, la cosmologia, la natura dell’uomo si alternano con quelli solo in apparenza più futili: i nei, i mostri, la bruttezza, le donne, il niente, le forme e i gradi dell’amore. E alle memorie drammatiche delle vittime dell’Inquisizione - Cardano, Sarpi, Campanella, Bruno, Ferrante Pallavicino - fanno riscontro quelle avventurose di Casanova e di Lorenzo Da Ponte, le satire di Salvator Rosa, gli apologhi dissacratori di Francesco Fulvio Frugoni, le novelle sugli eccessi erotici delle giovani monache e delle antiche matrone, l’edonismo salottiero dell’abate Conti e di Francesco Algarotti, i versi licenziosi del Casti e perfino di Vincenzo Monti, ispirato traduttore della Pulzella d’Orléans di Voltaire.